di Rino Genovese
Non è sempre facile individuare gli obiettivi di un terrorismo o di un episodio terroristico. Per rifarci a un esempio classico, gli attentati mirati degli anarchici, nella seconda metà dell’Ottocento e agli inizi del secolo scorso, avevano una logica politica, dovevano abbreviare i tempi della rivoluzione sociale, o erano solamente gesti di giustizia sommaria, punitivi nei confronti dei potenti e dei loro crimini? E la “strategia della tensione”, che insanguinò indiscriminatamente il nostro paese dalla strage di piazza Fontana a Milano fino a quella della stazione di Bologna, doveva segnare la ripresa del fascismo, o spingere comunque verso un golpe di destra, o non si trattava piuttosto di una “stabilizzazione al centro”, che contribuì alla lunga preminenza della Dc nella vita politica italiana? L’idea brigatista di “colpire al cuore”, costringendo lo Stato a recepire una logica di guerra civile,  con tutti i suoi proclami e le rivendicazioni, era più o meno “politica” di quella che determinò (con tutta probabilità da parte di Lotta Continua, che in se stessa non era un’organizzazione terroristica) l’assassinio del commissario Calabresi, senz’alcuna rivendicazione, solo per far capire ai responsabili della polizia che, ove mai fosse diventata un’abitudine la defenestrazione dei militanti interrogati, non sarebbe rimasta senza conseguenze?
Gli Assassini, una setta radicale sciita del Medioevo cui Bernard Lewis ha dedicato un bel libro (Mondadori, Milano, 1992), dalla quale proviene il nostro “assassini” con la minuscola, facevano fuori soprattutto musulmani, magari sunniti, meno frequentemente crociati occidentali, sempre con il coltello e mai con l’arco o la balestra, a maggior ragione neppure con il veleno, così da essere in ogni caso individuati e a loro volta fatti fuori. Perché lo facevano? Perché non si premunivano predisponendosi una via di fuga, cosa che a quanto pare avrebbero considerato disonorevole?
Cercare una risposta a questa domanda sarebbe essenziale per comprendere che cosa sia una volontà di martirio. Fanatismo – si dirà –, non a torto, però con qualche supponenza di marca illuministica. E se piuttosto si dicesse carica di potenza? In fondo la violenza, il suo spettacolo o l’immaginazione del suo spettacolo, perfino quello della propria morte, conferiscono un’enorme opportunità a chi è, o si sente, deprivato di tutto. Guidare un camion contro una folla inerme, sparare alla rinfusa davanti a un centro commerciale, sgozzare un prete sull’altare, conferisce – in un gesto, in un gesto soltanto – tutto ciò che la vita fino a quel momento non ha dato. Le ragioni attuali, del resto (nulla sapremmo dire di quelle degli Assassini di un tempo e del loro disegno di guerra civile all’interno dell’islam), risiedono tutte nella questione post-coloniale, che altri legge, molto riduttivamente, come problema degli immigrati. Se foste figli di padri che si trasferirono nella metropoli per lavorare e sfuggire alla miseria, se vi sentiste dei paria non accettati, per non dire “razzizzati”, se insomma l’intera vostra vita di adolescenti e di giovani fosse trascorsa come dei cittadini di serie B, se per giunta non vi fosse a questo la minima alternativa politica o utopico-concreta, beh, perfino senza ricorrere a un pretesto di tipo religioso collegato a una stramaledetta situazione internazionale, non potrebbe capitare anche a voi di pensare di ribaltare il gioco con un’esplosione di violenza che poi sarà detta terrorismo?