assolto Berlusconidi Rino Genovese

Non c’è commentatore che non osservi come la recente sentenza che ha assolto Silvio Berlusconi dai reati di concussione e prostituzione minorile apra un’autostrada alle riforme di Renzi, che adesso potranno avvalersi di un clima disteso da parte della destra e andare in porto in poco tempo. Non è detto, ma in effetti non stiamo assistendo a niente di nuovo. Gli ultimi vent’anni ci hanno abituati a soprassalti del genere. Quante volte Berlusconi – è un’illusione ricorrente – doveva essere messo fuori causa dalla magistratura e dalle sue sentenze? E quante volte l’ha fatta franca? Alla fine, la ridicola condanna a fare l’assistente una volta a settimana in una casa di riposo per anziani ha dato all’intera sua vicenda di border line – sempre ai limiti della legge e, più spesso, al di là – il sapore di una conclusione di una storia di Topolino. A quando, come massima tortura, un bel solletico ai piedi?

La riflessione su questi vent’anni italiani insegna che non è con le scorciatoie giudiziarie (che poi si esplicano in estenuanti lungaggini) che potrà mai essere pronunciata una parola definitiva sul berlusconismo. Il quale, sebbene in declino, non è affatto finito, e anzi sotto molti aspetti si è transustanziato in Matteo Renzi. Il berlusconismo originario – a partire da un solido grumo di potere, a tutt’oggi neppure intaccato, dato da un’ingente forza economico-mediatica sotto un padrone solo – è il tentativo di fare della già fragile democrazia italiana una democrazia plebiscitaria, con tratti autoritario-padronali, in cui, anche sotto il pretesto di un’innovazione istituzionale, si nasconde il rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento. Si tratta insomma di un bonapartismo in formato ridotto: alla propaganda attraverso le guerre e le imprese eroiche si sostituisce una capacità di presa mediatica (in particolare mediante l’uso dei sondaggi) in cui la cosiddetta sovranità popolare (già di per sé, e fin dai tempi di Rousseau, un concetto in se stesso scivoloso) è ridotta al consenso tributato da un popolo di consumatori della politica a un deus ex machina che, di volta in volta, può chiamarsi Berlusconi o perfino Renzi.

La “costituzionalizzazione della destra” – che l’attuale presidente del Consiglio, presentatosi come rottamatore del passato, sta cercando di realizzare con una riforma consociativa del Senato e con una proposta di legge elettorale molto simile a quella precedentemente in vigore, con in più la possibilità di uno “spareggio” di tipo marcatamente plebiscitario – fu già il leit motiv di Massimo D’Alema, ai tempi della sua sfortunata Bicamerale, per fare della destra berlusconiana e postfascista il polo di una democrazia dell’alternanza basata, in ogni caso, sulla situazione data. Cioè sulla realtà di un partito padronale e antidemocratico come Forza Italia, sulla imprescindibilità (incredibilmente ormai data per scontata pressoché da tutti) di una concentrazione di potere economico-mediatico che non ha eguali in una democrazia liberale (e in epoca dalemiana si diceva che il grande stratega di scuola togliattiana teneva il Cavaliere “per le antenne”, garantendogli le televisioni e i giornali al fine di ottenerne in cambio i voti in parlamento – dolce finale che non si avverò), in breve su una “intesa cordiale” tra maggioranza e opposizione (ma chi oggi è davvero opposizione in un perdurante regime delle grandi o piccole intese?) in comune accordo su un punto decisivo: la democrazia italiana va cambiata non nel senso di un ampliamento e di una sua maggiore diffusione, ma in quello di un suo restringimento che lasci inalterati i grumi di potere esistenti e anzi li rafforzi.

È questo il vecchio grande progetto che si scorge dietro gli intendimenti di Renzi. Sarebbe forse sufficiente un po’ più di dialogo tra lui e D’Alema – al di là della reciproca antipatia personale – per constatare che il passato e il presente sono pressoché identici.