Se nel mondo greco la città, meglio sarebbe dire la polis, ovvero la comunanza di famiglie e stirpi, il luogo o la sede in cui un determinato genos ha le proprie radici, che comprendevano solo una parte della popolazione e ne ereditavano l’appartenenza, era oggetto di grande interesse sia dal punto filosofico che politico, così non è più nel mondo moderno. La città (la polis) conteneva nel suo processo costitutivo molte delle qualità della vita associativa che avrebbero potuto fornire strumenti di orientamento all’azione di governo: la bellezza, il vivere felici, la comunità di base, la prosperità, l’indipendenza e l’autodeterminazione.

Ecco spiegato il senso del titolo del bel libro di Giancarlo Consonni: Non si salva il pianeta se non si salvano le città. L’Autore, poeta e urbanista nonché professore emerito del Politecnico di Milano, torna ancora sui temi a lui cari: la bellezza civile e l’urbanità, conquiste tra le più alte della storia umana (La bellezza civile, 2013; Urbanità e bellezza, 2016).

Parliamo della polis e non della civitas (romana); la differenza tra le due è fondamentale. Mentre la prima è la sede di una specifica gente, il luogo in cui essa ha le proprie radici, nella seconda l’accento va all’insieme di diverse persone tra loro differenti ma organizzate sotto le medesime leggi al di là di ogni specifica etnia o religione. Nella polis è fondamentale l’unità delle persone dello stesso genere così che essa precede l’idea di cittadino riferendosi a un tutto organico.

Da Aristotele fino al Seicento, le città sono sempre descritte come convivi umani (l’Autore evita consapevolmente il termine comunità) e non come insiemi di edifici, strade, mura, come noi facciamo oggi. Per Aristotele, infatti, essa era «una maniera per raggiungere la felicità», così come per Torquato Tasso essa è «un modus vivendi che gli uomini si davano per vivere meglio». Giovanni Bottero, sulla scia di Tasso, parla delle città come «ragunanza d’uomini ridotti insieme per vivere felicemente».

Fino a tutto il Cinquecento e anche all’inizio del Seicento, la città viene rappresentata come nell’affresco, a Siena, del Buon Governo di Lorenzetti dove i simboli raffigurati sono la pace, la concordia e la prosperità, attraverso le sole persone che l’abitavano; solo sullo sfondo apparivano le mura o le merlature di castelli ovvero, l’urbs, l’aspetto materiale, la città di pietra. Detto in altri termini, prima della modernità la città era un’entità immateriale nella sua sostanza.

Con l’avvento del Moderno la città viene rappresentata da modelli spaziali cartografici nei quali scompare la presenza umana che resta esclusa dalla logica cartografica. Machiavelli sarà il primo a sottolineare l’esercizio del potere fondato su un’idea di Stato disincarnata dalla civitas e dalla polis. Consonni elenca le varie tappe, e i vari autori, nei quali riaffiora questa antica vocazione delle città. Bisognerà arrivare a Vico e a Carlo Cattaneo (Delle cause della grandezza e della magnificenza delle città) per associare la bellezza delle città alla bellezza civile (e non, come oggi unicamente all’estetica effimera dei suoi manufatti). Dopo di lui altri autori ricorderanno questa tradizione illustre: l’architetto Michelucci a Firenze, Giorgio La Pira, sindaco nella stessa città.

Consonni ci tiene a ricordare il carattere scivoloso del concetto di comunità. Con esso infatti possiamo indicare sia il suo lato virtuoso (solidarietà, accoglienza, inclusione) che l’opposto: quello poliziesco di controllo esercitato sulla stessa comunità e quello ostile e di chiusura nei confronti dell’Altro (non appartenente alla comunità). Forse, afferma Consonni, sarebbe meglio usare il termine di consorzio civile tanto più che oggi lo slogan Dio, patria e famiglia vuole alludere a una comunità di individui che difendono valori ambigui.

La crisi della città in cui ci dibattiamo è tutt’uno con la caduta di tensione all’abitare condiviso e all’urbanità. Questioni e aspetti, questi, quasi assenti nelle nostre città che hanno nel loro dna evolutivo la competizione, la spettacolarizzazione, l’individualismo, la delega totale ai rappresentanti eletti, le disuguaglianze, il controllo poliziesco della sfera pubblica, la privatizzazione degli spazi. E in primo luogo l’assurgere della proprietà privata a entità giuridica priva di vincoli, depositaria di una libertà incondizionata a cominciare dallo jus aedificandi che si è affermato come diritto connaturato alla proprietà del suolo.

Contro le attuali città non c’è solo l’azione devastante delle guerre; c’è l’attacco alla solidarietà, alla convivenza, all’urbanità. La bellezza civile, misura della grandezza sociale, da tempo è stata sostituita da una presunta bellezza che si manifesta in costruzioni spaesate, sradicate dal contesto, autoreferenziali; caratterizzata dalla stravaganza, dall’eccesso, da una estetizzazione esasperata perché la forma si è ridotta a maschera che mal nasconde il vuoto di significato e di senso.

Semplificazione e uniformità hanno sostituito la complessità e la variazione; solitudine e narcisismo (vedi archistar) hanno marcato la differenza con la storia precedente. Come risultato di questa disgregazione c’è l’incapacità degli insediamenti di accogliere la vita associativa e di nutrirla di senso.

Il libro analizza le cause storiche di questa mutazione fino ad arrivare ai nostri giorni mostrando come il recupero di queste tradizioni appartenute in passato alle città, possano ancora costituire un riferimento valido non solo per la loro salvezza ma quella di tutto il pianeta. Salvare il pianeta significa abitare consapevolmente la terra, sia sotto forma di natura sia sotto forma di città, poiché artificio e natura si completano a vicenda. Da qui la necessità e il dovere di difendere le nostre città coi loro patrimoni (l’urbanità, in primis, secondo Consonni), tanto più oggi in un clima di guerra che le vede obiettivi militari. Il rimando è al discorso di La Pira del 1954: «Gli Stati hanno il diritto di distruggere le città? Di uccidere queste “unità viventi”, veri organismi in cui si concentrano i valori essenziali della storia passata e da cui si irraggiano i valori per la storia futura, che costituiscono il tessuto intero della società e della civiltà umana?». La risposta è negativa: ne civica destruetur. Ma questo obiettivo è in controtendenza rispetto alla realtà dove il destino dei contesti urbani è in prevalenza nelle mani dei grandi fondi sovranazionali, da un lato, e della selva dei medi e piccoli operatori dall’altro.

Contro i decreti-sicurezza, veri e propri dispositivi polizieschi, Consonni avanza la tesi di investire in infrastrutture sociali, quell’insieme di elementi (non solo fisici) da cui dipende non poco la qualità delle relazioni di prossimità e, in generale, la qualità urbana. La strada da seguire è quella di armare le città di convivenza civile.

Il libro si conclude con un vero e proprio programma politico, urbanistico e sociale: la bellezza civile, che si esprime negli aggregati insediativi e nei paesaggi umanizzati, ha le sue radici in una tensione collettiva volta a migliorare la convivenza civile. Tornare a coltivarla è il modo per arricchire di senso la scena di vita quotidiana e per dare qualità all’abitare. Programma quasi totalmente ignorato dai governanti e dagli specialisti urbani che perseguono un mutamento fatto di effimeri eventi e di “successi” altrettanto effimeri, abbandonando l’urbanità e quei saperi virtuosi che erano alla base del fare città.

 

 

Immagine: Ambrogio Lorenzetti, Effetti del buon governo (particolare)

Siena, Palazzo Pubblico