di Rosamaria Alibrandi
It is amazing to me how in all the hoopla and debate these days about the decline of education in the US we ignore the most fundamental of its causes. Our students have changed radically. Today’s students are no longer the people our educational system was designed to teach. Marc Prensky
Non si tratta di neonati geneticamente modificati, con pollici e indici delle tenere manine tremendamente sviluppati, come E. T. Né, come recitava una sigla degli anni ottanta, di ufo-robot che mangiano libri di cibernetica e insalate di matematica. Sono le nuove generazioni, quelle informatizzate in utero, che bevono latte materno e bites e si nutrono di pappa e web.
La rivoluzione operata da Internet è così imponente e invasiva che anche chi ha dovuto adeguarsi forzatamente non ricorda più come si viveva prima. Tuttavia, c’è una bella differenza fra chi stenta a orientarsi e si riconverte a fatica e i piccoli e disinvolti internauti; la stessa differenza che, nonostante anni di studio e buona volontà, rimane, e per sempre rimarrà, tra un soggetto che ha appreso una lingua straniera e il madrelingua, il nativo, appunto.
Anche se il lemma evoca etnie semiestinte come i pellerossa americani o i maori del nuovissimo mondo, la grande e globale tribù dei nativi digitali è destinata a crescere in modo limitato solo dalla natura, ovvero dalla natalità, in decrescita nel mondo bianco occidentale. Bimbetti ancora in fase di lallazione, sono tuttavia in grado di aprire una finestra sull’iPhone della mamma. E, seguendo questo trend, i giochi digitali, prima riservati ai più grandi, ora vengono prodotti per fasce di età a partire dai due anni.
Ma per la ricerca scientifica, da che anno di nascita i giovani possono essere definiti nativi digitali? Gli studi più recenti affermano che sono da considerare nativi digitali i soggetti che hanno da zero a 10 anni, non di più, e che bisogna distinguere l’autentico “nativo” dall’«immigrante digitale», ovvero da chi è cresciuto prima delle tecnologie multimediali e le ha adottate in un secondo tempo. Questo secondo soggetto è, difatti, un «nativo analogico». In buona sostanza, vecchio abbastanza da aver frequentato il mondo di ieri, parafrasando la bella espressione di Stefan Zweig, il quale, mutatis mutandis, faceva appunto riferimento a un’era che stava per essere cancellata, azzerata, ma tuttavia giovane abbastanza da avere frequentato da subito il mondo di oggi. Tale categoria di persone, per motivi anagrafici, è limitata, ma è tuttavia fondamentale nella costruzione della conoscenza, della cultura e delle elaborazioni relative alla rete, in quanto ne ha seguito nascita e crescita avendo già gli strumenti per capirla e discuterla, e il metro di paragone per porla in relazione con un prius.
La distinzione preliminare è dunque di tipo generazionale. I nativi sono immersi sin dalla nascita nel digitale, che per loro è la norma; gli immigrati hanno dovuto adeguarsi nel tempo all’uso della rete. È stata poi identificata un’ulteriore categoria di soggetti, quella del «tardivo digitale», cresciuto senza tecnologia e che continua a restarne distaccato.
Le definizioni digital natives e digital immigrants sono state coniate da Marc Prensky, consulente e innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento, il quale, alle soglie del duemila, aveva già spiegato come il profilo dei nativi digitali si fosse cominciato a delineare a partire dalla diffusione di massa dei personal computer, sin dal 1985, e dei sistemi operativi a finestre, dal 1996.
Il nativo digitale nasce e cresce in una società multischermo, considera le tecnologie un elemento naturale, non prova alcun disagio nel manipolarle e nell’ interagire con esse, parla la lingua della rete come lingua-madre; le differenziazioni in seno a tale nuovissima generazione sono legate semplicemente al contesto geografico di provenienza1.
Essere nati e cresciuti nell’era del digitale non equivale, tuttavia, a dire che tutti siano portati a conoscere, utilizzare e persino a esagerare nell’uso delle nuove tecnologie con assoluta parità partecipativa; non sempre i bambini e i ragazzi che per età sono nativi digitali hanno una maggior dimestichezza con la tecnologia rispetto agli adulti, maldestri per definizione; peraltro, occorre ricordare che è stata proprio la categoria degli immigrati a creare l’universo digitale. Ciò nonostante, gli adulti necessitano di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarsi a esso2, mentre per i nativi digitali la questione è differente, in quanto apprendono per esperienza e per approssimazioni successive.
Senza esprimere in merito giudizi di valore, ritenendolo, o no, positivo, questo è un dato di fatto. I giovanissimi utilizzano una logica vicina a quella abduttiva, piuttosto che a quella induttiva/deduttiva. Imparano dagli errori e mediante l’esplorazione, e non attraverso il tradizionale approccio storico o logico-sistematico. La condivisione con i loro pari, la collaborazione, la molteplicità di visuali del problema dato, i differenti codici e piani di interpretazione per portarlo a soluzione, li distaccano decisamente dalle generazioni precedenti. L’approccio open source e cooperativo alle fonti del sapere si evidenzia nelle modalità con le quali i ragazzi condividono in rete le conoscenze, la musica, le immagini, le esperienze attraverso vari strumenti di comunicazione digitale.
A differenza degli immigrati e dei tardivi digitali, i nativi si espongono sui blog, o su YouTube, apparendo sullo schermo, per esprimersi, per comunicare e per stabilire relazioni sociali e affettive. Il modo in cui vedono e costruiscono il mondo è differente. In ogni caso, per citare un loro recente idolo, ci mettono la faccia.
Avendo a disposizione una quantità di strumenti digitali di apprendimento e comunicazione formativa e sociale – web, blog, iPod, Messanger, smartphone, chat, aule virtuali, Wikipedia, Myspace – i nativi manifestano un originale comportamento di apprendimento, il multitasking. Studiano mentre ascoltano musica, si tengono in contatto con gli amici attraverso Whatsapp, postano immagini sui social network, mentre la televisione, sfondo d’immagini e parole, resta accesa. Il problema del sovraccarico cognitivo è risolto attraverso il continuo passaggio da un sistema a un altro, tramite uno zapping consapevole tra le differenti fonti di apprendimento e di comunicazione; s’impara a navigare tra i media in maniera non lineare e creativa, ma seguendo una serie di spirali.
I nativi fanno del digitale il pane quotidiano. Questo processo porta a una serie di ripercussioni sulla vita reale che inducono profondi cambiamenti sociali. Ai nati e cresciuti con Internet si affianca la generazione nata a cavallo tra gli ottanta e i novanta, definita dal sociologo Giovanni Boccia Artieri «nativo-televisiva». L’uso dei social network è fondamentale per analizzare il suo comportamento, così come i vantaggi e i rischi del social networking.
Il tema dell’educazione alla rete è complesso, specie se osservato dalla prospettiva di un genitore che deve dare un supporto formativo che necessariamente derivi da una corretta conoscenza dei contesti e delle esigenze dei ragazzi in un mondo che cambia in fretta e che non funziona secondo le regole cui si è stati abituati3.
Quale substrato sia dietro alle loro scelte, sempre che decidano di scegliere, piuttosto che di farsi trascinare dalla corrente, è ben altra questione: più che di libere scelte bisognerebbe parlare di bisogni indotti; e, a proposito di patrimoni culturali da costruire, appare significativa la puntualizzazione operata da Tito Baldini riguardo agli adolescenti di oggi che, da nativi digitali, non si formano più ma, se mai, si informano, nella cultura partecipativa e nelle conoscenza (spesso infarcita di errori macroscopici) distribuita da Wikipedia, e vivono una virtualità senza corpo nelle piazza virtuali4.
Questa generazione è alla ricerca spasmodica di un proprio spazio privato, e lo cerca nel virtuale dal momento che nel reale lo percepisce come negato. Cercare questo spazio nel virtuale significa renderlo pubblico ed è per questo che Boccia Artieri parla di «spazio privato in pubblico».
Secondo il sociologo, non si deve sottovalutare l’esibizionismo. Avere una pagina personale su Facebook, nella quale, più che quotidianamente, postare continuamente foto e pensieri, equivale a mostrarsi, a essere protagonisti sia pure di uno spazio virtuale. Postare le immagini significa passare da un generico “esisto”, a un’affermazione di status, all’ostentazione di una ricca vita sociale. Il fenomeno risponde al bisogno di raccontarsi, di essere presi in considerazione, poiché di certo nessuno costringe gli utenti a caricare dei contenuti. I ragazzi sentono una forte pulsione di esprimere se stessi e le loro emozioni in una società nella quale le relazioni sociali sono sempre più superficiali ed effimere. La rete, da specchio esterno, diviene il convoglio attraverso il quale veicolare i sentimenti più nascosti, abbattendo le inibizioni che implica un vero rapporto affettivo. E, nel contempo, dà l’opportunità di frugare nella vita degli altri, tanto che un numero importante di utenti di Facebook utilizza il social network per spiare quello che fanno gli amici, rimanendo anonimi. Se un tempo costituiva un vanto essere colti, saper di tutto, oggi sembra che lo sia il saper tutto di tutti, l’essere ben informati dei fatti.
Il XII Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione svela i consumi mediatici relativi al 2015. Il 71% degli italiani naviga in rete; tra i giovani under trenta è in crescita esponenziale l’uso dello smartphone (85,7%) e del tablet (36,6%). La tv è ancora la regina dei media, ma sul web si cercano informazioni, si fanno acquisti, si sbrigano pratiche. Continua la forte diffusione dei social network: risulta iscritto a Facebook il 50,3% della popolazione (il 77,4% dei giovani under trenta); YouTube raggiunge il 42% di utenti (il 72,5% tra i giovani) e il 10,1% degli italiani usa Twitter.
Questo bilancio della «grande trasformazione» dei media dell’ultimo decennio racconta, di contro, anche del ciclo negativo per la carta stampata. Solo un italiano su due legge i libri e scendono del -1,6% i lettori dei quotidiani rispetto al 2013. Dopo la grave flessione degli anni passati, non si segnala una ripresa del libro (anzi, vi è un’ulteriore flessione del -0,7%): gli italiani che ne hanno letto almeno uno nell’ultimo anno sono solo il 51,4% del totale, e gli e-book contano su una utenza ancora limitata all’8,9% della popolazione (+3,7%).
La ricerca evidenzia poi le distanze abissali tra i consumi mediatici giovanili e quelli degli anziani. Tra i giovani la quota di utenti della rete arriva al 91,9%, mentre è ferma al 27,8% tra gli anziani; l’85,7% dei primi usa telefoni smartphone, ma lo fa solo il 13,2% dei secondi; il 77,4% degli under trenta è iscritto a Facebook, contro appena il 14,3% degli over sessantacinque; il 72,5% dei giovani usa YouTube, come fa solo il 6,6% degli ultrasessantacinquenni; i giovani che guardano la web tv (il 40,7%) sono molti di più degli anziani che fanno altrettanto (il 7,1%); il 40,3% dei primi ascolta la radio attraverso il telefono cellulare, dieci volte di più dei secondi (4,1%); e mentre un giovane su tre (il 36,6%) ha un tablet, solo il 6% degli anziani lo usa. Al contrario, l’utenza giovanile dei quotidiani (il 27,5%) è ampiamente inferiore a quella degli ultrasessantacinquenni (il 54,3%).
Cresce il primato dell’informazione personalizzata; le prime cinque fonti di informazione usate dagli italiani sono i telegiornali (utilizzati dal 76,5% per informarsi), i giornali radio (52%), i motori di ricerca su internet come Google (51,4%), le tv all news (50,9%) e Facebook (43,7%). Tra i giovanissimi, però, la gerarchia di tali fonti cambia: al primo posto si colloca Facebook come strumento per informarsi (71,1%), al secondo posto Google (68,7%) e solo al terzo posto compaiono i telegiornali (68,5%), con YouTube che non si posiziona a una grande distanza (53,6%) e comunque viene prima dei giornali radio (48,8%), seguiti dalle app per smartphone (46,8%)5.
I nativi digitali, poi, scelgono spesso social in cui sia meglio difeso l’anonimato, la privacy, il diritto all’oblio, la velocità. Facebook e Twitter sono più adatti ai nativi analogici, in quanto rappresentano la virtualizzazione di un modo vecchio di comunicare e condividere. I nativi digitali preferiscono WhatsApp o Messenger, o Telegram, Snapchat, addirittura il minimalista Yo, insomma un modo più privato e ristretto di condividere che però rispetta le caratteristiche sopra elencate. E, last but not least, Ask, spesso con nefaste conseguenze6.
I genitori e gli educatori devono tenere conto anche di questo dato per essere in grado di seguire i ragazzi nel loro percorso formativo e di crescita. La conoscenza e l’utilizzo di queste tecnologie e della loro evoluzione devono essere una priorità, l’occasione per restare “connessi” con loro. Anche nelle scuole, non basta dotarsi degli strumenti per essere al passo con l’evoluzione della società, ma è necessario conoscere le dinamiche di utilizzo degli strumenti stessi e dei vari applicativi7. Se una scuola compie lo sforzo economico di acquistare dei tablet, gli insegnanti dovranno saperli usare; e, insieme ai genitori, provare a comprendere non solo come, ma in quanti modi diversi l’adolescente, che sa usarli, in effetti li usa.
La distinzione digitali/analogici erige barriere, che andrebbero invece abbattute, tra studenti e docenti, i primi nativi, migranti i secondi, e sembra altresì distogliere dal tema più grave della scarsa diffusione di una cultura informatica.
Come dimostra Henry Jenkins, capire meglio chi siano i figli, e quindi gli studenti, e il loro «naturale innamoramento per la tecnologia», è utile a comprendere i loro bisogni di apprendimento, di socialità e di vita, con le sostanziali differenze che ne caratterizzano l’uso dei media digitali, per delineare un nuova forma di new media education8.
Il report dell’ Oecd, «New Millennium Learners», che parla di una emergence of digital native learners, dimostra come l’uso delle tecnologie sia a casa che a scuola migliori gli apprendimenti dei digital kids; per capire i loro atteggiamenti e le loro aspettative, l’analisi dell’impatto delle tecnologie digitali sulla capacità cognitive e sull’ apprendimento, così come sulla evoluzione dei valori sociali e degli stili di vita, è questione di primo piano 9.
Il dibattito all’interno del quale la dicotomia oppositiva nativi/immigranti è esplicativa si avvale di alcune opportune distinzioni. Paolo Ferri individua tre tipologie differenti di nativi digitali, che segnano la transizione dall’analogico al digitale dei giovani nei paesi sviluppati: i nativi digitali puri (tra 0 e 12 anni); i millennials (tra 14 e 18 anni); i nativi digitali spuri (tra 18 e 25 anni). Questi ultimi navigano tantissimo in Internet, usano sempre più il cellulare prevalentemente per sms, foto e video (poco per navigare in Internet), non guardano quasi più la televisione, sentono poco la radio, non leggono libri se non quelli di studio. Tuttavia, il loro uso della rete è ancora prevalentemente “analogico”, e non hanno la serie di competenze digitali (fluency e literacy tecnologiche) che è propria solo dei più piccoli, i nativi digitali puri. I bambini tra gli 0 e i 12 anni hanno un’esperienza diretta sempre più precoce degli schermi interattivi digitali – console per i videogiochi, cellulari, computer, iPod, iPad – così come della navigazione in Internet, e hanno costante contatto coi media digitali e con le esperienze di intrattenimento, socializzazione e formazione mediate e vissute attraverso Internet e i social network10.
Henry Jenkins definisce l’insieme di questi comportamenti come la nuova cultura partecipativa informale dei nativi, che fornisce un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni digitali e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. «All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri», scrive Jenkins. I bambini tra 0 e 12 anni, sono il primo gruppo veramente digitale; piuttosto che interpretare, configurano; piuttosto che concentrarsi su oggetti statici vedono il sapere come un processo dinamico; piuttosto che essere lettori o spettatori sono attori e autori dell’apprendimento. È ai loro comportamenti, più che a quelli dei nativi digitali spuri, che occorre guardare per provare a capire il futuro e per costruire un mondo più accogliente per i giovani11.
Per dirla con Michele Ficara Manganelli, fondatore e presidente di Assodigitale e del blog analogica_mente // digitale per la digitalizzazione dei nativi analogici, è fondamentale diventare utenti prima che utilizzatori. Solo coinvolgendosi direttamente si capisce la grande importanza della risorsa digitale, e la conversione da analogici a digitali può avvenire più semplicemente e senza grossi traumi12.
Cosa ne è dell’etica sociale e del diritto in questo mondo che muta vorticosamente e velocissimamente? Siamo a uno dei più grandi «che fare?» della nostra storia contemporanea?
Sotto il primo profilo, la rete sembra aver abbattuto (e non sempre in modo positivo), molti tabù. Secondo Zygmunt Bauman, ormai viviamo tutti in due universi distinti: online e offline; da questo discende che potrebbe essere normale definire mondo reale solo quello offline. Accade però che una distinzione così netta non sia sempre possibile. Le due sfere, di certo, si discostano in modo marcato per la visione del mondo che ispirano, le competenze che esigono e il codice di comportamento che promuovono; le loro differenze possono essere superate, ma difficilmente riconciliate; spetta al singolo individuo, immerso in entrambi gli universi, risolvere i conflitti che sorgono tra essi e delinearne gli ambiti.
L’esperienza acquisita in un universo, però, non può non influire sulle nostre modalità di percezione dell’altro, che comunque attraversiamo. Tra i due mondi tende a esserci un traffico frontaliero ininterrotto, sempre intenso. I vantaggi di Internet sono molteplici e multiformi, troppi per rimanerne avulsi. Su Facebook, per esempio, non può accadere che qualcuno si senta mai più solo o messo in disparte, scaricato, respinto, lasciato alla unica compagnia di se stesso. Ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette, qualcuno da qualche parte sarà sempre pronto a ricevere un messaggio e a rispondere. Grazie a Internet, tutti hanno la possibilità di vivere il loro quarto d’ora di celebrità, o di conseguire una visibilità pubblica.
Il rovescio della medaglia è la diminuzione di alcune facoltà mentali, quali attenzione, concentrazione, capacità di attesa. Ci stiamo abituando ad aspettarci risultati immediati e ci irritiamo quando non si verificano. Stiamo, letteralmente, perdendo la pazienza, pur sapendo che dietro ogni grande risultato c’è un lavoro di grande pazienza. Il periodo di tempo in cui si è in grado di tenere desta la soglia di attenzione, la capacità di restare concentrati per un tempo prolungato – in definitiva, quindi, la perseveranza, la resistenza e la forza morale, caratteri distintivi della pazienza – sono in vertiginoso calo. Ne consegue il peggioramento graduale della disponibilità ad ascoltare e delle facoltà di comprendere, come pure della determinazione a condurre analisi approfondite, della capacità di dialogo, forma di comunicazione, quest’ultima, di vitale importanza nel mondo offline. E che dire dei danni alla memoria, sempre più spesso affidata ai server, invece che immagazzinata nel cervello? E dell’impatto sui rapporti umani, considerato che stringere o recidere legami online è più comodo che farlo offline? Confrontate le due tipologie, non è sorprendente che molti internauti preferiscano porre in essere modalità comportamentali online, quasi del tutto deresponsabilizzate.
Infine, nel dibattito su vantaggi e svantaggi del world wide web, si assiste in tempo reale, in modo universale, agli eventi internazionali, come all’ingresso e al successo di nuovi protagonisti nella scena pubblica. Sembra un’effettiva svolta nella storia della democrazia moderna, ma, smentendo le diffuse aspettative secondo le quali Internet rappresenterà un grande salto in avanti nella costruzione di processi democratici e nel coinvolgimento di tutti gli utenti in tale percorso, si vanno accumulando le prove per le quali, invece, la rete potrebbe servire anche a perpetuare e a rafforzare i conflitti. Paradossalmente, il pericolo nasce dalla propensione della maggior parte degli internauti a fare del mondo online una zona esente da antagonismi, creando una sorta di comunità protetta (quanto irreale) nella quale, se qualcosa non va per il giusto verso, basta utilizzare il tasto “cancella” per ripristinare l’ordine. Ma in questo ambiente online, sterilizzato e decontaminato in modo artificiale, è molto difficile poter sviluppare una forma di immunità nei confronti delle controversie endemiche e delle problematiche secolari del mondo in cui viviamo.
Vizi e virtù, reali e teoriche, di una divisione del lebenswelt in universo online e universo offline sono innumerevoli; è ancora prematuro valutare gli effetti aggregati di un cambiamento così determinante nella condizione umana e nella storia culturale da costituire un vero e proprio spartiacque. L’universo online sembra raggiungere alte vette nella scala di misurazione della comodità, della convenienza, dell’immunità dal rischio e della libertà dai problemi che impongono un prezzo da pagare per ogni scelta che si operi; e, parallelamente, incentiva la tendenza a trasferire i codici comportamentali fatti a misura della sfera di vita online nella sua alternativa offline. Questo potrebbe provocare un grande danno sociale ed etico; le conseguenze della spaccatura online/offline potrebbero essere molto gravi13. Incommensurabili, poi, se le attitudini e le opinioni sul mondo siano state acquisite direttamente nell’universo online, come accade ai nativi digitali, senza la necessaria consapevolezza e sperimentazione della realtà.
Sotto il profilo giuridico, l’utilizzo della rete nasconde insidie che occorre conoscere al fine di consentire un approccio più consapevole e meno rischioso da parte dei titolari di diritti. Il fenomeno assume un rilievo immediato quando si pensa alla congerie di fenomeni quali il trattamento non autorizzato dei dati personali, la diffamazione, l’abuso di immagine. Peraltro, l’esposizione immediata a utenti potenzialmente sparsi in tutto il mondo, crea problemi anche nel settore economico; basti pensare alla contraffazione di design o marchi, alle truffe commerciali, alla pre-divulgazione di un brevetto tramite un sito web. Le aziende non riescono ad avere presente, con precisione, il loro mercato di riferimento, perché, virtualmente, esso comprende il mondo intero. Inoltre, l’ampiezza del pubblico potenzialmente raggiungibile implica la necessità di effettuare le opportune valutazioni relative all’eventuale foro in cui perseguire un contraffattore, ed è essenziale, non meno delle informazioni sul mercato, la conoscibilità di eventuali autori di condotte illecite, per una efficace tutela.
Nell’era digitale, nella quale tutto sembra possibile, il diritto sembra caratterizzato dall’ansia di sicurezza. Sicure non possono che essere le transazioni sulla rete se si vuole che il commercio elettronico decolli definitivamente; sicuri devono essere i meccanismi di firma, perché alla loro affidabilità è ancorata la certezza dei traffici14. L’utilizzo di dispositivi e tecnologie per la raccolta e l’utilizzo di dati biometrici con finalità di identificazione personale, di controllo degli accessi e di sottoscrizione di documenti informatici, in crescita costante, rende più semplici i rapporti con le amministrazioni pubbliche e private, ma crea problemi di rispetto della privacy dell’individuo, poiché il trattamento dei dati di questo tipo mette a rischio i diritti fondamentali dei cittadini; senza sistemi informatici sicuri, la protezione dei dati personali diviene impossibile15.
Ma anche il minore è un cittadino soggetto di diritti. Va protetto da contenuti illeciti o dannosi che si possano incontrare usando sistemi informatici, che possano nuocere alla sua integrità psichica e morale, alla sua crescita e da situazioni pericolose che ne possano scaturire; ha diritto alla riservatezza e al corretto trattamento dei propri dati personali16.
Al nativo digitale, che con infantile sicurezza “smanetta” sulla rete, va garantito un accesso altrettanto sicuro alle sue infinite risorse, perché al suo volo non siano spezzate le ali.
6 Mi sia consentito il riferimento a R. Alibrandi, Il pericoloso gioco dello “snap”, «Live Sicilia», 20 settembre 2015.
7 I nativi digitali lasciano Facebook: «troppo analogico», Little Genius International, http://www.littlegenius.it/i-nativi-digitali-lasciano-facebook-%E2%80%9Ctroppo-analogico%E2%80%9D.
12 Nativi digitali e nativi analogici: l’alafabetizzazione passa anche dal dialogo tra queste due specie?, Confini Online, 29 giugno 2012, http://www.confinionline.it/it/Principale/Informazione/news.aspx?Prog=28896