di Rino Genovese
Questa rivista, che ha sempre difeso lo spirito della Costituzione, non coltiva tuttavia il culto feticistico della sua lettera. Non lo coltivavano per primi i nostri maggiori, i quali più volte dichiararono che l’attuazione del programma contenuto nella Carta andava vista come un passo verso conquiste sociali ancora più avanzate. Dunque non si tratta di essere contrari in linea di principio alle proposte di riforma costituzionale: il giudizio dipende strettamente dal significato politico del possibile cambiamento, e dal contesto entro cui quelle proposte si calano.
Prendiamo la partita che si sta giocando intorno al Senato. In generale non è affatto obbligatorio che la cosiddetta Camera alta sia eletta direttamente dai cittadini: ci sono ordinamenti in cui questo non avviene e che funzionano egregiamente. Ma si deve ricordare, una volta di più, che la nostra è una repubblica parlamentare, non una repubblica presidenziale. Toccare l’architettura costituzionale in un punto centrale – per esempio in quello del bicameralismo perfetto, con la fiducia votata dai due rami del parlamento – avendo come retropensiero un irrobustimento dei poteri dell’esecutivo e del presidente del Consiglio, anche soltanto nella forma di un premierato forte, questa tentazione che corre lungo tutto l’arco della cosiddetta seconda repubblica, da più di vent’anni, è una forma di bonapartismo in formato ridotto, adattissimo ai Berlusconi o ai Renzi di turno, ma del tutto in contraddizione con lo spirito costituzionale. A ciò ci opponiamo tenacemente.
Si dice: “Ma siete malpensanti: qui si sta unicamente cercando di risparmiare un po’ di denaro pubblico…” Un obiettivo di diminuzione della spesa potrebbe essere raggiunto anche con una riduzione del numero dei parlamentari, senza demolire il Senato attuale e lasciando in vigore il bicameralismo perfetto. No, l’idea che la maggioranza del momento debba comandare, e che l’eventuale dissenso, anche quello dei singoli parlamentari, debba essere assorbito rapidamente, appare sempre di più come il vero obiettivo della proposta di riforma costituzionale intorno alla quale si discute. Anche perché, ed è un importante elemento di contesto, si è legata una sostanziale abolizione del Senato a una riforma elettorale con premi di maggioranza e alte soglie di sbarramento – e con un possibile spareggio di marca plebiscitaria tra i primi due classificati – che lasciano pensare tutto il male possibile.
Il Senato, nella sua forma attuale, dev’essere cancellato perché costituzionalmente incompatibile con una legge elettorale come quella che si prospetta. Per l’art. 57 della Carta, infatti, il Senato va eletto su base regionale, e il tipo di spareggio che si prevede sarebbe invece su base nazionale. Nella sua struttura il Senato si oppone a qualsiasi forzatura elettorale che non tenga conto di ciò che vincola un collegio o una circoscrizione a un insieme di cittadini collocati in un territorio. L’idea della rappresentanza come rappresentanza locale è ancora più forte, nella concezione costituzionale del nostro Senato, di quanto lo sia in quella della Camera. Così perfino il “porcellum” – la legge elettorale precedentemente in vigore, voluta dalla destra e di fatto oggi abrogata dall’intervento della Corte – non è riuscito a “risolvere” la questione, portando con sé enormi maggioranze alla Camera che non sempre hanno avuto un equivalente al Senato. Ora si cerca di lasciarsi alle spalle il problema eliminando il Senato, e facendo per la Camera una legge elettorale fin troppo simile alla precedente. È questa l’autentica posta in gioco. Dopo di che – se la partita sarà vinta da Renzi e dai suoi strateghi – saranno fissate le premesse affinché il gioco politico presidenzial-plebiscitario, cui assistiamo da tempo, abbia il suo crisma anche sul piano costituzionale.