Obamadi Vincenzo Accattatis

«Mr. Speaker, Mr. Vice President, Members of Congress, miei concittadini», siamo nel nuovo secolo da 15 anni. 15 anni di vita difficile: due lunghe e costose guerre e «una difficile recessione», «tempi duri per molti», ma lo Stato dell’Unione è solido, l’America è in ripresa economica e resta la nazione piú potente del mondo. Oggi, per la prima volta a partire dal 9 settembre, la nostra missione in Afghanistan è terminata. Anche la guerra in Iraq volge al termine. Siamo orgogliosi del coraggio e della capacità di sacrificio degli uomini e delle donne «della Generazione del 9 settembre», ma su guerra e pace occorre essere saggi  sto riprendendo dallo «State of the Union Address» di Obama del 20 gennaio scorso. Obama continua. Quale «Commander-in-Chief», il mio primo dovere è quello di difendere gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti guidano il mondo, ma «… the question is not whether America leads in the world, but how», il mondo si governa usando la testa, non solo le armi.

Obama risponde cosí a quanti l’hanno accusato e l’accusano di codardia, di non essere un presidente all’altezza. Alcuni titoli dell’«Economist» lo fustigano: The courage factor («The Economist», 19.03.2011), The reluctant warrior («The Economist», 26.03.2011), Fight this war, not the last one («The Economist», 07.09.2013). Con la sua codardia Obama mette in pericolo tutto l’Occidente: The weakened West («The Economist», 21.09.2013  titolo a tutta coperta) e Le professeur Obama et ses ambivalences distinguées («Le Monde», 30.05.2014 editoriale). In Occidente vi sono molti guerrieri.

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, quale «Commander-in-Chief», Obama ha trattato di Afghanistan, di Iraq, di Syria, di Isil, di Medio Oriente, di Iran, della Russia e ha affermato il falso: «noi ci atteniamo al principio secondo il quale le nazioni piú grandi non devono schiacciare le piú piccole». La storia degli Usa ci dice, invece, l’esatto contrario, come ha scritto e ripetuto Noam Chomsky.

Nel discorso sullo Stato dell’Unione, su Cuba Obama ha sostanzialmente ripetuto il discorso fatto al momento della decisione di riprendere le relazioni diplomatiche interrotte nel 1961 e, ancora una volta, ha ringraziato il Papa per la sua mediazione. Un Obama “pacifista”, che ringrazia il Papa, non piace ai guerrieri occidentali, non all’«Economist», e non a Binyamin Netanyahu, che, raccogliendo l’invito dei repubblicani allo sbando, è andato a sfidarlo in casa, al Congresso. Sfida grave, a mio avviso inaudita: i guerrieri superano il Rubicone, tolgono al presidente degli Stati Uniti lo scettro – siamo in presenza della nuova governance occidentale.

Se si segue la politica di Obama, ha dichiarato Netanyahu al Congresso Usa, inevitabilmente si arriverà alla guerra nucleare. La sua politica in Medio Oriente è erronea, va mutata (Dan Roberts, Netanyahu tells Congress: nuclear deal paves Iran’s path to the bomb, «The Guardian», 03.03.2015).

Netanyahu ha iniziato il suo discorso ricordando il «complotto persiano» volto a distruggere Israele 2.500 anni fa: contro «il nemico comune dobbiamo restare uniti». La Persia 2.500 anni fa, l’Iran aggressivo, iperaggressivo, oggi («We must all stand together to stop Iran’s march of conquest subjugation and terror …»). Discorso apocalittico, nella logica amici-nemici: logica militare.

Terrorizzare il popolo per condurlo dove ti pare, ha commentato il parlamentare democratico Jim McDermott in una conferenza stampa. Steve Cohen, del Tennessee, ha aggiunto: «i thought it would be political theatre and it indeed it was worthy of an Oscar» (una politica sceneggiata degna di un Oscar). Ma, a mio avviso, il piú efficace commento è venuto da Nancy Pelosi, speaker della Camera dal 2007 al 2011. Durante il «Prime Minister’s speech», ha dichiarato «stavo per piangere»: «un insulto all’intelligenza …». All’intelligenza degli americani e a quella di ogni persona di buon senso mediamente informata su ciò che accade in Medio Oriente.