C’è qualcosa di nuovo, anche d’antico, nei movimenti che si stanno sviluppando anche in Italia contro il genocidio dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, contro le politiche istituzionali, sociali e belliciste del governo fascio-atlantista e floisraeliano, contro la corsa alla guerra dell’Unione europea sul fronte russo. Si stanno ricomponendo, con il protagonismo di nuove soggettività giovanili, processi e percorsi rimasti separati nel corso degli ultimi tre decenni di crisi economica e politica, di agonia del “modello di sviluppo” capitalistico e del sistema politico che lo rappresenta. Temi tradizionalmente separati, dall’ambientalismo all’economia, dai diritti sociali e civili all’assetto costituzionale sotto attacco, dalle pratiche di “nuova socialità” e di “altra economia” alle pratiche di solidarietà attiva in un nuovo contesto multietnico e interculturale, si vanno ricomponendo in un “movimento di movimenti” alla ricerca di collegamenti e iniziative comuni, in un processo di alternativa complessiva alla crisi climatica, alle guerre economiche e combattute sul campo, alla crisi delle democrazie liberali occidentali.

Sta rapidamente cambiando l’assetto geopolitico mondiale. La guerra di Israele contro i palestinesi si sta estendendo. L’attacco militare al consolato iraniano di Damasco, 1° aprile, è soltanto l’ultimo atto della strategia della “grande Israele”, da decenni perseguita nel sud del Libano e in Siria. Continua il massacro della popolazione civile nel ghetto di Gaza, piú di 33.000 ammazzati, nella totale indiferenza dello Stato ebraico, razzial-razzista, alle risoluzioni dell’Onu e a ogni parvenza di diritto internazionale. I negoziati in corso in Qatar per una tregua a Gaza, di dilazione in dilazione, sono apertamente sabotati da Israele: l’ultimo segnale in questo senso è il deliberato oscuramento di Al Jazeera (Qatar) in Israele, a Gaza e in Cisgiordania. Al governo di Israele non basta aver ammazzato piú di 170 giornalisti palestinesi (numerosi di Al Jazeera) dal 7 ottobre a oggi. Mentre continuano le aggressioni dei coloni sionisti ai palestinesi per occuparne le terre, distruggerne le abitazioni e le coltivazioni, e costruire nuovi insediamenti con la protezione dell’esercito. La strage di cooperanti internazionali, il 2 aprile a Gaza, è l’ennesimo omicidio mirato, con l’obiettivo di rendere impraticabile il lavoro delle Ong a sostegno della popolazione afamata.

Sul fronte russo, fallita la “controfensiva” del governo di Kiev, l’iniziativa è al terrorismo nei territori di confne ma non solo della Federazione russa e nella stessa Mosca, in un gioco complesso di accordi tra servizi ucraini e occidentali (all’origine degli stessi mercenari dell’Isis, ieri contro l’Iraq e la Siria, mai contro Israele, e oggi con nuovi bersagli russi e cinesi).

In Europa, la corsa al riarmo in funzione antirussa; le politiche di “deterrenza” diventano politiche di guerra, sostenute da “economie di guerra” (grandi afari per le industrie militari e il mercato internazionale delle armi, vecchie e nuove, e l’innovazione tecnologica spinge i mercati dell’assassinio), mentre l’Unione europea, sodale di Israele, continua a sostenere la politica criminale del suo governo. La propaganda bellicista avvelena i media occidentali: la pace non è piú una virtú, e i pacifsti sono complici del demonio russo e dei “terroristi” palestinesi; Macron minaccia l’intervento di truppe francesi sul terreno ucraino e il ricorso alla guerra nucleare; il riarmo tedesco rilancia un’economia di guerra, coinvolgendo l’Unione europea, il paradiso dei lobbisti dell’industria militare; in Italia il governo fascio-atlantista, in afari di armamenti con Israele, farnetica di “riservisti”, nuova occupazione per giovani da addestrare ad ammazzare, e di una “legione straniera” per immigrati, riedizione degli ascari del colonialismo fascista: sono due perle recenti, parole al vento, del governicolo di estrema destra, erede del fascismo italico e del berlusconismo, maggioritario in Parlamento per i vantaggi del sistema elettorale e minoritario nel paese (i loro partiti sono stati votati da un elettore su quattro), in prima linea nell’attacco alla Costituzione su tutti i terreni sociali e istituzionali, dal lavoro alla scuola, dalla sanità alla magistratura, dalla leghista “autonomia differenziata” alla concentrazione dei poteri nel “premierato” degli eredi della repubblica sociale di Salò, del Msi e dello stragismo nero degli anni sessanta-ottanta.

Contro tutti questi orrori e miserabili spettacoli, e intrecciando tutti i temi, si stanno sviluppando, anche in Italia, nuovi movimenti di studenti medi e universitari che scendono in piazza, occupano le scuole e le sedi universitarie, smuovono l’inerzia di una popolazione assuefatta alla disinformazione dei media sistematicamente occupati dal governo; i nuovi movimenti parlano di scuola pubblica, si oppongono agli interventi dell’industria militare nella scuola (Leonardo e afni), manifestano pacificamente contro il genocidio a Gaza, reagiscono con mobilitazioni efficaci contro la repressione, come a Pisa il 2 marzo, unendo l’intera città di ieri e di oggi contro le manganellate del 23 febbraio agli studenti medi che manifestavano per la Palestina. Con un nuovo protagonismo delle generazioni piú giovani, soprattutto delle giovanissime (in prima linea nella lotta contro le miserie e il potere del patriarcato), tutti consapevoli di rischiare di essere davvero “ultima generazione” in un mondo devastato dalla strutturale crisi economica e climatica, e concretamente minacciato dalla distruzione nucleare. Anche la classe operaia, da decenni senza voce per le complicità di una sinistra perduta con un sistema politico-economico che ha creato precarietà e povertà, che ha devastato i “beni comuni” pubblici, sta ritrovando il proprio ruolo storico di classe confittuale, in lotta per interessi generali; le numerose esperienze di autorecupero di industrie svendute dal sistema a logiche speculative e fnanziarie (esemplare l’esperienza dell’ex Gkn di Campi Bisenzio, in rete con altre esperienze operaie a livello nazionale, e con i movimenti sociali di vario genere), la politicizzazione in corso di numerose lotte sindacali (Cgil, Usb), aprono nuovi scenari di protagonismo operaio, di lavoratori italiani e immigrati, contro un capitalismo predatorio e straccione.

Ai nuovi movimenti contro la guerra, oggi centrali anche in Italia (dai sondaggi di cui si chiacchiera nei talk show della politica televisiva risulta che il 75% della popolazione italiana rifiuta la guerra, e si ricorda che nell’articolo 11 della Costituzione «l’Italia ripudia la guerra» come mezzo di risoluzione dei confitti internazionali), i cani da guardia del patriarcato, “democratici” o fascisti, rispondono con consumato paternalismo soprattutto quando si tratta il tema del boicottaggio dell’industria militare («ma come! crea occupazione, e la Borsa vola!, e la scienza è neutrale»). La pretesa “neutralità della scienza” non esiste (ne ragionammo a lungo nei movimenti degli anni settanta). Le stragi atomiche di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, a fondamento del neoimperialismo statunitense, del tutto superfue sul piano tattico (il Giappone era ormai sconftto), servirono soprattutto a testare sulla popolazione civile le nuove armi di distruzione di massa. Da allora la deterrenza si uní strettamente alla sperimentazione di armi sempre piú potenti, con le risposte speculari dell’altro polo, sovietico, della cosiddetta guerra fredda, già calda in Corea negli anni cinquanta, e poi in Vietnam e nei numerosi scenari successivi. Sul terreno di una scienza tutt’altro che neutrale, di sperimentazione e produzione di nuovi armamenti testati su obiettivi militari e civili in Cisgiordania e a Gaza, in Libano, in Siria, in Iran, ha operato e opera lo Stato ebraico di Israele dagli anni cinquanta, unica potenza nucleare del Medio Oriente. Per questo è oggi un giusto obiettivo il boicottaggio delle relazioni di cooperazione tra le università italiane e quelle israeliane sempre e comunque al servizio della guerra, nel quadro della campagna internazionalista BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni) promossa nel 2005 dalla società civile palestinese e diffusa nell’intero Occidente, dagli Stati Uniti all’Europa.

Quale pacifismo. Nel dicembre 1967, in uno dei suoi ultimi articoli sul mensile «Azione nonviolenta», al quale dal 1964 aveva afancato il mensile «Il potere è di tutti», per un “nuovo potere” fondato su esperienze di democrazia diretta “omnicratica”, più che socialista, Capitini interveniva sulle questioni della pace e della guerra con un articolo dedicato ai giovanissimi impegnati nel movimento studentesco e operaio contro la guerra statunitense in Vietnam e per una radicale rivoluzione socialista in Italia e nel mondo (il socialismo almeno). Intitolato Il pacifismo è una cosa seria, lo riproduco integralmente, a presente memoria:

Per alcuni decenni abbiamo sentito ripetere spesso: libertà e non licenza, solidarietà e non democrazia, socialità e non socialismo, pace e non pacifismo.

Molte volte erano formule ingannevoli, che ricoprivano l’avversione “borghese” ad attribuire importanza a posizioni popolari, dal basso, che esigevano una profonda trasformazione. Un particolare sprezzo era per il pacifismo, accusato di essere “panciafichismo”, utopia e viltà nello stesso tempo. Bisognava aver fiducia nelle “autorità”, nei capi, non sommuovere le popolazioni, con formule suggestive e pericolose, da “teste calde”!

La inconsistenza di questi ammonimenti risulta più evidente in questo Natale 1967. È la prima volta nella storia che moltitudini di giovani scendono nelle piazze per chiedere la fine delle guerre, la cessazione dei bombardamenti su donne e bambini, la conversione delle spese del riarmo in spese per la civiltà di tutti; è questo il Natale in cui il maggior numero di esseri umani chiede, con una notevole consapevolezza informata, la pace al posto della guerra.

È evidente che ci sarebbe un unico modo in cui le popolazioni potrebbero garantirsi dalle decisioni bellicistiche dei propri governi, quello di non collaborare con la guerra e con la sua preparazione. Ma è proprio questo che i potenti attuali non vogliono, e perciò impediscono l’esatta informazione quotidiana, col dominio che hanno della radio, della televisione, della stampa, della scuola, manipolando l’opinione pubblica, e d’altra parte cercano di squalificare in vari modi il pacifismo. Essi hanno intuito che la lotta per la pace è la leva per sollevare il mondo, per aprire il suo rinnovamento, per giungere finalmente a strutture giuste, aperte, libere.

La riflessione storica applicata semplicemente agli avvenimenti degli ultimi decenni, mette in luce la decisività che avrebbe avuto la non collaborazione col fascismo al tempo del delitto Matteotti e dopo, col nazismo della persecuzione antisemita e dei campi di sterminio, ecc. Una volta il socialismo aveva parlato di rispondere alla mobilitazione bellica con lo “sciopero generale”; ma poi aveva accettato l’esercito sia come corrente comunistica, sia come corrente socialdemocratica tolte poche eccezioni; i fedeli delle religioni tradizionali, nelle quali il motivo dell’autorità è predominante, non avevano contrastato, tolte minime eccezioni.

Oggi le popolazioni si stanno movendo per non ripetere gli errori passati, per non farsi trascinare («l’obbedienza non è piú una virtú», ha detto don Lorenzo Milani). E questa è la ragione per cui il motivo della nonviolenza e del pacifismo integrale richiama l’interesse di molti, e sta passando in primo piano.

Perché, parlando in generale, la storia del pacifismo dal Settecento ad oggi comprende tre grandi correnti: del pacifismo giuridico, del pacifismo attraverso la rivoluzione sociale, del pacifismo attraverso la non collaborazione nonviolenta.

La prima corrente raggiunse una grande altezza nel Settecento con i progetti di federazione internazionali e di tribunali di arbitrio internazionale per evitare i confitti armati. Kant col suo Progetto della pace perpetua (1795) della struttura di una organizzazione internazionale, dopo il Rousseau ed altri, che comprendesse gli Stati liberi e repubblicani, nei quali i cittadini ubbidiscono alle leggi che si sono dati. Tutto l’Ottocento è pervaso dal lavoro compiuto da associazioni e da congressi, per difondere questo stato d’animo giuridico, e le istituzioni che poi vennero della Aja, di Ginevra, della Società delle Nazioni, sono il prodotto di questa tendenza, di questo sforzo alquanto ottimistico, ma tutt’altro che disprezzabile.

L’altra corrente è quella del socialismo e comunismo, che tendono a stabilire la pace come conseguente ad una trasformazione della struttura economica, comunque essa accada, con riforme o con rivoluzioni. Posto che il capitalismo è il generatore dell’imperialismo, soltanto la soppressione del capitalismo stabilirà la pace. La terza corrente è quella che ha avuto espressioni massime nel Tolstoj, in Gandhi, negli obbiettori di coscienza di questo secolo. Essa propugna il rifuto della collaborazione militare.

In questa seconda metà del secolo sono presenti le tre correnti, e interessano sempre piú l’umanità. Anche se le nostre convinzioni sono per il pacifsmo integrale, non collaboranti con la guerra e guerriglia in tutte le loro forme, tuttavia sentiamo il rispetto per le altre forme del pacifsmo, in quanto contribuiscono ad eliminare la guerra di fatto. Il pacifismo giuridico ha il suo peso evidentemente, anche se noi vogliamo che sia formato dal basso uno stato di animo, una conversione alla preferibilità della pace.

Non è qui il caso di indicare le insufficienze dei pacifismi “incompleti” che tuttavia sono testimonianze valide di una tendenza e di una problematica; e, ripeto, l’importante è che si faccia, dal basso e discutendo, la ricerca del miglior pacifismo. Perciò non possiamo esortare a fdarsi delle “autorità”, specialmente quando deridono i pacifsti che hanno paura di mettere a repentaglio la loro vita. È un’accusa grossolana, perché la storia dei pacifsti è piena di martiri, che oramai sono superiori in numero ai martiri del primo cristianesimo. E chi è che sofre gravemente oggi in Italia per i suoi ideali se non gli obbiettori di coscienza in prigione da anni e anni? A patte il fatto che uno ha il pieno diritto di scegliere il modo di sacrifcare la vita propria (che vuol dire agire seriamente), è chiaro che il modo militare ha una particolare gravità, perché è anche soppressione della vita altrui e difusione di un’educazione violenta.

Nei suoi ultimi anni, tra 1966 e 1968, due sono i temi dominanti nella rifessione e nell’azione politica di Capitini: la questione del potere e la lotta contro le cause di guerra. I due temi sono profondamente intrecciati. Sulla questione del potere Capitini contrappone al dominio oligarchico liberale un potere omnicratico di democrazia integrale da costruire “dal basso” per rovesciare la piramide sociale attraverso due fasi, il “potere senza governo” e un “nuovo potere dal governo”, prefgurato dalla prima fase nella scelta coerente dei fni e dei mezzi. Sulla questione della lotta per la pace, a un pacifsmo testimoniale e compatibile con qualunque governo contrappone un pacifsmo attivo («la nonviolenza è lotta») capace di coniugare la critica del bellicismo e del militarismo con i contenuti e gli obiettivi di una «rivoluzione permanente» per la costruzione di un nuovo socialismo libertario, in aggiunta e a sviluppo radicalmente democratico delle grandi rivoluzioni (sovietica e cinese) del Novecento.

Un percorso politico, quello di Capitini, interrotto prematuramente nel 1968 ma destinato, con le sue “aperture” e sollecitazioni, a resistere e insistere nelle progettualità rivoluzionarie dei decenni successivi nonostante i numerosi tentativi di rimozione e deformazione (liberaldemocratici da salotto buono, cattolici clericali, comunisti pentiti) del suo pensiero e della sua prassi di “rivoluzionario nonviolento e libero religioso” (la religione della compresenza tra passato e presente, tra autonomia dei singoli e socialità senza confni, tra morti e viventi). Oggi, dopo le esperienze drammatiche e feconde degli anni settanta del Novecento, in primo luogo i percorsi fondamentali del femminismo (con cui non poté confrontarsi), i temi di Capitini mantengono tutta la loro vitalità di orientamento tra le macerie di una storia che gronda sangue, prigioniera di processi economici e sociali che rendono necessaria una radicale alternativa di sistema. Qui siamo, prepariamoci al meglio. Come il 25 aprile a Milano, alla manifestazione promossa da «il manifesto» a cui «Il Ponte» ha subito aderito, per far incontrare i “movimenti” in un unico “movimento”, in una grande assemblea decisionale di resistenti e ribelli di ieri e di oggi, uniti nell’attuazione della Costituzione nata dalla Resistenza, fondamento storico e progettuale di una nuova socialità e di un nuovo socialismo da costruire con alta visione e alta passione.