di Massimo Jasonni

Nel settembre del 1945 Gadda pubblica su Il Mondo[1] una recensione di Rüssel, Profilo d’un umanesimo cristiano[2], che ora, dalle macerie della carta stampata, quasi miracolosamente ricompare grazie ad Adelphi[3].

La rilettura di oggi impone massima attenzione: perché si parla del più grande letterato, con Svevo, dell’Italia del Novecento che, peraltro, si affida alla rivista di Pannunzio, che gli è assai cara[4]; quanto a Herbert Werner Rüssel, di uno storico di rara e inquieta, all’epoca, larghezza di vedute. Ma non solo: è il tema stesso, nella sua oggettività, a suggerire cura: perché si tratta, per dirla con Gadda, di Rivelazione e bonae litterae lungo la storia ascendente, ovvero – decodificando il gergo barocco dell’ingegner Fantasia – dell’incidenza del pensiero greco e della teologia cristiana sull’avventura occidentale. Per storia ascendente l’ermeneuta evidentemente intende riferirsi alla «storia della libertà» di crociana memoria.

 Rüssel parte da Fichte, che nei Discorsi alla nazione tedesca sostiene il predominio della lingua tedesca sulle lingue mediterranee. La lingua germanica «scava pozzi profondi» nella miniera inesausta d’un perenne contenuto umano; la lingua italiana e la lingua francese, al contrario, «ristagnano e imputridiscono» in un contesto di sterilità e di fraudolenza che porta la filologia al logoramento e alla morte. Parafrasando Rüssel, Gadda sarcasticamente chiosa:

Mentre Lutero salva e rivendica la causa della «serietà tedesca», gli umanisti italiani «ridevano dell’inganno, (cioè del cattolicesimo papale) poiché non avevano bastante serietà da esserne amareggiati». La «classe colta» (sic) italiana, indi poi la francese, non è se non un’accolita di frodolenti latinisti, o tutt’al più grecisti, affatto separati dal popolo. Anzi lo ignora e lo detesta: e preserva a sé, tra dormigliosi incunaboli, un ozio grasso, irrorato dalla inutile prosa di Cicerone. L’imprudente e giudiziosa frase attribuita a Montaigne, che una torre e una libreria sarebbero bastate alla felicità, se Fichte l’avesse dioneguardi saputa, di certo avrebbe finito di tirarlo fuor dai gangheri[5].

Quanto alle profondità prospettiche dello storiografo, basti un cenno biografico: allievo di Max Scheler a Colonia, Rüssel fu poi attivo nel giornalismo tedesco divenuto sempre più scarno e meno critico con l’ascesa al potere di Hitler; infine fu recluso nel campo di concentramento di Sachsenhausen, ove nel 1940 morì. Di lui restano numerose pubblicazioni, non ultima quella che ci occupa, tradotta in Italia e resa alle stampe postuma da Einaudi.

Rüssel si ribella, per un verso, all’accusa fichtiana della natura oziosa e retorica dell’impianto letterario italiano e reagisce sottolineando come la nostra Rinascenza ebbe il coraggio e la sagacia di far piazza pulita di una folla di mistificazioni che il Medioevo aveva trasmesso. Non ultime quelle che consentirono a Lorenzo Valla di smentire le decretali pseudoisidoriane, la donazione di Costantino e gli scritti areopagitici. Per altro verso, sostiene vigorosamente il nesso di continuità che corre – per dirla con il Nostro – tra «la luce aurorale della Jonia, la cui chiarità è termine di stacco dalla fabulazione orientale ed è insieme inizio della costruzione meditata»[6], e l’uomo nuovo delle lettere paoline.

Il risultato storico che discende da questa simbiosi si traduce in quel fenomeno che siamo soliti definire Umanesimo cristiano: ove dati salienti sono, da un lato, l’armonizzazione tra speranza cristiana di ascesi dell’uomo mediante le opere e naturalismo classico e, d’altro lato, la sacralizzazione della dimensione storica dell’essere dell’uomo, non ostante il dogma del peccato originale.

È proprio questo profilo che determina l’assenso di Gadda a una proposizione ideologica, malgrado essa abbia «il tono di un paradosso genialmente apologetico». «A un più accurato annusamento [essa] ci lascia […] il sospetto d’una rimeditazione della storia»[7].

In effetti, «l’umanesimo è la cognizione del passato»[8]. Qui il romanziere si disvela, non tace di metterci del suo:

Aggiungo, per conto mio, che il senso del passato inteso come necessario supporto della nostra efimera contribuzione alla conoscenza, si manifesta operante negli spiriti più alti: da Platone esegeta dei predecessori, a Virgilio che risogna nel poema il destino romuleo, a Dante, a Michelangelo. Perfino Gabrielnuncius si curva a origliare sull’insegnamento del passato: e ne cava anche lui quel che può: che è dimolto, in una accezione filologico-umanistico-narcisistico-euforico-enfatica[9].

Anche l’antiumanismo nazionalistico di Fichte rientra, a ben vedere, in questo solco: perché quel motivo polemico “pesca” sin che si vuole nei sogni herderiani del lindore dell’anima germanica, ma va a raccogliere, alla fin della fiera, le indicazioni della Storia. Non si allontana da quelle radici cristiane che impongono un ripensamento e, in definitiva, un rispetto del passato.

Rüssel celebra, in ultima analisi, la vertiginosa lettura del tempo che animò il tronco del pensiero di Agostino. Noi siamo le fronde, le labili foglie di quel grande albero.

Ulteriore motivo dell’attuale interesse per il binomio Rüssel/Gadda sta nel fatto che sia il tedesco, sia l’italiano non conoscevano un precedente illustre: gli scritti sul tema di Francesco Ruffini. Crediamo di poterlo dire, giacché nessuno dei due lo cita, nessuno dei due, anche solo per incidens, ne raccoglie il respiro. In realtà Francesco Ruffini, maestro di Jemolo e docente torinese alle cui lezioni assistettero, seduti a fianco, Gobetti e Gramsci, è lo studioso che offrì al diritto di libertà contenuti sostanziali, anticipatori di quella che sarebbe stata l’anima liberalsocialista e azionista della Costituzione, e al principio di eguaglianza dimensione nuova, finalmente disancorata, nell’art. 3, da ogni formalismo a retroscena economico liberistico. Tale alta visione originò, in Ruffini, proprio da una rilettura delle fonti antiche e consentì al Maestro di aprirsi, sin dal 1901, al sincretismo religioso tra ultimo paganesimo e primo cristianesimo. E oltre. La Modernità nasceva, in quest’originale ottica scientifica, non solo dal ceppo dogmatico della Riforma, ma tanto più da quella erasmiana tolleranza religiosa che trovò, in Socino e nei sociniani, un insostituibile megafono italiano[10]. La continuità tra mondo classico ed epopea giudaico-cristiana fornì così all’Europa occidentale il suo «clima ideale»[11].

 Rüssel:

Quel desiderio di una conversazione tranquilla, serena, e tuttavia seria, di buoni e saggi amici. Un bicchier di vino sotto la pergola[12].

E Gadda:

E [vino] piuttosto aromatico. Di quello di cui Orazio dice tanto amabilmente che vi si strugga sino il naso denegatore del filosofo, «quamquam socraticis madet sermonibus»: di quello che accendeva in facondia financo l’austerità di Catone il Vecchio, piuttosto dura e ingrognata, come sapete[13].

È proprio questa continuità, o contiguità che si voglia dire tra il politeismo greco e il monoteismo cristiano che ha consentito nuovi approfondimenti sul motivo della laicità, non più ritenuto mero prodotto culturale e giuridico dell’età dei lumi, ma eco dell’omerico laòs[14]. Senza per questo dimenticare la radicale antinomia degli àmbiti: nel secondo caso dio è creatore e giudice; nel primo caso gli dèi sono doppi, prima ancora che molteplici: in loro il pianto si specchia nel sorriso, la nascita delle stagioni si specchia nel loro estinguersi. Ciò non avrebbe tuttavia impedito il dialogo, e quanto fervido tra le due epoche: perché mentre il dio che proclama se stesso doveva tradursi in una molteplicità di valori (e di centri di produzione di valori) nichilisticamente orientata, gli dèi dell’apparente complessità paradossalmente riconducevano, sempre e comunque, a un principio di unità, ragione che fonda e disciplina non solo l’ordine fisico, ma anche l’ordine politico delle cose[15].

Queste tematiche vanno oggi riprese. La lettura di Gadda e, forti di questo potente ponte intellettuale, di Rüssel ci aiuta a comprendere non solo la nascita del Moderno, ma anche l’avvento, il drammatico avvento del Postmoderno. La civiltà dei consumi, un’invadente tecnocrazia non hanno solo disfatto lo «spirito realistico della carità», né hanno solo posto in ginocchio la laicità[16], ma hanno oscurato la ricchezza del senso della storia e, in uno, affondato il «salvagente»[17] che il pensiero classico offriva.

[1] I, 11, 1° settembre 1945, p. 7.

[2] Trad. it. di G. Rensi, Roma, Einaudi, 1945.

[3] In C.E. Gadda, Divagazioni e garbuglio, Milano, Adelphi, 2019, p. 141 e ss..

[4] L. Orlando, Nota al testo, in C. E. Gadda, Divagazioni e garbuglio cit., pp. 503-504.

[5] C.E. Gadda, Divagazioni e garbuglio cit., pp. 141-142.

[6] Ivi, p. 143.

[7] Ivi, p. 144.

[8] Ivi, p. 145.

[9] Ibidem.

[10] F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, I° ed., Torino, Fratelli Bocca, 1901; ora con intr. di A.C. Jemolo e postf. di F. Margiotta Broglio, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 36 e ss..

[11] C.E. Gadda, Divagazioni e garbuglio cit., p. 147.

[12] H.W. Rüssel, Profilo d’un umanesimo cristiano, p. 136, citando l’Erasmo di Huizinga.

[13] C.E. Gadda, Divagazioni e garbuglio cit., pp. 147-148.

[14] V. il Nostro Alle radici della laicità, in «Quaderni di Storia», n. 67 (gennaio-giugno), 2008, p. 55 e ss..

[15]V. il Nostro I Sarcofaghi di Montale, in «Il Ponte», n. 1 (gennaio), 2011, ora in Id., Agonismo costituzionale, agonia della politica e altri saggi, Firenze, Il Ponte Editore, 2017, p. 151.

[16]V. C.A. Viano, Laici in ginocchio, Bari, Laterza, 2006.

[17] C.E. Gadda, Divagazioni e garbuglio cit., p. 144.