[Le nostre ragioni di un no. Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Mario Monforte, Tomaso Montanari, Pier Paolo Poggio, Marcello Rossi, Giancarlo Scarpari, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]
Spero che decidano per il no al referendum anche coloro che di solito non votano: o perché considerano truccato il gioco delle istituzioni o perché ritengono la politica un puro spettacolo irrilevante o perché temono di trovarsi in cattiva compagnia. Condivido in buona parte la loro diffidenza: tuttavia penso che stavolta si debba votare, sia pure con motivazioni diverse da chi intende puramente e semplicemente difendere la Costituzione vigente.
La crisi del regime democratico-parlamentare che ci ha governato fino all’inizio di questo secolo è sotto gli occhi di tutti ed è probabilmente irreversibile: stiamo assistendo non a un semplice mutamento di governo nell’ambito di regole comunque valide e neanche a una pura ridistribuzione dei rapporti di forza, ma a un cambiamento più sostanziale di forma della politica. Che si debba cambiare la Costituzione è perfino ovvio: solo, in senso opposto a quello che intende seguire la riforma proposta dall’attuale capo del governo.
Del populismo si parla spesso in modo generico e giornalistico: questo impedisce di coglierne l’interesse e la specificità e anche – per quanto riguarda l’Europa – il forte legame con la tradizione della destra del Novecento. L’analisi migliore di questa forma politica è stata realizzata da Ernesto Laclau, che – per altro – ne è in fondo un sostenitore. Perché il populismo possa sorgere – egli sostiene – occorre una condizione negativa e tre condizioni positive. La prima è la crisi dell’ordine simbolico e politico precedente e dunque, nel nostro caso, della democrazia rappresentativa parlamentare. Le altre sono: l’identificazione di massa con l’Io ideale incarnato dal Capo, la costituzione di un “altro”, come nemico esterno o interno del popolo, la capacità di comporre almeno provvisoriamente in unità domande e critiche apparentemente incompatibili. La sostanza comune di queste operazioni è la riduzione a unità politica immaginaria di una molteplicità altrimenti disseminata e potenzialmente critica per l’ordine esistente.
La riforma della Costituzione voluta da Renzi permette la costituzione di un esecutivo capace di riassumere in sé queste funzioni. Non dico che Renzi personalmente voglia o sia in grado di porsi come capo di un movimento nazional-populista, questo si vedrà: tuttavia il quadro istituzionale proposto conduce a un rafforzamento unilaterale del potere esecutivo tale da permetterne la futura costituzione, con leader e comportamenti politici che potrebbero essere infinitamente peggiori di quelli attuali. Qualcuno potrebbe obiettare: ma che ci importa di questa o di altra forma politica? Tanto non è sempre comunque la Banca centrale europea a comandare e i poteri economici forti?
In effetti la riforma – che si dice «voluta dall’Europa» – si propone in prima istanza di modificare la natura dello Stato in modo tale da renderlo rapidamente adeguato al comando delle potenze economiche dominanti, liberandolo dai lacci (tali sono oggi considerati) del parlamentarismo. L’esecutivo – sottratto sostanzialmente a ogni controllo dopo l’elezione – diverrebbe così soprattutto un esecutore; ma è possibile anche una sorta di eterogenesi dei fini, come quella che pare divenire possibile in Francia: e cioè che di un esecutivo di questo tipo si impadronisca un movimento populista di destra, raccogliendo in chiave sciovinista e razzista la protesta contro la crisi e le forze economiche che l’hanno prodotta. Può accadere che si trovino dunque a competere una destra tecnocratica e una destra – più o meno larvatamente – nazionalista (o perfino neofascista).
Entrambe queste soluzioni, consentite e stimolate dall’attuale proposta di riforma, sono a nostro avviso distruttive per ogni volontà politica che voglia invece dirigersi verso una democrazia insorgente, sociale e partecipata. E che richiede sì, modifiche alla Costituzione, ma di ben altro segno: federalismo, mandato imperativo, controllo diretto e continuo dei rappresentanti sui propri eletti. Una costituzione di questo tipo sarebbe il riflesso politico di una richiesta di eguaglianza e di giustizia economica, che sembra lontanissima dalla mentalità degli attuali patrigni costituenti.
Temo che la frase possa suonare retorica, ma la voglio pronunciare ugualmente: è quella di Rosa Luxemburg: O socialismo o barbarie; perché se per un momento riusciamo a toglierci dagli occhi la benda dello spettacolo con cui ci annebbiano la ragione, dovremo riconoscere che questa e non altra è l’alternativa che si sta delineando per il prossimo futuro. Votiamo no perché resti ancora possibile uno spazio di conflitto in questa direzione.