di Lanfranco Binni
Si susseguono, devastanti e a ritmo incalzante, le “ondate” delle quattro grandi crisi connesse con la Covid-19: la crisi sanitaria provocata da una pandemia fuori controllo in gran parte del mondo; la crisi economica che accentua le derive malthusiane del capitalismo in tutte le sue forme, arcaiche e neoliberiste; la crisi politica delle “democrazie” liberali occidentali; la crisi climatica del pianeta. Su ognuno di questi terreni i processi in corso sono tumultuosi, complessi e “caotici”. La pandemia ha accelerato e messo a nudo le vere realtà, concrete e drammatiche, di una storia catastrofica. In questo numero del «Ponte» di fine anno ne scrivono Giuliano e Piergiovanni Pelfer (Il Coronavirus e la fine delle certezze), Emiliano Brancaccio (Catastrofe o rivoluzione), Giancarlo Scarpari (Che ve ne sembra dell’America?). In particolare il testo di Brancaccio sollecita un aperto confronto teorico-politico sulle necessarie e radicali alternative alla “catastrofe” dell’antropocene capitalistico.
Cattive nuove dal fronte dei virus
Sostiene la microbiologa e virologa Maria Rita Gismondo, nella sua rubrica Antivirus su «il Fatto Quotidiano» del 12 novembre, che stanno circolando in Italia e in Europa, “fuori controllo”, almeno sei varianti di SarsCoV2. Il titolo dell’articolo: Virus, la mutazione è più “cattiva”. Ne riporto integralmente il testo.
Il “mostro” non si arrende e si manifesta ancora con tutte le sue peggiori armi. Mentre la storia ci riferisce epidemie e pandemie che nel tempo, grazie alle mutazioni del virus che le ha prodotte, si sono estinte, studi recenti di genotipizzazione ci hanno dimostrato che non sta accadendo così per SarsCoV2. Per mesi ci siamo meravigliati perché il virus che ci sta affliggendo non mutava. Siamo rimasti in attesa che si facesse avanti una mutazione, dando per scontato, come ci insegna la virologia, che questa avrebbe reso la pandemia meno aggressiva fino a estinguersi. Le mutazioni sono arrivate, ma nulla di quanto ci saremmo aspettati. Recenti studi hanno evidenziato ben cinque varianti (19A, 19B, 20A, 20B e 20C). Circolano in Italia e studi in corso ne stanno verificando la circolazione in Europa. Anche se non si conosce l’effetto di ciascuna mutazione, certamente i virus che le presentano non sono affatto più “deboli”. Nel frattempo ecco arrivare un’altra notizia su una ulteriore variante che si sta manifestando nei visoni. La prima osservazione è stata fatta in Belgio in circa un migliaio di esemplari. Oggi si pensa che il virus abbia già infettato decine di migliaia di visoni, e molti di questi sono stati esportati in altri paesi, compresa l’Italia. Il virus con la nuova mutazione si diffonde molto rapidamente e ha già imparato a infettare l’uomo. Un salto di specie così rapido è quasi un evento unico. Oltre a una aggressività ancora tutta da valutare, questo “nuovo mostro” potrebbe vanificare terapie e profilassi che sono in studio. Mi riferisco agli anticorpi monoclonali e ai vaccini, in particolare. Se la (o le) mutazione (i) dovesse (ro) risultare localizzata proprio nella parte di virus utilizzato come target del vaccino, gli studi e le prove fatte fino a oggi sarebbero da cestinare, così come le terapie immunologiche. Si fa veramente fatica a essere ottimisti.
E se fosse una sindrome e non una pandemia?, aveva intitolato Maria Rita Gismondo un altro suo articolo del 3 ottobre, stesso quotidiano, stessa rubrica. Anche in questo caso le implicazioni teoriche e pratiche erano (e sono) numerose. Riporto integralmente anche questo testo, che in Italia non ha suscitato, come l’autrice auspicava, riflessioni pubbliche:
Richard Horton, il 26 settembre, ha pubblicato su «Lancet» un articolo che non rimarrà inosservato. Il titolo è già eloquente, COVID-19 is not a pandemic («il Covid-19 non è una pandemia»). L’autore sostiene che l’approccio nella gestione della diffusione, ma soprattutto della patologia sia sbagliato, perché la crisi sanitaria è stata affrontata come determinata dalla malattia infettiva. Affermazione scioccante che mina alla base otto mesi di gestione del fenomeno. Horton non è un matto, è uno degli editorialisti più quotati di «Lancet». Con qualsiasi altra firma avremmo abbandonato l’articolo con una smorfia sarcastica. Invece è Horton. Certamente non è un “negazionista”, ma uno che ha un orizzonte sempre “più in là”. Condanna i governi che hanno gestito la crisi solo come una catena di contagio virale da interrompere. Sostiene che, in realtà, interagiscono due categorie di malattie: l’infezione dovuta a SARS-CoV-2 e una serie di malattie non trasmissibili. Queste condizioni si raggruppano all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società. Secondo Horton non è una pandemia, ma una sindrome (più elementi patologici). Significa che è necessario un approccio più sfumato. Limitare il danno richiederà un’attenzione maggiore alle malattie non trasmissibili e alla disuguaglianza socioeconomica. Le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra condizioni e stati, interazioni che aumentano la suscettibilità di una persona a danneggiare o peggiorare i loro risultati di salute. Da qui la deduzione logica che, piuttosto che esclusivamente tracciare il virus, bisogna agire sulle condizioni che lo favoriscono. Eliminare, ove possibile (esposizione degli anziani e dei malati cronici), migliorare le condizioni sociali. Detto così, ci stupisce meno, visto che molti di noi abbiamo affermato che si tratta di un opportunista. Dobbiamo, lo fa intendere anche Horton, eliminare le opportunità che rendono facile al virus di colpirci.
L’opportunismo “resiliente” del virus deve dunque essere affrontato sui terreni delle sue interazioni sociali, economiche e climatiche, considerando quindi la “pandemia” una crisi essenzialmente politica; a questa lettura della questione virale Horton ha dedicato negli scorsi mesi un libro importante, Covid-19. La catastrofe (Roma, Il Pensiero Scientifico, 2020). E la “pandemia” globale richiede necessariamente risposte globali. Non sta accadendo questo, anzi il contrario: chiusure dei confini, particolarismi locali, appelli patriottici a unità nazionali contro il nemico ignoto, esorcismi e scongiuri. Le semplificazioni dei media tagliano a pezzi la complessità, negandone gli aspetti indicibili, riducendo il tutto a una banale questione sanitaria: il nemico è il virus, dobbiamo vincere e vinceremo! Come tutti sanno, la guerra al virus è affrontata con il tradizionale strumento dell’isolamento degli infetti; dal Medioevo si fa così, e così bisogna fare. Così è stato fatto in Cina, con risultati indiscutibili. Così non è stato fatto nell’Occidente del primato di un’economia che non ammette tregue predatorie né strategie di lungo periodo. Eppure, dietro e intorno al virus e alla sua marcia per ora trionfale c’è tutto il resto: dai cambiamenti climatici ai “salti di specie”, dalla devastazione del pianeta alla crisi del “modello di sviluppo” capitalistico, a un’endemica guerra civile globale determinata da disuguaglianze intollerabili e inarrestabili.
Quanto sta accadendo negli Stati Uniti, nel cuore del vecchio impero occidentale, intorno alle elezioni di novembre, è paradigmatico. Nella sconfitta di Trump (ma non del suprematismo bianco vivo e vegeto, e armato) hanno giocato un ruolo fondamentale la pandemia negata e incoraggiata dai poteri economici e i movimenti di rivolta antirazzista delle sempre più estese “minoranze etniche”; la vittoria del Partito democratico è stata trascinata da questi processi interni alla “società”, più forti delle regole da sempre antidemocratiche della pretesa democrazia statunitense. Quei processi sono in corso e svolgeranno nei prossimi mesi un ruolo importante di pressione dal basso rispetto agli assetti di potere; la tempesta non è finita e produrrà nuovi conflitti nel ventre del Leviatano. Già nelle prossime settimane, in Medio Oriente, in un teatro di guerra fondamentale per l’impero “alla guida del mondo”, l’amministrazione Trump non mollerà l’osso dell’attacco all’Iran, preparato dal cosiddetto «Accordo di Abramo», mettendo a nudo la stessa politica estera dell’amministrazione Biden che non segnerà una svolta nelle strategie degli interessi del “partito unico” trasversale che unisce repubblicani e democratici: «America first for ever». Come non cambierà la politica estera statunitense nei vari teatri di guerra economica e militare, dalla Cina all’America latina. Cambieranno forse i “toni” comunicativi, ma non la sostanza. Il rafforzamento della Nato sui fronti est e sud è stato il primo messaggio urbi et orbi di Biden dopo la vittoria elettorale. Ma quello stesso Biden dovrà fare i conti con i movimenti “dal basso” nella società americana, e non solo perché hanno svolto un ruolo determinante nella sua elezione. Come dovrà fare i conti con le strategie in corso, e per molti aspetti vincenti, della Cina e con il declino dei modelli di sviluppo del “mondo libero”. A livello planetario il dilemma “catastrofe o socialismo” diventerà la questione principale.
Un nuovo socialismo
In Italia la pandemia sta accelerando l’implosione di un sistema politico in crisi in tutte le sue articolazioni istituzionali e “rappresentative”. In una politica ridotta a pessima amministrazione di un esistente avvelenato da interessi privati e antisociali, in un intreccio morboso tra economia e criminalità “legale” e illegale, la crisi sanitaria e le sue conseguenze sociali ed economiche hanno messo a nudo l’inefficienza e l’inadeguatezza dello Stato centrale e delle Regioni, e gli equivoci anticostituzionali delle cosiddette riforme “federaliste”, dal Titolo V all’elezione diretta dei sedicenti “governatori”, alle rivendicazioni di “autonomia differenziata” e separatista; alla dura prova dei fatti, la concentrazione del potere politico a livello centrale e nelle satrapie regionali in nome di un inesistente federalismo sta producendo un paesaggio istituzionale devastato, proprio mentre il “pubblico” appare come l’ultima spiaggia dell’organizzazione sociale, naufragate le magnifiche sorti e progressive del “privato”, dell’ordoliberismo e del “meno Stato”. Il governo rincorre come può la “gestione” della tempesta, galleggiando sui marosi, zattera della Medusa. I “ristori” a debito dello Stato ristorante si stanno esaurendo, e non serviranno vecchi rimedi politicisti e disperati come l’unità nazionale di “tutti contro il virus” che già vede impegnati gli esperti negoziatori di destra e di “sinistra”, con i soliti scambi di favori reciproci.
Il dramma storico dell’Italia, l’assenza di una classe politica all’altezza dei contenuti più democratici della Costituzione inattuata del 1948, si ripresenta puntuale. E si ripresenta in tutta la sua urgenza la necessità di una radicale e fortiniana “verifica dei poteri” nella società di tutti, strumento oggi indispensabile per la ricostruzione dello Stato e di una nuova socialità in un paese in cui l’“autonomia del politico” ha istituzionalizzato le libere scorribande dei gruppi di potere oligarchici (l’“aristocrazia” dei peggiori) e l’esclusione della grande maggioranza della popolazione dal potere di tutti, trasformando una democrazia “mai stata” in demofobia. La nuova socialità diffusa nelle numerose esperienze di autonomia e autorganizzazione “dal basso”, unita a una ripresa dei temi del socialismo storico e a venire, nelle sue varie declinazioni (socialismo libertario, comunismo critico, anarchismo), è la risposta su cui impegnare progettazione teorica e pratica politica.
«Il Ponte», erede del “liberalsocialismo” (massimo socialismo e massima libertà, internazionalismo) che costituì negli anni trenta una delle principali esperienze teoriche e pratiche dell’antifascismo, della Resistenza, della Costituente e dell’opposizione alla Repubblica clericale e trasformista dal dopoguerra in poi, partecipa come cantiere progettuale a questo processo che non può non essere relazionale e collettivo. Nei prossimi mesi, come contributo allo studio del nostro passato dal punto di vista del nostro presente, per il socialismo, pubblicheremo una puntuale ricostruzione della stagione del liberalsocialismo italiano attraverso le voci dei suoi protagonisti, socialisti libertari, radicalmente alternativi alle derive intellettuali e politiche del pensiero politico liberalproprietario.
Dal controllo al potere
Teorico e organizzatore del liberalsocialismo socialista, dall’antifascismo degli anni trenta alla democrazia diretta nel 1968, Aldo Capitini rilanciò i risultati delle sue esperienze di pensiero e azione politica nella sua ultima opera, Omnicrazia: il potere di tutti1; è interessante rileggerne il paragrafo «Dal controllo al potere», per una riflessione sul nostro presente, sui nostri compiti. Sulla relazione teorico-pratica tra omnicrazia e compresenza si veda anche di A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, introduzione di Giancarlo Gaeta, nella collana «Opere di Aldo Capitini», Firenze, Il Ponte Editore, 2018.
Come passare dal controllo al potere? Il controllo, nelle sue tre forme: informazione esatta, critica adatta, progettazione progrediente, è già potere; accrescere l’una o l’altra delle forme, secondo la propria capacità, è sviluppare l’omnicrazia.
Alcuni sociologi distinguono il “potere” dalla “autorità”, nel senso che il primo è la probabilità che la volontà vinca gli ostacoli che incontra, la seconda è la probabilità che un gruppo trovi obbedienza per i suoi comandi. Ma noi, che non consideriamo che l’ambito sociale, possiamo mettere in disparte il fatto semplice della volontà individuale che riesce a realizzare qualche cosa. Qui dobbiamo vedere come il controllo si fa potere entro la società, o acquista “autorità”. Usiamo, dunque, il termine in senso generico: il potere come capacità di realizzare progetti (tra cui proporre norme), con la probabilità di vedere realizzati i progetti e le norme ubbidite.
Qui interviene, con un suo contributo, la persuasione della compresenza in questi due modi:
l. se i progetti e le norme hanno un fondamento evidente e puro nella realtà di tutti, è più probabile che essi incontrino il consenso di molti; la persuasione della compresenza e della omnicrazia è una garanzia che pesa a favore dell’accettazione dei progetti e delle norme, quindi esse hanno un potere, in virtù non del loro riferimento all’interesse individuale, ma di un riferimento alla realtà di tutti;
2. esiste un ordine sociale che è la convivenza di tutti e non è il semplice interesse individuale; un persuaso della compresenza e dell’omnicrazia può tralasciare la difesa di tale ordine sociale in quanto egli teme di sottoporre tale ordine al proprio vantaggio individuale, e può tralasciare di vedere la difesa dell’ordine sul piano della guerra, la quale oramai viene condotta come strage e può arrivare all’uso, oltre che delle armi chimiche, delle armi nucleari, il che deforma ogni carattere umano della lotta. Ma rimane il semplice ordine sociale come convivenza pubblica, come rispetto di quelle istituzioni che spesso sono strumenti del potere di tutti. E qui è possibile collaborare con chi usa quegli strumenti coercitivi che sono semplicemente applicati a frenare e sviare l’individuo che attenti a tali “strumenti che sono di tutti” e che non segua, quanto potrebbe, la pressione intima della compresenza che lo indurrebbe a tale rispetto. Mentre non è possibile collaborare sul piano della guerra o guerriglia, che porta a stragi, terrorismo, tortura, cioè ad una violenza che prende la mano rispetto al motivo originario, è possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro la stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto, strettamente condizionata nei modi (quante armi si possono usare che non uccidono!), accompagnata costantemente da un soffio omnicratico; il persuaso della nonviolenza può, personalmente, non usare nemmeno questo tipo di violenza, se il suo compito è di richiamare costantemente al fine; ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra.
Io non potrei stare in un governo che può dichiarare la guerra, ma non avrei difficoltà a stare in un’amministrazione di ente locale. Questo rispetto dell’ordine locale:
1. non significa accettazione dell’ordine costituito, da difendere ad oltranza, ma il riconoscimento che si può mantenere la convivenza nonviolenta tra gli abitanti di una località, che è di ambito modesto, mentre si può, nello stesso tempo, portare avanti la rivoluzione nonviolenta con le sue tecniche per trasformare le strutture e tutta la situazione locale;
2. mette in primo piano l’“ente locale” (in Italia la borgata, la frazione, il comune, la provincia, la regione), perché in queste dimensioni può meglio realizzarsi l’ispirazione nonviolenta e omnicratica, nella diretta conoscenza delle persone e dei problemi, nella permanente democrazia diretta, ricca di profondi motivi etici ed educativi, e aliena da imperialismi atomici!
1 Scritta nella primavera-estate del 1968, a pochi mesi dalla morte, fu pubblicata postuma nel 1969 con il titolo Il potere di tutti, a cura di Luisa Schippa e Pietro Pinna, introduzione di Norberto Bobbio, Firenze, La Nuova Italia. Con il titolo originario Omnicrazia: il potere di tutti è stata ripubblicata nel 2016 in A. Capitini, Attraverso due terzi del secolo. Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Firenze, Il Ponte Editore, e nello stesso anno in A. Capitini, Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di L. Binni e M. Rossi, ivi.