la paranza dei bambinidi Antonio Tricomi

La paranza dei bambini (Feltrinelli, Milano 2016, pp. 347, euro 18,50) non aggiunge pressoché nulla alla riflessione offertaci da Saviano, dieci anni fa, con Gomorra. Sembra anzi scaturire da una riscrittura di quel volume che abbia agito in due direzioni risultate infine logicamente complementari.

Anzitutto, l’autore si è speso in un lavoro di riconversione del proprio libro d’esordio in un congegno testuale di altro tipo. Ha cioè provveduto a tradurre una non-fiction novel in romanzo neppure troppo incline al saggismo ma perlopiù schiacciato sul racconto, in tal modo ripercorrendo, anche per trarne ispirazione, una strada già battuta non tanto dal cinema, quanto dalla televisione. Difatti, se il film di Matteo Garrone tratto da Gomorra nel 2008, facendo sua un’etica, ancor prima che un’estetica, di matrice documentaria, o comunque non rigidamente narrativa, si manteneva fedele alla natura saggistica, ben più che romanzesca, del volume di cui offriva il corrispettivo cinematografico, la serie televisiva ugualmente ispirata all’opera di Saviano – quale che ne sia il valore, a giudizio di alcuni addirittura incontestabile – trasforma in ogni caso quest’ultima in pura fiction.

In seconda battuta, e appunto per garantirsi la tenuta del proprio impianto coerentemente narrativo, La paranza dei bambini effettua una sorta di restringimento di campo rispetto a Gomorra. Già in quel Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra – questo il sottotitolo del libro – era dato ampio spazio – come del resto accadeva anche nella pellicola di Garrone e avviene altresì, in misura ancora maggiore, nella produzione televisiva – al tragico resoconto dei riti di iniziazione malavitosa agognati, più che patiti, da giovani e giovanissimi dai quali l’affiliazione al Sistema è vissuta, entusiasticamente, alla stregua della massima conquista civile di fatto possibile, specie perché il mondo adulto non sembra curarsi di offrire loro alternativa socioculturale alcuna affinché essi scampino a un simile destino. Ebbene, con la sua nuova prova, Saviano torna sì ad esplorare l’universo camorristico, ma mostrandocelo quale anzitutto lo abitano e lo percepiscono ragazzi e ragazzini, bimbi e adolescenti. Così, egli ci propone un canonico e commosso, un lucidamente indignato e corale romanzo di formazione. O si dovrebbe forse dire: un dolente racconto sull’impossibilità, per troppi giovani, di ricevere una graduale, un’autentica educazione civile, affettiva, culturale, senza essere costretti a considerarsi, viceversa, individui nati non solo già adulti ma, per di più, adulti disinibiti, cinici, consumati. In una parola: sfatti.

E quindi, magari senza troppo entusiasmare, La paranza dei bambini perlopiù funziona, giacché Saviano – forse anche in ragione della sua età, non attigua a quella dei numerosi personaggi del libro, ma neppure eccessivamente lontana dalla loro – sa sempre toccare le corde giuste, con lucidità critica e partecipazione emotiva, quando si tratta di ragionare sulla sorte degli esponenti delle nuove generazioni. Che, a Napoli, per quanti non provengano dalla classe agiata, pare scritta in partenza. I bambini acquisiscono subito «il volto» di chi conosce «già tutto», di chi parla «di sesso e di armi», poiché «nessun adulto», dopo che essi sono «stati partoriti», dimostra di immaginare che ci siano «verità, fatti, comportamenti inadatti alle loro orecchie», in una città nella quale «non esistono percorsi di crescita», ma «si nasce già nella realtà, dentro, non la scopri piano piano». Ed è una realtà che pretende di impartirti sempre la stessa lezione, spiegandoti che «esistono i fottitori e i fottuti, null’altro», e non per effetto della «società divisa in classi», ma perché si danno solo quelle due «categorie dello spirito», per cui «si nasce fottitore, si nasce fottuto». Di riflesso, bisogna imparare al più presto a scorgere in Machiavelli un profeta: «le imprese grandi vengono dalla paura che fai, da come la comunichi, che tanto è l’apparenza che fa il Principe, e l’apparenza tutti la vedono e la riconoscono e la tua fama arriva lontano». E urge comprendere, in tempi altrettanto rapidi, che, «per comandare, per essere un capo, devi avere paura, ogni giorno della tua vita, in ogni momento», così da «vincerla», così da «capire se ce la puoi fare». Infatti, «se non provi paura vuol dire che non vali più un cazzo, che nessuno ha più interesse ad ammazzarti, ad avvicinarti, a prendersi quello che ti appartiene e che tu, a tua volta, hai preso a qualcun altro».

Nella Napoli dipintaci da Saviano vige insomma, sempre al grado zero e senza che mai ci si preoccupi di camuffarla, la medesima legge della giungla che, sotto la coltre di retoriche invece più nobili, governa anche le odierne civiltà capitalistiche non solo occidentali, tutte ridotte, dal predominio di una tale logica, a debordiane, intrinsecamente violente, potenzialmente autoritarie società dello spettacolo. L’identica tesi che potevamo reperire nelle pagine di Gomorra, in cui spiccava anche un’analisi dell’immaginario non solo giovanile, per come un presente simile inevitabilmente lo produce in una realtà qual è quella napoletana, analoga alla ricognizione che di esso ci offre La paranza dei bambini. Per adolescenti che – alla stregua di molti coetanei – crescono giocando senza sosta alla PlayStation, giudicano YouTube «il maestro sempre», trovano in PornHub la «fonte della loro unica educazione sentimentale», trascorrono parecchio tempo a costruirsi ognuno le proprie sound-track, spesso all’insegna di un «pop rigorosamente italiano», e tuttavia che – diversamente dai loro pari età – passano magari «dieci giorni a rivedersi Il camorrista» di Giuseppe Tornatore, esaltano gli attentatori islamici (ritenendo che «chi per ottenere qualcosa si fa morire, tiene ’e ppalle, punto»), sognano (guardando ossessivamente un altro film, Il padrino di Francis Ford Coppola) di avere «le mandibole gonfie come quelle di Marlon Brando, di Don Vito Corleone», e vengono abituati a ritenere il carcere un’esperienza imprescindibile, se si vuol diventare uomini: per adolescenti siffatti, non resta dunque che supporre di poter realizzare se stessi idolatrando, con disperata indifferenza alla morale, il denaro e quel «gioco della guerra» che permette di accaparrarselo. E di spenderlo. Giacché «appagare ogni desiderio, al di là di qualsiasi bisogno», è il solo obiettivo che li muove, per cui essi ambiscono esclusivamente a «fare soldi» e, subito, a impiegarli sì da godersi il presente, nella convinzione – per non pochi di loro purtroppo fondata – che non esista «il domani». Vittime inconsapevoli e, in pari misura, spietata manovalanza del capitalismo selvaggio del nostro tempo: queste insomma sono, per Saviano, le troppe paranze di bambini che è dato incontrare a Napoli.

Da dieci anni, almeno se si bazzica per convegni, è più facile imbattersi in studiosi quasi infastiditi da Gomorra che non in critici letterari inclini ad apprezzarlo. Puro, e vacuo, snobismo, perché, anche solo come gesto civile, quel libro spicca nel panorama della recente letteratura italiana e dunque, meritandolo in pieno, resisterà a lungo al logorio del tempo. Altro discorso, questo sì, merita semmai ciò che Saviano, facendo televisione con Fabio Fazio o scrivendo per «Repubblica» o disegnando per sé il ruolo di opinion-maker e reporter – per così dire – d’assalto, è diventato dopo la pubblicazione di Gomorra e grazie al successo di pubblico riscosso dal volume: un sia pur non molesto, un comunque più che degno prodotto dell’industria culturale. Un’icona pop che sembra quasi aver dimenticato le tesi esposte in quel libro, giacché se è vero, com’è per l’appunto vero, che esiste un nesso tra la deriva criminogena riscontrabile nell’intera società occidentale e i processi di spettacolarizzazione in essa diffusi, non può poi apparire in alcun modo lecito immaginare di spendere la propria individuale, ed encomiabile, carica utopistica in un circuito massmediatico che, fisiologicamente, la anestetizza, convertendola in una convalida delle proprie logiche falsamente emancipatrici, solo illusionisticamente democratiche. Obiezione che è però consentito muovere a Saviano solo se gli si riconosce il merito di essersi condannato, pur di comunicare le sue verità, a una coraggiosa, opprimente, ingiusta non vita di giovane e poi di uomo sempre sotto scorta, mai libero di esistere come magari vorrebbe. E se, di conseguenza, anche si ammette perlomeno la possibilità che, avendo reperito presto in un mercificato spazio pubblico una dimora per lui accogliente, un risarcimento, per quanto ambiguo, della normalità orrendamente sottrattagli, egli sia perciò diventato in buonafede, e con ogni probabilità suo malgrado, o per meglio dire ingenuamente, il copyright che è diventato.

Benché appaia un romanzo non imperdibile ma, tutto sommato, discretamente riuscito, La paranza dei bambini rischia pertanto di dare ulteriore fiato alle trombe dei detrattori, sempre e comunque, di Saviano. Appunto perché somiglia all’ultimo prodotto, nuovo solo nella confezione, smerciato dalla solita ditta.