Hermann Broch

di Antonio Tricomi

Lo precisa Luigi Forte nella Postfazione al volume: Il racconto della serva Zerlina (Adelphi, Milano 2016, pp. 77, € 10,00), steso nel 1949, è uno dei mondi narrativi che compongono Gli incolpevoli, “romanzo in undici racconti” iniziato nel 1930, ma concluso e licenziato solo vent’anni più tardi, nel quale Hermann Broch «affronta il tema della colpa tedesca prendendo spunto, oltre che da Karl Jaspers, dal saggio della Arendt Colpa organizzata e responsabilità universale scritto nel gennaio del 1945 in concomitanza con la liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’Armata rossa». Giova però anzitutto richiamare alcune tesi esposte dall’autore austriaco in un altro libro, Hofmannsthal e il suo tempo (Adelphi, Milano 2010), concepito negli stessi anni, cioè tra il 1947 e il 1948, e pubblicato, in una prima edizione incompiuta, nel 1949, per capire come mai si debba scorgere anche nella vicenda occorsa a Zerlina – e che, nell’introduzione a una raccolta di saggi dell’amico apparsa postuma nel 1955, Poesia e conoscenza, Hannah Arendt, ricorda ancora Forte, definiva «forse la più bella storia d’amore della letteratura tedesca» – una cartina al tornasole di quella crisi della civiltà che, già sfociata nella Grande guerra, produrrà il nazifascismo e il secondo conflitto mondiale.

Per Broch, il XIX secolo durò «dal 1848 fino alla prima guerra mondiale», periodo in cui prese forma, nell’Europa intera, un «vuoto di valori» per effetto del quale «il pensiero politico» giunse a dimostrarsi «del tutto assente, o perché non ancora sviluppato o perché già inaridito», mentre «la categoria estetica» acquisì «sempre maggior risalto», causando, non solo in arte, e anzi soprattutto al di fuori di tale campo, «una tendenza vieppiù marcata all’ornamentazione e alla decorazione della vita», tanto da «suscitare quell’indifferenza etica che – contraltare dell’iconoclastia – si manifesta come puro edonismo, come pura smania di godimento». In altri termini, suggerisce Hofmannsthal e il suo tempo, a favorire le immani catastrofi del Novecento fu il trionfo – via via più scoperto nella seconda metà del secolo precedente e da esse non già contraddetto, ma mostruosamente condotto al parossismo – del Kitsch, inevitabile esito socioculturale dell’urgenza, finanche psicologica, di celare «un minimo di valori etici» con «un massimo di valori estetici, che però non erano e non potevano più essere tali, giacché un valore estetico privo di una base etica è l’esatto contrario di se stesso».

Così, insiste Broch, «il XIX secolo divenne l’età del Kitsch per eccellenza, il secolo dell’estetizzazione borghese e dell’eclettismo a essa connesso». In definitiva, un’era perversamente entusiasta di annunciare quell’«imminente disumanizzazione del mondo» che si sarebbe poi incaricata la politica – nel frattempo divenuta «in tutta Europa sempre più difficile da tenere a freno» – di portare a compimento, dapprima assumendo «i tratti della follia, senza naturalmente essere davvero folle», e in ultimo arrivando – se fu appunto dall’«estetismo» che scaturì «il superomismo» – a risolversi in «un’escatologia sacrilega» animata da «un misticismo estetizzante» e a reiterare l’orrida celebrazione della presunta forza purificatrice della guerra. Già agli albori del Novecento, si evince allora da Hofmannsthal e il suo tempo, la colpa del popolo tedesco consiste nell’aver rinnegato ogni scrupolo che riguardi la sfera dell’etica, riducendo quest’ultima a posticcio involucro decorativo – immediatamente riconvertito, peraltro, in strumentale legittimazione dei più belluini istinti individuali e collettivi – di un crescente desiderio di normalizzazione politica e di rivalsa culturale infine pienamente soddisfatto dalla costruzione di una società totalitaria, quella nazista, a propria volta degradata dal Führer e dalla comunità stessa a mero, triviale ornamento dell’irrefrenabile ossessione distruttiva, e autodistruttiva, che la nutrì.

Autore squisitamente modernista, Broch è un maestro di ciò che definiamo “romanzo-saggio”. Si rivela quindi incline a sovrapporre la propria voce a quella dei personaggi da lui creati. La loro attitudine speculativa, costantemente esibita, è in sostanza la sua, ed essi divengono – con quel che sono o fanno, per quel che pensano o dicono – allusive incarnazioni, trasfigurati emblemi di aporie socioculturali su cui lo scrittore vuol pronunciarsi o di ragionamenti che egli intende articolare. Quando indaga il proprio vissuto offrendoci acute riflessioni di matrice coerentemente filosofica, anche Zerlina appare perciò una riconoscibile controfigura di chi le ha dato forma. Una vegliarda, però lucidissima, che, pur avendo «più o meno sempre tratto piacere» dai numerosi, fugaci rapporti clandestinamente stretti con partner anche molto giovani, scopre infine di aver amato, nell’intera sua vita, un solo uomo: quel «signor barone» che servì fino alla morte, con cui si astenne dal provare a intessere relazione erotica alcuna, ma del quale si giudica l’autentica «vedova». O sarebbe forse più giusto dire: l’unica vestale irriducibilmente devota.

Ai suoi occhi, il padrone di un tempo è infatti l’immagine stessa del «santo», dell’individuo capace di restare «ben al di sopra del piacere» e, pur di ottenere «la salvezza dell’anima», di non «abbandonarsi al desiderio di una donna», che lo avrebbe sì «fatto godere», ma anche «guastato nell’anima». Riferendosi al quadro socioculturale schizzato da Broch nel saggio su Hofmannsthal, si potrebbe cioè affermare che, in un’Austria prehitleriana costretta a registrare la dissoluzione dei valori, «sua Eccellenza» – nell’ottica di Zerlina, dunque dello scrittore – è un esempio di come ci si possa ancora mantenere ligi «al sacro rigore» verso se stessi. In pratica, a una giustizia eticamente fondata, e non puramente formale, che badi anzitutto a schivare quell’«assenza di scrupoli che troppo spesso, e solo per soddisfare un bisogno di vendetta», invoca «la scure del boia», così giustificando la sete, ormai diffusa, «del sangue della vittima».

Viceversa, la moglie del barone e il caricaturale Don Giovanni da cui la donna avrà una figlia, cioè il Signor von Juna, sono dipinti da Zerlina – per restare all’analisi tentata da Broch in Hofmannsthal e il suo tempo – come squallide epifanie del Kitsch imperante. E che abbonda nella loro goffa corrispondenza, a conferma dell’«inutile, vacua grancassa dell’anima» con cui «la gente riempie la vacuità della sua vita e della sua noia», rivelando una sconfortante «miseria» e l’incolmabile «vuoto» etico dal quale trae origine la «malvagità» che ne ispira le azioni. Dapprima Zerlina tenterà di contendere l’amante alla padrona. Poi ambirà a svelare quella tresca e ad addebitare al Signor von Juna un delitto, forse da lui effettivamente commesso, che però, in tribunale, provvederà proprio il barone, frattanto divenuto presidente di Corte d’Assise, ad evitare venga imputato all’uomo. Infine, rimasta in casa della rivale in amore anche dopo la morte del padrone, alleverà la bimba nata da quella relazione extraconiugale in modo da trasformarla nella «vera figlia del Presidente», da renderla «simile a lui» per costringerla a espiare «la propria colpa» e la colpa, «irredimibile in eterno», della madre, così asservendola alla «volontà di vendetta» scartata dal barone e che in lei – lontana dalla «santità» di costui, restia a «farsi carico» di ogni «penitenza», conscia che «ribellarsi però non le serve a niente» – può solo tradursi in un’ambivalenza, anzi in una paralisi, tra la «lascivia» ereditata dal genitore naturale e «l’imperativo del padre, che non era suo padre».

E allora, se Zerlina riesce in ultimo a rendere la dimora in cui presta servizio «un inferno», pur «sotto la sua patina di quiete e raffinatezza», ciò non si deve al desiderio di spendersi in un’autentica lotta di classe e alla capacità, infine, di vincere la partita. Da vecchia, ella infatti capisce di essere sempre stata mossa, nel proprio odio contro la baronessa, dall’«immagine del Presidente, indelebile, fin dal primo giorno»: un’immagine «cresciuta, cresciuta» in lei al pari di un ideale cui mostrarsi fedele, se non imponendolo con la forza agli altri, curandosi almeno di punire quanti non lo rispettino e addirittura se stessa, certa di non esserne degna. E appunto questo ha significato per Zerlina la liaison col Signor von Juna: «un dono della morte, con la sua dolcezza oscura e senza tempo», che – spiega la donna – «un giorno mi aiuterà a sprofondare lievemente, sorretta dalla pienezza del ricordo». Perché, a parer suo, se l’epoca nuova non offre più a nessuno la chance dell’innocenza e della rettitudine, non resta, per sentirsi intellettualmente rispettabili, che prendere ognuno su di sé il «fardello» di cui lei accetta di farsi carico e che la padrona, il Signor von Juna, la figlia di costoro, invece, rigettano. L’angoscia, cioè, di scoprire che «insieme con la nostra perfidia continua a crescere, diventando più grande di noi, anche la nostra responsabilità, e quanto più profondamente l’uomo deve immergersi nella propria perfidia per trovare se stesso, tanto più deve assumersi la responsabilità dei delitti che non ha commesso».

Né Broch vuole illuderci che quella di Zerlina sia una percezione delle cose viziata dall’esperienza, certo non ordinaria, vissuta dalla serva. Che infatti narra la propria vicenda, e riassume la sua visione del mondo, a un giovane, ospitato a pigione dalla baronessa, i cui «pensieri non smettevano mai di girare attorno al denaro e alle svariate possibilità di guadagnarne», e però incline a «una certa ritrosia di fronte a qualsiasi decisione», ligio al fatalismo, prono a «una disposizione d’animo che aveva preso la forma di un vigile e sonnolento lasciarsi vivere». L’interlocutore di Zerlina è quindi il prototipo di quell’umanità pronta a rispecchiarsi nell’incipiente nazismo e che, sembra suggerire Broch, anche si candiderà, dopo la vittoria degli alleati, a costruire le democrazie occidentali a propria immagine. Cioè a dire nel solco di un’irreparabile bancarotta etica, di un inguaribile cattivo gusto.