Studentidi Lanfranco Binni

L’egolatria “machiavellica” («Machiavelli, chi era costui?») del vendicativo serial killer di Rignano e le sceneggiate nazional-sottoproletarie del capobranco di Pontida non bastano a spiegare una non troppo evidente tendenza in corso. Il disegno renziano: dopo aver spinto Zingaretti al governo con M5S e LeU, uscito dal Pd in posizione di forza parlamentare, commissariare il partito dall’esterno e dall’interno (lasciando nel Pd i basisti di una scissione in futuro più ampia nei gruppi dirigenti), rompere definitivamente con la sinistra cattolica ed ex comunista del partito e riesumare in condizioni nuove, al “centro” dello schieramento politico, il progetto del Partito della Nazione («né di destra né di sinistra») già sperimentato con il patto del Nazareno. La prospettiva è un nuovo bipolarismo Renzi-Salvini che trovi nel fascio-leghismo un utile competitor mediatico. Il recupero elettorale di parte della base disorientata del Pd, prigioniera inerte dell’antico mito del “partito”, e il logoramento dell’area (parlamentare e non solo) del M5S attraverso astute schermaglie politiciste, sono i due corollari principali del disegno renziano. La cooptazione immediata nei gruppi parlamentari renziani di una senatrice di Forza Italia, i contatti in corso (noi non abbiamo le prove ma sappiamo che… ) tra il “centrista” Berlusconi e il suo allievo più promettente, il salvataggio dall’arresto di un deputato di Forza Italia grazie ai voti dei franchi tiratori renziani, sono tutti segnali di una tendenza in corso, a tempi accelerati. E una presunta area di centro democristiano sta concentrando gli oscuri desideri di tutte le forze politiche “a sinistra” del fascio-leghismo.

Lo “scampato pericolo” dalla deriva leghista del governo gialloverde, salutato per ragioni di “stabilità” dai mercati finanziari e da un’Unione europea indebolita da prospettive economiche di stagnazione e recessione, lascia intatte tutte le ragioni strutturali della crisi di sistema di cui la vicenda politica del governo è soltanto un aspetto parziale e di superficie. Crisi economica di un capitalismo manifestamente insostenibile, in posizioni marginali nello scenario della globalizzazione finanziaria che cerca scampo in politiche di guerra economica e militare in un pianeta devastato; crisi culturale di un modello di sviluppo che non produce “crescita” ma soltanto disuguaglianze intollerabili e crescenti povertà, rendendo impraticabile ogni illusoria ideologia consumistica e ponendo in primo piano la minaccia concreta di un cambiamento climatico mai affrontato dai governi; crisi politica della democrazia rappresentativa in un confronto drammatico tra gruppi oligarchici e interi settori di popolazione abbandonati alle miserie della discarica sociale; crisi demografica di un paese sempre più vecchio e incapace di rinnovarsi, di nuovo soggetto attivo di emigrazione; crisi geopolitica di un paese privo di sovranità nazionale, marginale in Europa e al servizio delle politiche del governo supremo della Nato.

È su questi terreni che dovrà misurarsi il nuovo governo M5S-Pd-LeU, in un quadro di aspre contraddizioni politiche e di limitate possibilità economiche che richiede scelte strategiche molto precise nel breve e nel medio periodo. Nell’area di governo coesistono storie e visioni politiche molto diverse, e la sua esperienza sarà inevitabilmente di “transizione”. Il M5S dovrebbe aver imparato qualcosa dalla fallimentare esperienza di governo con la Lega, ma i suoi “temi” (il taglio del numero dei parlamentari con la motivazione risibile di un risparmio economico, il ripetutamente affermato atlantismo in politica estera, una visione della “democrazia diretta” come questione puramente tecnologica, il mito dei capitalisti dal volto umano, l’ossessione compulsiva del dichiararsi «né di destra né di sinistra») sono segnali di un’inconsapevolezza politica perdonabile all’inizio della sua esperienza ma oggi insostenibile. Il movimento non è mai sceso sul terreno di una pratica sociale ispirata ai principi e ai metodi della democrazia dal basso, non si è mai confrontato seriamente con la storia delle tradizioni democratiche e socialiste di questo paese. Senza questo passaggio necessario, il movimento si chiuderà nella sfera assediata della “politica” di sistema; l’unica alternativa sarebbe aprirsi con decisione al lavoro politico di massa, per confrontare le idee con la prassi e costruire processi. E non basta, per sopperire al troppo debole radicamento nei territori, un’apertura elettoralistica alle liste civiche. I prossimi mesi saranno decisivi, un ultimo appello, per le sorti del movimento.

Il Pd di Zingaretti è oggi commissariato e ricattato dal nuovo partito di Renzi. Saprà costruirsi una credibilità di sinistra, in discontinuità con le derive neoliberiste degli ultimi decenni? Saprà trovare un ruolo di partito di sinistra nella società? E saprà LeU riattivare processi politici nella realtà sociale? Imprese ardue. Eppure dovrebbe essere chiaro al M5S, al Pd e a LeU, impegnati nella nuova esperienza di governo, che non solo di governo si tratta. In una crisi di sistema, ogni governo è comunque un aspetto parziale del sistema in crisi, e ne fa parte. Fuori dall’area di governo c’è la nota (in realtà, ignota) “prateria” delle classi pericolose che non si riconoscono nel sistema e non riconoscono i suoi riti di autoconservazione. Nella “prateria” ci sono i movimenti antisistema, di sinistra e di destra. Il nuovo governo è nato soprattutto come argine al populismo plebiscitario della Lega, per evitarne un probabile straripamento attraverso infauste elezioni anticipate. Gli attuali gruppi dirigenti della Lega sono l’esito di una lunga esperienza di governo a livello nazionale e locale in cui tutto si è intrecciato, dall’oltranzismo securitario alla chiusura identitaria, dalle complicità con il berlusconismo alle pratiche corruttive, dall’odio per gli stranieri alla giustizia fai da te. Ma è innegabile che nella crisi di un sistema politico ed economico che ha scaricato sulle classi subalterne le contraddizioni di problemi mai risolti (l’immigrazione, la precarietà, le crescenti povertà), la Lega abbia saputo intercettare settori consistenti di elettorato popolare (operai, artigiani, piccoli imprenditori) anche da settori di antica tradizione Pci. La collera sociale di questo elettorato che i vari governi di destra e di “sinistra” hanno abbandonato alle magnifiche sorti e progressive delle banche e del mercato, e di un’Unione europea che ne è fondamentalmente espressione, richiede attenzione e risposte, relazioni di pratica sociale per individuare le vere ragioni della collera, a riconoscere i veri nemici, a recuperare diritti negati. Questi settori popolari non possono essere lasciati nelle mani di un capobranco fascio-leghista. Svilupperà il nuovo governo politiche sociali conseguenti? Saprà fare politica in questa complessa, ma anche molto elementare, realtà? Come sarà affrontata la questione umana, politica, sociale e culturale, demografica, dell’immigrazione? Servono pensieri lunghi e visioni strategiche sul futuro di questo paese.

Democrazia e demofobia. La crisi attuale del sistema politico italiano è stata determinata dagli elettorati, di sinistra e di destra, che il 4 dicembre 2016 hanno bocciato (imprevedibilmente) la riforma anticostituzionale della banda Renzi, e alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 hanno sconvolto il quadro istituzionale spingendo al governo, con grandi aspettative di cambiamento, il M5S (33% dei votanti, con un astensionismo in forte calo). Le successive elezioni amministrative, regionali e comunali, e le elezioni europee del 26 maggio di quest’anno, in presenza di un governo M5S-Lega di separati in casa sulla base di un “contratto” che ha velocemente rafforzato la politica di estrema destra della Lega e costretto il M5S in posizione subalterna nonostante alcuni tentativi positivi ma limitati sul piano delle politiche sociali, hanno aperto la voragine di una crisi democratica allarmante. Si è acceso un fuorviante dibattito, pompato dai media ma alimentato dalle forze politiche di governo e di opposizione, sui temi semplificati del “sovranismo” e del “populismo”: uno scontro di estrema violenza tra democrazia e demofobia, tra forze politiche assediate e “classi pericolose”. Il disprezzo degli elettorati del M5S e della Lega ha lavorato per Salvini, aumentando vorticosamente il consenso popolare alla sua propaganda xenofoba e razzista, rievocando scenari plebiscitari (i «pieni poteri» mussoliniani branditi come una clava su qualunque opposizione). Il resto è storia recente, ma la velocità degli eventi non deve rimuovere quanto è accaduto. La democrazia è la lotta per la democrazia, la demofobia è un vicolo cieco che produce involuzioni e arretramenti.

In una crisi di sistema così profonda e conclamata come nella situazione italiana il ruolo di un governo e del Parlamento è fortemente limitato, non certamente esclusivo; se poi la crisi assume il carattere di un’implosione nella ristretta area di governo, come sta accadendo in questi mesi, di governo in governo, la questione del potere si pone in altri termini nella società di tutti.

La sinistra italiana, che esiste e attraversa, con la sua storia e la sua presenza diffusa (nei movimenti sociali, nella pubblica amministrazione locale, nella scuola pubblica, in un’estesa galassia di formazioni politiche, e anche nelle aree elettorali delle forze dell’attuale governo) può e deve assumersi la responsabilità di spostare decisamente “in basso” il baricentro della società, per costruire dal basso e fuori dall’area di governo, in posizione di controllo critico e conflitto, reti sociali di autonomia e autorganizzazione, operando nelle comunità locali per costruire e organizzare società. Pratiche relazionali aperte, su ogni tema della reale situazione italiana. Questa sinistra diffusa, che è influente anche sul piano elettorale come ha saputo dimostrare con i suoi voti e le sue astensioni, dal referendum del 2016 a oggi, è determinante sul piano della costruzione di una democrazia ispirata ai principi dell’egualitarismo, del multiculturalismo e di un socialismo libertario forte delle esperienze socialiste, comuniste e libertarie del Novecento. In questo piano di realtà sono centrali pratiche di democrazia diretta, relazionale, sociale.

«Il Ponte», che su questi temi ha una storia lunga 75 anni (il prossimo numero della rivista, storico e antologico, ripercorrerà il percorso della rivista dal 1945 a oggi), è un cantiere aperto, oggi come ieri. Sul tema della democrazia diretta per il socialismo, per operare attivamente in ogni settore della società italiana, insistiamo con tenace convinzione. Oggi l’umanità è a un bivio: farsi distruggere dagli orrori di una storia che gronda sangue, oppure costruire – con alta visione e alta passione – realtà liberate dalla schiavitù economica, dall’isolamento dei sudditi, dai poteri oligarchici, rovesciando «dal basso» le piramidi sociali. Creare e organizzare società di tutti non è un’utopia, è una necessità. Ognuno, in ogni settore della società, si faccia centro di un processo corale (relazionale, sociale, culturale e politico), ognuno sviluppi il proprio potere per il potere di tutti.

Permettetemi un piccolo cortocircuito di memoria storica: lavorando con Antonio Resta alla pubblicazione del carteggio tra Aldo Capitini e Luigi Russo, abbiamo ritrovato un articolo che lo storico e critico letterario aveva pubblicato nel gennaio 1946 su due giornali del Partito d’Azione, «Non Mollare» e «L’Italia libera», dopo aver assistito a un incontro del Centro di orientamento sociale, nella rete dei Cos progettati e organizzati da Capitini subito dopo la liberazione di Perugia nel 1944, istituito a Firenze nel dicembre 1945. Invitato dall’animatrice del Cos fiorentino, Eleonora Benveduti Turziani, azionista e poi militante comunista, sindaco di Scandicci dal 1951, espulsa dal partito nel 1965 per frazionismo “filocinese”, Russo esprime tutto il suo ammirato stupore per il carattere geniale e assolutamente inedito della situazione a cui ha assistito. Il titolo dell’articolo è C.O.S., angelica e diabolica invenzione. Lo ripropongo integralmente, fa pensare. A proposito di democrazia diretta e indiretta.

Avevo sentito parlare del C.O.S., cioè del centro di orientamento sociale, alcuni mesi fa ad Arezzo, e il suo primo inventore e organizzatore sapevo che era Aldo Capitini, un mio amico perugino, filosofo e singolarissimo uomo, che ne dava l’esempio a Perugia, sua città natale, con crescente partecipazione ed entusiasmo del pubblico.

Che cosa è il C.O.S.? Il C.O.S. è un’invenzione quasi diabolica, se le invenzioni dei diavoli poi, nella loro forma più matura e più perfetta, non coincidessero con quelle degli angeli; quindi la diremo un’invenzione tanto diabolica quanto angelica. È un’invenzione pedagogicamente assai ingegnosa, perché abitua il popolo all’autogoverno, abitua la cittadinanza alla discussione e al controllo dei problemi cittadini, permette un onesto sfogo alle passioni e ai crucci che si accumulano nella nostra fantasia per essere troppo chiusa, quando sentiamo bisogno di prendercela con qualcuno, ci fa conoscere, apprezzare o disistimare i nostri amministratori o governanti, in una parola il C.O.S. è una trovata assai geniale perché ci si avvii verso le forme di democrazia diretta.

Per ora sappiamo poco dei confabulari, degli intrighi o delle nobili e appassionate discussioni che gli uomini preposti alla cosa pubblica fanno nelle segrete aule dei loro uffici; forse qualche usciere ne sa qualcosa più di noi di quello che avviene, mettiamo, negli uffici dell’Annona, nell’ufficio alloggi, negli uffici dell’Igiene o negli uffici del provveditorato agli studi, o di quelli del rettorato dell’università; ci dobbiamo attaccare all’usciere, per sapere una qualche cosa, per essere illuminati su qualche provvedimento, sul perché di certe proibizioni o di certi mancamenti, così come in tempo di guerra [Russo si riferisce alla Prima guerra mondiale] ci attaccavamo (ed eravamo ufficiali) al piantone del comando di reggimento, per sapere se la sera o l’indomani si doveva andare a morire o si poteva dormire ancora una notte tranquilli.

Queste forme di democrazia indiretta, in cui noi deleghiamo alcuni a governare la “res publica”, sono certo un progresso rispetto alle forme degli stati autoritari e delle amministrazioni paternalistiche; teoricamente siamo ammessi anche noi al governo e all’amministrazione della cosa pubblica, ma in pratica sono pochi, quei pochi delegati, che se ne occupano e sono addentro alle segrete cose. Gli altri stiamo a guardare come i pellegrini e non pellegrini affamati che si aggirano attorno ai ristoranti di lusso e si contentano delle luci e del fumo delle vivande. Le forme di democrazia indiretta svegliano l’appetito democratico, ma non lo soddisfano; bisogna passare dunque a forme di democrazia diretta.

L’altro giorno la signora Eleonora Turziani, organizzatrice animosa e delegata del C.O.S. per la città di Firenze, mi telefonò e mi disse: «Professore, venga a una seduta del C.O.S., non stia sempre sui libri, e vedrà che le farà bene alla salute». Ricordando che l’inventore dei C.O.S. era quel curioso uomo di Capitini, non me lo feci dire due volte e corsi in Via Ghibellina 101, al circolo dei Postelegrafonici. Mi ritrovai in un teatrino di provincia, affollato della gente più diversa, mamme e babbi piuttosto pensierosi, ciò che chiamò subito la mia simpatia, e vidi sul palcoscenico quattro ombre che ora sedevano e ora si levavano e, amichevolmente, cordialmente, rispondevano alle domande del pubblico. Di che cosa si discuteva? Si parlava di cose assai ghiotte, dei biscotti della salute, delle paste natalizie, e del latte che viene da Soresina.

Riconobbi tra le quattro ombre del palcoscenico due miei amici, Nello Traquandi [stretto collaboratore di Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini dalla metà degli anni venti], assessore dell’Annona, e il prof. Palazzo, sul quale piovevano le domande da tutte le parti, e qualcuna anche sciocca e presuntuosa. Io temevo per i nervi dell’inquisito, il quale, giovane e siciliano, poteva scattare da un momento all’altro; ciascuno fa la storia secondo le attitudini e le possibilità del proprio temperamento, e io vedo nervi e scatti dappertutto. Ma il prof. Palazzo non se ne dava per inteso; rispondeva calmo, scientifico, semplice e popolare, rispondeva anche a una guardia comunale, che interloquiva non come guardia ma come consumatore, e voleva sostenere, per me una cosa assai difficile, che col microscopio si poteva vedere e misurare quanta acqua il lattaio aveva immesso nel latte del suo bambino. E il prof. Palazzo a dirgli pazientemente che questo poi non era addirittura possibile.

Della pazienza di Nello Traquandi non mi sono sorpreso; all’agil parola degli interroganti, egli rispondeva col giro dei pazienti occhi, l’inquisito restava imperturbato, imperturbato e solenne come un’ermetica divinità antica. Ma il prof. Palazzo doveva levarsi ad ogni momento perché l’organizzazione dei suoi servizi si estende a tutta la provincia e le sue ramificazioni giungono fino a Cremona e aveva un bel da fare per accontentare i suoi esaminatori. Eppure non perdette mai la calma: vedi potenza dell’educazione e del costume democratico!

Da questo scorcio di impressioni, il pubblico avrà inteso che queste riunioni del C.O.S. sono come un piccolo e volontario parlamento comunale, in cui si discutono i varii problemi cittadini, e i magistrati della città, a turno, una volta la settimana sono invitati a rispondere alle domande dei cittadini. Prossimamente interverrà, a una seduta, anche il Prefetto. I magistrati sono gli inquisiti, e il pubblico è l’inquirente; ma debbo riconoscere che il galateo democratico si sviluppa non soltanto sulla pelle del magistrato, ma anche su quella dell’interpellante.

Una interpellanza, se è irragionevole e insulsa, viene condannata dai rumori unanimi della sala: l’esame di maturità amministrativa e politica non solo lo passa il magistrato, ma anche il cittadino che protesta. Ciascuno deve pensarsi, prima di aprire bocca. Pena il ridicolo; così ci si educa tutti alla responsabilità politica: avevo dunque ragione di dire che quella del C.O.S. è una trovata diabolica e insieme angelica.

Adesso due parole sull’inventore del C.O.S.: Aldo Capitini è un filosofo sui quarantacinque anni, che è stato alunno e poi segretario della Scuola Normale Superiore di Pisa. Costretto nel ’32 a prendere la tessera per la conservazione del suo ufficio, rifiutò la tessera e perdette l’impiego. Si ritirò tranquillamente a Perugia, in una cella campanaria, poiché suo padre faceva il campanaio del palazzo del comune, e in quella cella campanaria Capitini faceva le sue meditazioni, le sue ripetizioni private e anche le sue cospirazioni politiche. E si nutriva e continua a nutrirsi ancora oggi della santa povertà. È un mistico del ’200 che vive con pieno agio nel nostro ’900; ha tutte le virtù di un asceta laico, ed ha un solo grave difetto. Nei cibi e nelle altre cose non tocca carne; e su questo punto io e lui naturalmente non andiamo d’accordo. Ma per un padrone di casa è l’ospite ideale: a tavola non dà nessuna soggezione, perché, come Pier Damiano, con cibi di liquor di ulivi egli passa caldi e geli, contento ne’ suoi pensier contemplativi. Però tutti lo invitiamo a pranzo; si fa figura di persone ospitali, proprio con poco.

Però aggiungiamo che, per questo suo vivere sottile, Capitini ha anche ingegno così sottile e probabilmente un tantino malizioso: è filosofo angelo ma è anche un filosofo demonio. Questa del C.O.S. è una trovata assai geniale. I cercatori di cariche sono avvertiti: verrà un giorno in cui in tutte le città d’Italia funzioneranno questi piccoli parlamenti volontari e si farà a pugni per potervi entrare. Tutto sommato, in queste discussioni bonarie, e a tu per tu, ci si comincia a conoscere e a volersi più bene, s’imparano un mucchio di cose e si torna a casa con i nervi più pacati e più soddisfatti. Questo è il valore della democrazia diretta e però bisogna incoraggiarne le forme in tutti i modi.

L’invenzione «angelica e diabolica» dei Centri di orientamento sociale sperimentati da Capitini nell’immediato dopoguerra (ma ne avrebbe riproposto sistematicamente il senso e il metodo fino alla morte nell’ottobre del 1968) decostruiva concezioni politiche e poteri (economici, politici, sociali, culturali e religiosi), operando su un altro piano di realtà (aperta alla complessità, liberata “qui e ora”) e opponendo al primato dell’economia il ruolo determinante dell’ideologia, della visione del mondo, del libero sviluppo del potenziale umano. Il capitalismo terminale, sostiene Thomas Piketty nel suo ultimo lavoro, Capital et idéologie, non riesce più a giustificare le disuguaglianze su cui si fonda; la crisi è strutturale ma soprattutto ideologica e politica. Questa è la vera frontiera di lotta contro le catastrofi dei sistemi in crisi, il terreno principale e necessario delle alternative di sistema. Autonomia, autorganizzazione, nuova socialità, democrazia dal basso per un nuovo socialismo del XXI secolo coerentemente partecipativo, internazionalista e multiculturale. Lo scenario mondiale è in rapida trasformazione: la crisi dell’unipolarismo statunitense, il declino dell’Unione europea (ma l’Europa è un’altra cosa), il rafforzamento delle strategie della Repubblica popolare cinese e della Russia, la nuova centralità politica del continente africano, non disegnano soltanto un mondo fortemente e conflittualmente multipolare in cui tutto (sovranità nazionali, modelli di sviluppo economico, relazioni fra Stati) è in gioco, ma rivelano soprattutto il fallimento delle culture e delle politiche neoliberiste. Le drammatiche, evidenti, conseguenze dei cambiamenti climatici, provocati da un capitalismo predatorio e devastante, pongono la necessità urgente di radicali cambiamenti sociali e politici. L’Italia “atlantica” è inserita in questo scenario in movimento. Servono scelte radicali sui terreni della politica estera e delle politiche sociali, su cui si misureranno governi (tutti di transizione instabile) e società.