Intervengo nella discussione su libertà, eguaglianza, fraternità, avvenuta in interventi precedenti su questo sito, osservando che dobbiamo misurare questi termini nel contesto concreto in cui vennero formulati: che è quello di una rivoluzione in atto. Mentre oggi indicano una prospettiva, possibile certo, ma con molte risonanze utopiche.
Cominciando dal primo termine: libertà è all’origine un concetto negativo, nato da un conflitto, indica la liberazione che consegue al dissolvimento definitivo di un ordine simbolico apparentemente vivo, in realtà morto da tempo. A leggere le storie della rivoluzione francese di Michelet e Quinet, analizzate in un bel libro di Marc Richir, la libertà nel primo periodo di festa rivoluzionaria, ancora incontaminata dal Terrore, è felicità del dissolvimento di vincoli divenuti desueti e inaccettabili: è la dissoluzione stessa di una legge e di un diritto irrazionali, ridotti a pura imposizione di violenza. Non c’è più la sovranità insopportabilmente incarnata nel corpo del Re. L’esultanza letteralmente an-archica di questa dissoluzione di vincoli dà la prima sostanza al sentimento della libertà.
Poi le cose si complicano: perché essa diviene posizione assoluta di sé, e desiderio di affermare la propria potenza nel mondo sociale ed economico. Questo incremento illimitato del proprio poter essere diviene però conflitto nell’incontrarsi con il desiderio analogo dell’altro. Conflitto insostenibile, come aveva mostrato Hobbes nel De cive, e poiché non si crede più che possa essere limitato dalla sovranità verticale del Re, il principio alternativo a quello dell’assolutismo con cui si deve porre un limite alla libertà è l’uguaglianza. Io posso esercitare la mia libertà solo fino al punto in cui non riproduco una relazione con l’altro di signoria-servitù: lo Stato ha il compito di far rispettare questo principio, l’uguaglianza pone un limite alla espansione incontrollabile della libertà (politica ma anche economica). Posso essere libero finché la mia potenza sul mondo non si trasforma in padronanza e dissimmetria rispetto a un altro, gerarchicamente sottomesso.
Questo principio, che limita la libertà, rischia però di diventare esso stesso incontrollabile, e necessita a sua volta di un limite. In effetti, se lasciato a se stesso, il principio egualitario non considera la singolarità e la differenza come caratteri inestinguibili. È un principio di limitazione, non di affermazione della singolarità. Può diventare così eguaglianza fusionale e amorfa, in cui l’emergenza della specificità e della differenza può essere considerata delitto.
La fraternità interviene come terzo termine, perché la sua essenza è il riconoscimento: nell’operare e nella lotta in comune, la singolarità dell’altro viene riconosciuta nella sua irriducibilità, nella sua differenza, nella sua disuguaglianza. La fraternità vorrebbe alludere a una società in cui tutti gli uomini sono disuguali e insieme fraterni, cioè capaci di persuasione reciproca sui limiti entro cui può esplicarsi la potenza di vita di ognuno. Come diceva Abensour, citando La Boétie, un conto è una società in cui tutti-sono-Uno, altra è una società di tutti-unici, che si riconoscono e definiscono le proprie regole di convivenza in quanto tali. La prima rinvia a una concezione fusionale, populista e potenzialmente terrorista; la seconda a un socialismo libertario e individuante. Abensour cercava di trasferire sul piano politico la concezione della fraternità che Levinas ha proposto sul piano etico, come incontro con il “volto dell’altro”.
Non c’è dubbio che la terza parola rivoluzionaria sia stata la più disattesa, anche perché non è possibile pensare di realizzarla, a differenza delle altre due, con la scorciatoia di un potere violento. Vi sarete accorti che ho fatto una specie di gioco di pensiero, intepretando la triade rivoluzionaria come una specie di trinità hegeliana, indissolubilmente legata da una dialettica interna. Non prendetemi troppo sul serio. Ma è anche vero che la Chiesa invisibile o il Regno dello Spirito, di cui parlavano da giovani Hegel, Hölderlin e Schelling, era proprio il compimento-superamento della libertà e dell’uguaglianza nella fraternità, e che i tre amici danzarono intorno a un albero della libertà.
Come dicevo all’inizio discutiamo oggi queste parole in una situazione che non è quella di una rivoluzione in atto, ma quella della putrefazione di un ordine simbolico fatiscente, che tuttavia mantiene la sua rigida potenza mortuaria: quella del capitale astratto. La festa per la dissoluzione dei suoi vincoli (la libertà), l’idea di una relazione intersoggettiva non basata sulla dialettica servo-padrone (l’uguaglianza), l’aspirazione allo sviluppo della propria singolarità in solidarietà con quella degli altri (la fraternità) sono i termini di un desiderio e di una memoria. Come ogni ripresa del passato, ci appaiono oggi quasi immagini di sogno. Sempre un po’ giocando mi viene da dire che nessuna delle tre parole può essere il fondamento del socialismo oggi; bisognerebbe aggiungerne una quarta, che però per ora non mi viene in mente (e anche se la sapessi sarebbe troppo immatura per essere detta pubblicamente, in occasione di una contesa fra Renzi, Di Maio e D’Alema). Aspettiamo prima che il Re fugga a Varennes.