[Le nostre ragioni di un no. Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Tomaso Montanari, Mario Pezzella, Pier Paolo Poggio, Marcello Rossi, Giancarlo Scarpari, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]
Andando al referendum sulla modifica renziana della Costituzione, per ben comprenderlo è utile ricordare, in questo “paese di smemorandia”, che non ne è questa la prima modifica formale (mettendo da parte quelle attuate in pratica). La prima fu quella del Titolo V, con risicati voti parlamentari del centrosinistra, fatta passare nel referendum del 7 ottobre 2001 come «autonomie delle Regioni» – fu presto chiaro che erano carrozzoni mangia-fondi e piazza-politici: una “deforma” da riformare, il che resta tuttora in sospeso (le effettive autonomie sono “problematiche” per il potere statuale centrale).
La seconda fu la “deforma” di Berlusconi, che diminuiva deputati e senatori, ma in funzione del premierato, con caduta del governo del premier solo a «sfiducia costruttiva», del maggior controllo politico della magistratura, della riduzione del presidente della Repubblica a ruolo notarile – puntando a interconnettersi a una legge elettorale con grosso premio di maggioranza. L’operazione berlusconiana fu sostenuta con minore virulenza dell’attuale, ma l’allora Ds, con associazioni collaterali e fronte di sinistra – nell’allarme: «attentato alla Costituzione, democrazia in pericolo» –, l’affossò nel referendum del 25-26 giugno 2006.
Quella renziana è la terza. E i baldi difensori diessini della Costituzione, anche loro smemorati? (Forse un “danno collaterale” per il “travaso” del 2007 nel Pd …). Il “grosso” del partito ora sostiene l’opposto, con i suoi parlamentari, che hanno legittimato un parlamento uscito da una legge elettorale, il Porcellum di Calderoli, incostituzionale (come sancito dalla Consulta), e quindi i suoi provvedimenti – in compagnia dell’opposizione: sia quella mezza-e-mezza di Forza Italia, sia quella piú decisa, a sinistra, a destra, a “né di destra né di sinistra”, hanno accettato, perciò riconosciuto, questo parlamento, operando in esso. In tale quadro sono state accolte “forzature” istituzionali – tre governi nominati da Napolitano, sua seconda rielezione alla presidenza della Repubblica (in effetti, una suite di «golpe bianchi») – e decise una serie di misure nocive per il paese e la sua popolazione (ma negli interessi della dominante oligarchia economica, sociale, politica, culturale, mediatica), compresa l’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Di piú: il “grosso” dei parlamentari del Pd a direzione renziana sono arrivati, perfino in un parlamento del genere, ad approvare da soli (con pochi altri per assicurare la maggioranza: quelli di Monti, quelli di Alfano e Verdini, già del centrodestra) il massacro della II parte della Costituzione – lasciando la I sospesa, come da sempre, nel vuoto retorico (verso il crescente oblio). Gli aspetti piú palesi sono l’eliminazione del Senato – sostituito da un “papocchio senatorio” di nominati in seconda istanza (pescati dai Consigli regionali), marginale per la gestione (governo) dello Stato -, connessa alla nuova legge elettorale, detta (chissà perché) Italicum – simile all’altra: premio di maggioranza assurdo a chi arrivi al 40% dei voti validi, ossia il 25% al massimo dei votanti effettivi, con immediata «fiducia di mandato» al leader vincitore, e assunzione di tutte le cariche istituzionali da parte sua e dei suoi.
La propaganda a favore è piú proterva, ma non molto diversa dalla precedente berlusconiana: «assicurare la governabilità», «ridurre le spese della politica», «basta con il bicameralismo perfetto» – ed «è settant’anni che ce lo chiede il paese» -, «stop alle lungaggini parlamentari» per «fare presto e bene» – e il cambiamento è valido, e la modernizzazione è indispensabile.
Una serie di balle, «notizie false e tendenziose atte a …» ingannare la popolazione. La governabilità? Ma è assicurata, e da sempre, in Italia, al di là e anzi proprio attraverso l’alternarsi delle gestioni (governi) dello Stato. Meno spese della politica? Ma dove, basta fare un po’ di conti veri. Eliminare il bicameralismo? Ma è servito, e serve, a un’ampia discussione e composizione degli atti di legge nel contesto delle frazioni e fazioni della classe politica, quindi delle componenti (dirette e indirette) dell’oligarchia di referenza, nonché delle modalità di ottenere un consenso o comunque un’accettazione da parte delle classi subalterne. Lo chiede il paese da settant’anni? Il «grido di dolore» non si è mai sentito, e non siamo fra sordi. Le lungaggini? Ma sono dovute ai problemi di accordo o meno fra frazioni e fazioni, altrimenti non vi sono, com’è accaduto e accade in molti casi. E il «cambiamento» – parola d’ordine connessa a quanto è posto come mirabile: l’innovazione costante dei prodotti e ancor piú dei programmi di software – è una vox media: si muta in meglio o in peggio (come in questo caso). Variante del «cambiamento» come valido in sé è la «modernizzazione» da agognare come tale. E «presto e bene» è … il motto delle pompe funebri.
È evidente a chi non faccia parte delle cordate di interessi e interessati, o non sia un “tifoso” di Pd e soci, e non voglia farsi ingannare, che si tratta di un rinnovato disegno di accentramento dirigistico e autoritario della gestione (governo) statuale, assicurandola in una gabbia d’acciaio, sotto il «premierato» (non dichiarato, ma nei fatti) del leader impostosi e dei suoi nominati, senza contrasti significativi, almeno per ogni legislatura. Il che implica lo stravolgimento della Costituzione nei suoi caratteri di rappresentanza, di attività legislativa parlamentare, di bilanciamento dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), nello scatenamento del leaderismo.
Per il referendum, fissato (pare) il 4 dicembre (per darsi tempo), Renzi & Co. muovono tutte le forze possibili, vanno in giro per il paese, hanno formato i «Comitati per il Sí» e imposto “privilegi” pro sí in tv. Né mancano gli appoggi: oltre a Marchionne, quelli di Confindustria, dei Giovani industriali, della grande stampa, di cólti che passano per studiosi “esperti”, di personaggi mediatici come Benigni, nonché altri, capaci di influenzare la “gente”. Anche dall’estero sono venuti quelli che, nel vezzo (pernicioso) dell’anglicismo, i media chiamano endorsement: l’ambasciatore Usa, John Phillips, ha detto «passi la riforma, è giusta, se no sarà una catastrofe», con supporto dell’agenzia Usa Fitch Ratings, che ha profetizzato la caduta degli investimenti esteri in Italia, se non si afferma il sí; e a favore «cosí parlò …» Frau Angela Merkel. Al che Mattarella ha proclamato l’ovvio: «all’estero hanno diritto di interessarsi dell’Italia, ma la sovranità spetta al popolo» – però né Phillips, né l’agenzia Fitch, né la Merkel lo negano, danno solo “consigli” … forse, non molto utili a Renzi & Co., per reattività di orgoglio nazionale – almeno come il tifo per la nazionale di calcio (e infatti quasi tutti i media hanno lodato la risposta di Mattarella e archiviato subito la faccenda).
È un paradosso – addirittura divertente, prendendo distanze abissali, il che è arduo per chi vive nel nostro paese. Il “grosso” di coloro che hanno combattuto la “deforma” di Berlusconi & Co. ora è pro “deforma” di Renzi & Co., e viceversa: cambio di ruolo. Ogni paradosso è una contraddizione non spiegata, e va sciolta. Berlusconi con i suoi tentò questo accentramento per gestire l’avanzata del liberalismo interno insieme a un pur sgangherato “sgomitamento” per una maggiore, benché parziale, autonomia in politica estera (economica e non solo): in base a comparti dell’oligarchia che lo sostenevano, una qualche continuazione della vecchia politica Dc. E, in un contesto che, se già segnato da ripetute “esplosioni di criticità”, non era ancora quello della crisi globale – scoppiata nel 2007 e generalizzata dal 2008 -, Berlusconi pensò di riuscirci (in fondo, la modifica del Titolo V era passata). Avrebbe lasciato ai posteri questa modalità di accentramento, ma intanto si sarebbe rafforzato, e a lungo, con un successo referendario.
Cosí non fu. Attacco dall’interno: il Ds non intendeva permettere questa assunzione di maggior forza gestionale da parte di Berlusconi e centrodestra. E dall’estero: gli Usa già avevano concorso alla caduta di Dc, Psi & Co. (sostegno a «Mani pulite»), che conducevano quella politica, e non volevano la riuscita del tentativo berlusconiano; l’Ue, Germania in primis, vi si accodò. Senza dimenticare l’intreccio interno-estero: l’italico trasversale “partito amerikano” e “filo-Ue”, operante in maniera multiforme – all’interno delle stesse fila berlusconiane. E Berlusconi è infine caduto del tutto (2011), insieme ai conati di politica di “sgomitamento” di settori dell’oligarchia.
Il tentativo di accentramento è ripreso da Renzi & Co. e Pd e soci, con grossi appoggi esteri e dell’oligarchia interna: la politica renziana non prevede nessun “sgomitamento” ed è consona alle linee di Usa e Ue; l’oligarchia italica ha accolto la subordinazione ed è sempre piú in fusione con quella estera; le (attuali) critiche di Renzi a Germania e Francia, e all’Ue, sono in sé inconcludenti (sull’Ue) e servono ad agganciare, per fini elettorali, le tendenze (ancora) prevalenti in Italia del «sí all’Ue, ma cambiandola». E tale politica pro-oligarchica (pro capitale nel suo complesso, dal versante finanziario e bancario alla produzione e distribuzione, e capitale non solo interno, ma anche estero), per cui è già stato fatto molto proprio da questa sinistra (la destra non avrebbe potuto: si pensi alle sollevazioni popolari che sarebbero state promosse, o sostenute), mentre non fuoriesce dalla crisi (che è organica alla stessa «crescita», nome suadente, che significa solo accumulazione del capitale), genera costanti contraddizioni, contrasti e conflitti. Perciò è utile, per perpetuare e gestire lo stato di cose dato, un accentramento dirigistico e autoritario della gestione statuale, che anche Renzi lascerebbe al dopo, ma intanto potrebbe utilizzare appieno, con successo nel referendum.
Questo è il “nodo”. Mutano quadro e contesto. Il fronte del no si è in gran parte rovesciato. Comprende solo settori minori della sinistra: quella “interna” al Pd, da tempo tipo “re tentenna” (è chiaro: aderisce anch’essa al liberalismo-capitalismo, esemplificato dal bersaniano «le liberalizzazioni sono di sinistra», e infatti sono da sinistra liberale), che dice ni, connettendo il no alla mancata riforma dell’Italicum (il resto può andare?); decisi i fuoriusciti dal Pd, con i resti di Sel e di Rifondazione, ma di ridotto bacino elettorale; decisa, ora come allora, l’Anpi (assumendo la Costituzione come frutto della Resistenza); anche la Cgil dice no (quanti iscritti lo seguiranno?) e cosí ovviamente i sindacati di base. Per il resto, il fronte comprende il M5S, a sé stante, ma deciso (onestà e legalità costituzionale sono per esso la democrazia); Forza Italia, che però va in ordine sparso (riconosce come reale quanto affrontato da Renzi & Co., ma si attesta contro la “riforma sbagliata”, quindi: via aperta a tornare poi sul “nodo” e a cogestire il governo), dai piú decisi, come Brunetta, ai piú possibilisti, fino chi è per il sí; netto il no della destra (Salvini-Lega e Meloni-FdI, ostili comunque a Renzi). Minori i sostegni “potenti”; molti i costituzionalisti per il no, che, tuttavia, sostengono l’“aggiornamento” della Costituzione, però non nel modo renziano.
La debolezza del fronte del no sta nel fatto che il messaggio agli elettori non risulta univoco, chiaro. Si centrerà infine sulla “difesa della democrazia”, ma con diverse voci, sfumature, distinguo. E si baserà sul discredito crescente e diffuso del renzismo: benché Renzi abbia cercato di correggere la personalizzazione del referendum, questo sarà un sí o no a lui & Co.
E perciò bisogna votare no: va respinto il “papocchio senatorio” e quanto annesso e connesso, respingendo cosí, indirettamente, anche l’Italicum (su cui la Consulta si pronuncerà dopo il referendum). Va battuto il governo renziano, con il Pd di supporto, che ha proseguito ed esteso il degrado, su tutti i piani, del nostro paese e grande maggioranza della popolazione, e l’infeudamento all’estero – riavviando una dialettica politica, pur incerta nelle prospettive, ma con aperture e potenzialità. Va sconfitta la riproposizione dell’accentramento dirigistico e autoritario, con lo stravolgimento della Costituzione e la riduzione dei diritti politici dei cittadini – il che, se non comporta di per sé la riduzione dei diritti civili, vi apre maggiori possibilità, all’occasione.
È la difesa della democrazia? È la difesa di spazi per capire e cominciare a indirizzarsi alla democrazia in senso vero. Che è ben diverso da quello corrente (liberale): l’esistente “sistema” elettorale-rappresentativo, pur respinta la gabbia dell’accentramento, applica per definizione il principio della delega alla gestione (governo) «ai pochi», con «uno» in testa (dal livello centrale a quello locale; com’è nei C. d. a. e negli altri campi), nel gioco delle fazioni politiche (partiti) – è quindi un principio oligarchico (corrispondente all’esistenza dell’oligarchia dominante in Italia). La democrazia come effettivo «potere del popolo, per il popolo, esercitato dal popolo», vuole autonomia (e reale indipendenza), autogoverno (articolato dal “basso” al “centro”), rotazione di scelti (di volta in volta) e collegialità (delle cariche). Il principio democratico, sola via di fuoriuscita dalla situazione tanto ossificata e stratificata, quanto sempre piú affondata in un vicolo cieco, del nostro paese, va ripreso, ripensato, fatto comprendere e proposto. È questo l’impegno di fondo, che comprende come momento fondante anche il no alla “deforma” di Renzi, e di tutti i suoi sostenitori.