torturadi Giovanni Palombarini

[Questo articolo è stato pubblicato nel numero 5-6 de Il Ponte (maggio-giugno 2015). Numero speciale interamente dedicato alla giustizia e curato da Livio Pepino]

1. La tortura non esiste. Non esiste come figura di reato nell’ordinamento italiano, nonostante gli impegni solennemente presi in sede internazionale (la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 è stata ratificata dal nostro paese nel 1988). Non esiste, per le autorità di pubblica sicurezza, come tormento inflitto a un arrestato per sadismo o per vendetta o per ottenere una confessione, perché viene nascosta o negata. E nascondendo o negando, l’autore o gli autori dei tormenti si avvalgono di una rete protettiva fatta di sforzi di comprensione, o di indulgenza, o di indifferenza; o, a volte, di una sostanziale solidarietà da parte di chi dovrebbe chiamarli a rispondere dei reati commessi.

Così come non esiste un uso improprio delle armi neppure secondo l’opinione pubblica, visto che l’ideologia dominante, a parole sensibile al rispetto dei diritti della persona, nei casi concreti è portata di volta in volta a privilegiare le ragioni della difesa dell’ordine pubblico ovvero ipotetici stati di necessità in cui vengono a trovarsi coloro che alle armi fanno ricorso.

Già la storia delle norme fatte o non fatte, prima ancora di quella degli orientamenti dei giuristi o delle concrete scelte dei magistrati, è indicativa dell’atteggiamento che lo Stato ha nei confronti delle forze di polizia. Certo, la Costituzione all’articolo 13 punisce «ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà», ma per lungo tempo sono rimaste ben lontane dalle affermazioni di principio la realtà e la cultura che l’ispira. Così, intervenendo nel dibattito che si era aperto a seguito delle affermazioni fatte dal pubblico ministero in un clamoroso processo del dopoguerra, a carico di tale Lionello Egidi accusato di avere seviziato una tredicenne, secondo cui era valida la confessione estorta con la violenza, un grande giurista del tempo, Francesco Carnelutti, aveva scritto nelle sue Lezioni sul processo penale che, per ottenere la verità, si potevano usare metodi coercitivi, purché questi garantissero il raggiungimento dello scopo e al contempo non cagionassero notevoli danni al corpo dell’inquisito. L’intervento suscitò forti critiche fra i giuristi. Particolarmente argomentate furono quelle di Piero Calamandrei, che prospettò il diritto al silenzio dell’imputato come diritto di libertà. Ma la situazione non si modificò di molto: nessuno propose di introdurre nel codice penale il reato di tortura e le norme di protezione della polizia rimasero ferme.

Infatti prima della Costituzione la normativa era chiara:

Non si procede senza autorizzazione del ministro della giustizia contro gli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica. […] L’autorizzazione è necessaria per procedere tanto contro chi ha compiuto il fatto quanto contro chi ha dato l’ordine di commetterlo.

Così recitava l’articolo 16 del codice di procedura penale del 1930, erede di una norma emanata nel 1917 per militari e agenti di pubblica sicurezza in considerazione dello stato di guerra in cui versava allora il paese. La prima guerra mondiale era finita da un pezzo, ma per il fascismo era evidentemente importante tenere coperte la polizia e le sue milizie. La disposizione è poi rimasta in vigore a lungo, anche dopo la nascita della Repubblica. Il senso e gli obiettivi di una norma del genere, anche nella parte in cui faceva riferimento agli altri mezzi di coazione fisica, erano chiarissimi (come era chiaro a tutti il contrasto con il principio di uguaglianza).

Nei fatti, nei primi anni della storia della Repubblica, anche per effetto delle frequenti negazioni dell’autorizzazione, la polizia, che tra l’altro poteva interrogare gli arrestati senza la presenza dl difensore, ha avuto mano libera. Così una lunga serie di violenze sono rimaste impunite. Nel 1950, avanti alla Corte d’assise di Lucca, nella sua arringa in difesa dei minatori del Monte Amiata (Abbadia San Salvatore) imputati per i moti del luglio 1948 successivi all’attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti, Lelio Basso disse:

Non ci può essere persona che abbia avuto occasione di occuparsi anche superficialmente di questi problemi che non sappia che la bastonatura di polizia è la regola e che è eccezione il caso dell’arrestato non confesso che riesce cavarsela senza botte, specialmente quando si tratti di processo politico. […] Come per gli antichi inquisitori la tortura, così per l’odierna polizia le violenze fisiche e morali sull’arrestato sono un mezzo per giungere a raccogliere le prove della verità che la polizia già crede di possedere.

Il contrasto con la Costituzione era evidente al punto che alla Corte costituzionale fu sufficiente una brevissima motivazione per dichiarare la norma costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 94 del 18 giugno 1963, che appunto sottolineava il contrasto con gli articoli 28 e 3 della legge fondamentale.

2. Evidentemente la situazione che si era determinata a seguito di questa sentenza non piaceva alla maggioranza di governo (né ai livelli alti delle varie polizie). Lasciare ufficiali e agenti di polizia esposti senza alcuna tutela alle iniziative di una magistratura che nel personale più giovane non aveva avuto a che fare con il fascismo e appariva ormai avviata all’indipendenza non era accettabile. Proprio alla fine degli anni sessanta Magistratura democratica, un gruppo di magistrati di diverse formazioni culturali e opinioni politiche, ma uniti dalla convinzione della necessità di attuare in ogni sua parte la Costituzione, aveva affermato la legittimità del conflitto sociale schierandosi contro la repressione del dissenso e per il rispetto delle garanzie. Nel paese stava poi maturando quella che sarebbe stata l’ultima grande mobilitazione politica e sociale della storia del Novecento italiano, che avrebbe avuto il culmine del movimento del ’77 («l’eruzione del vulcano sociale», avrebbe scritto Giorgio Bocca) . Dunque era necessario provvedere.

Tornare alla normativa del 1930 non era possibile, ma un filtro in qualche modo controllabile dal potere politico era indispensabile. Così, nell’ambito di una delle primissime leggi “dell’emergenza” (legge 22 maggio 1975, n.152, nota come «legge Reale», dal nome del ministro della Giustizia del tempo), che ampliava i casi in cui doveva ritenersi legittimo l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, venne inserito un articolo che stabiliva il dovere del Procuratore della Repubblica che avesse avuto notizia di reati commessi da ufficiali o agenti di polizia in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica di informarne nello stesso giorno il Procuratore generale presso la Corte d’appello. Quest’ultimo, evidentemente ritenuto più affidabile (a quel tempo era rilevante l’influenza del potere politico di governo nella scelta di queste figure di dirigenti), era dunque investito del compito di valutare la situazione e di trattare personalmente il procedimento, rimanendo peraltro ferma la sua facoltà di spogliarsi del fascicolo restituendo gli atti al Procuratore della Repubblica competente.

Questa volta la Corte costituzionale non se la sentì di cancellare una norma palesemente eccezionale (sentenza 14 aprile 1976, n.87), e fece esplicito riferimento alla situazione dell’ordine pubblico per giustificare la differenza di trattamento per i poliziotti.

La ratio delle disposizioni denunciate risulta con chiarezza dalla relazione delle Commissioni riunite della Camera dei deputati, nella seduta dell’8 aprile 1975: esse sono determinate dall’esigenza di impedire che gli appartenenti alle forze dell’ordine siano esposti al rischio di processi penali conseguenti ad accuse infondate per reati concernenti l’uso, nell’esercizio delle loro funzioni, delle armi o di altro mezzo di coazione fisica. Nella presente situazione dell’ordine pubblico, valutata dal legislatore di particolare gravità, trova piena giustificazione il trattamento differenziato introdotto per le forze dell’ordine, alle quali é affidato il gravoso e rischioso compito di prevenire e reprimere la perpetrazione dei reati, e di garantire, con la sicurezza pubblica una ordinata convivenza civile.

Una motivazione (all’apparenza) sorprendente, perché senza alcuna spiegazione implicitamente escludeva che un Procuratore della Repubblica fosse in grado, diversamente dal Procuratore generale, di valutare l’infondatezza di un’accusa. L’essenza della ratio rimaneva sottintesa.

3. Fra gli effetti del clima che giustificava l’esistenza di una norma del genere, merita di essere ricordata la vicenda dei Nocs, esemplare per la sua gravità e anche per i diversi atteggiamenti che caratterizzavano al tempo le superiori istanze della magistratura.

Il 28 gennaio del 1982 i poliziotti di questo reparto speciale liberarono a Padova il generale americano James Lee Dozier, rapito a Verona dalle Brigate rosse nel dicembre del 1981. A seguito delle denunce di alcuni brigatisti arrestati, rimasti per tre giorni nella caserma del secondo reparto «Celere» di Padova senza alcun intervento del magistrato veronese competente e sottoposti a ogni genere di violenze (comprese le finte fucilazioni in aperta campagna), la Procura della Repubblica di Padova aprì un processo, affidato al sostituto Vittorio Borraccetti, a carico di alcuni agenti e del commissario che li comandava, dottor Salvatore Genova, per sequestro di persona, lesioni, violenza privata e altri reati. Ebbene, quando si sparse la voce che stavano per esser emessi ordini di cattura nei confronti degli indagati, il sostituto che conduceva le indagini fu contattato telefonicamente dal procuratore generale di Venezia, che fu esplicito: se il magistrato padovano avesse fatto una mossa del genere, il processo gli sarebbe immediatamente tolto con provvedimento di avocazione, e il giorno successivo gli ordini di cattura sarebbero stati revocati. Il sostituto, opportunamente, non emise i provvedimenti tanto temuti, concluse le indagini per quanto di sua competenza e “formalizzò” il processo trasmettendo gli atti al giudice istruttore Mario Fabiani. Questi, data la gravità dei fatti e i tentativi in atto di inquinare le prove, emise i mandati i cattura, che rimasero sostanzialmente senza esito, in quanto gli indagati, preavvertiti da qualcuno, provvidero a farsi ricoverare in ospedali militari prima di essere raggiunti dai provvedimenti restrittivi. Il processo ‒ che alcuni magistrati, come il componente del Csm Carmelo Conti, alcune forze politiche e importanti media accompagnarono con aspre critiche ai giudici e intense dichiarazioni di solidarietà con gli imputati ‒ non vide presente al dibattimento il commissario Salvatore Genova perché subito eletto in Parlamento nelle liste del Partito socialdemocratico.

L’iter processuale ebbe, poi, un esito deludente. Il Tribunale di Padova ritenne gli imputati colpevoli dei fatti commessi ai danni di tre brigatisti condannandoli a pene comprese fra un anno e un anno e due mesi di reclusione. Ma la Corte d’appello di Venezia, pur riconoscendo la verità dei fatti (che cioè le torture c’erano state), con motivazioni tanto acrobatiche quanto infondate, assolse gli imputati, tranne uno, dai reati contestati, riducendo al minimo per l’ultimo la condanna per sequestro di persona. A completare l’opera provvide la Corte di cassazione: con sentenza del 14 gennaio 1987 ridusse il reato in relazione al quale era sopravvissuta condanna a un banale episodio di tentata violenza privata coperto da amnistia. Di fatto, il processo venne svuotato, come a quel tempo analiticamente spiegò Luigi Saraceni[1]. Solo dopo molti anni, il commissario Genova in un’intervista riconobbe che le accuse formulare nei confronti suoi e dei componenti del reparto erano fondate, precisando che in quella occasione era sopraggiunto da Roma, per dirigere quel tipo di operazioni, un funzionario soprannominato in polizia «dott. De Tormentis»[2]. Tutto questo non ha suscitato commenti di sorta a livello istituzionale.

Altro episodio significativo, anche se non legato alla norma processuale citata, è quello del processo per l’uccisione a Trieste di Pietro Maria Greco, un giovane insegnante di matematica raggiunto da mandato di cattura della magistratura veneziana nel 1982. Un processo la cui gestione venne accompagnata da molte critiche e che si concluse con una sentenza discutibile (e discussa), visto che il ricercato, disarmato, era stato colpito dai poliziotti mentre stava tentando di fuggire. Il 24 ottobre 1986 la Corte d’assise di Trieste, al termine del processo nei confronti di un ispettore della polizia di Stato, di un agente del Sisde e di due agenti della Digos della città, assolse due degli imputati e condannò gli altri due a 8 mesi di reclusione con la condizionale.

Per cogliere il clima che era dietro quelle vicende vale la pena di citare una frase di una lunga lettera che il poeta Franco Fortini scrisse all’ex ministro della Giustizia Mino Martinazzoli su «L’Espresso» del 16 novembre 1986:

L’assoluzione ‒ tale è la sentenza di Trieste ‒ di chi ha ucciso Greco non è sorprendente; né l’indifferenza dei partiti politici, da quelli che difendono “la vita” a quelli non contrari al terrorismo in uniforme (tornava in Francia, emigrato politico; agenti in borghese vanno a prelevarlo; fugge, sparano, lo ammazzano. “Sembrava avere un’arma” dicono. Era disarmato. Due condanne a 8 mesi, condizionale e non iscrizione). Quando leggo di sentenze come quelle non penso ai criteri dei giudici […]. I responsabili dei quali mi interesso ‒ e dunque non delle uccisioni né della sentenza ma del loro significato ‒ non sono coloro che hanno sparato né coloro che “ne hanno benedette le mani con un sorriso”, come tanti anni fa ebbi a scrivere per l’uccisione di Serantini; sono i politici e i loro portavoce ossia i giornalisti e gli operatori della comunicazione che quei significati conferiscono o lasciano conferire.

4. Così la norma di protezione è rimasta in vigore fino al nuovo codice di procedura penale (1989), che non contempla una simile garanzia. Da allora contraddizioni anche significative si sono aperte. In particolare la magistratura, nelle sue parti più sensibili ai valori costituzionali, a cominciare dall’obbligatorietà dell’azione penale, e grazie all’indipendenza del pubblico ministero, si è andata riappropriando, sia pure con alcune oscillazioni (che come si vedrà sono arrivate fino a oggi) del suo ruolo di tutela della legalità. In particolare, si è andato progressivamente determinando un nuovo rapporto fra giurisdizione e potere politico, per effetto del quale il ruolo del giudice si è andato svincolando dalle logiche delle forze di governo. Anche convinzioni e sentimenti dell’opinione pubblica si sono parzialmente modificati. E però maltrattamenti e torture, nell’ambito delle attività istituzionali degli apparati di polizia nei confronti di indagati o condannati, nonostante le corali promesse di fare il possibile per eliminarli, sono ancora oggi fatti che possono capitare. Le forze dell’ordine, pur con significativa divisioni interne evidenziate da vicende recenti, chiedono ancora che venga mantenuta nei fatti, nei loro confronti, quella speciale tutela che la legge non prevede più; e a volte la politica si schiera ancora con la polizia. Dunque non sembra che il trascorrere di un quarto di secolo sia bastato per modificare fino in fondo la cultura che ispirava quelle scelte legislative. Con la quale ancora oggi bisogna fare i conti.

È in questo contesto che nel corso del nuovo secolo sono avvenuti episodi indicativi di questo stato di cose. Come i fatti di Napoli, 17 marzo 2001. Due funzionari e sei tra ispettori e sovrintendenti della polizia in servizio quel giorno alla caserma Raniero vennero accusati di gravi reati: concorso in sequestro di persona, abuso d’ufficio, violenza privata e lesioni personali compiuti ai danni di 87 giovani che o erano rimasti feriti nel corso di una manifestazione contro un Global forum repressa duramente dalle forze dell’ordine o che, più semplicemente, avevano accompagnato al pronto soccorso qualcuno fra i feriti. Tutti, in ospedale, furono identificati e poi condotti con la forza alla caserma Raniero, sede del reparto “volanti” della polizia di Stato. Nella “stanza del benessere” della caserma furono offesi e umiliati in vario modo, colpiti e seviziati. Su richiesta del pubblico ministero, il Gip Isabella Joselli emise le ordinanze di arresto domiciliare a carico degli indagati. Subito avvenne un fatto gravissimo. I poliziotti della Questura di Napoli formarono un cordone umano intorno all’edificio, quasi a sottolineare che nessuno avrebbe potuto raggiungere gli indagati, ancora all’interno, e che la distinzione spesso proposta fra “alcune mele marce” e il resto della polizia per loro non aveva senso. Già il fatto che nessun provvedimento disciplinare sia stato adottato nei loro confronti è indicativo di ciò che si pensava a livello governativo. Inoltre solidarietà alla polizia è subito arrivata, sin dalle ore immediatamente successive alla diffusione della notizia dei provvedimenti. Se il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri (An) aveva parlato di «una decisione grave e sorprendente per i tempi con cui è stata presa e per le conseguenze che evidentemente intende scatenare», il ministro dell’Interno Claudio Scajola e il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini non furono da meno: «Nel doveroso rispetto per il lavoro della magistratura, attendo di conoscere le ragioni poste a fondamento di un provvedimento così grave», aveva detto il primo, mentre per il vicepremier: «se i provvedimenti decisi dalla magistratura partenopea non avessero il necessario riscontro saremmo in presenza di un atto gravissimo, per le conseguenze che determinerebbe sul morale delle forze dell’ordine e per i contraccolpi su una opinione pubblica che chiede sicurezza e rispetto della legalità e che sa come tutto ciò sia garantito dal quotidiano sacrificio delle forze dell’ordine». Al contempo, molto prudenti furono i commenti di vari esponenti del centrosinistra, eccezion fatta per Sergio Cofferati e Fausto Bertinotti che difesero l’operato della Procura. Quanto al processo, la sentenza di primo grado del 22 gennaio 2010 riconobbe la sussistenza dei reati di sequestro di persona e lesioni, e per questo condannò dieci poliziotti, tra i quali due funzionari, ma la prescrizione, fatta eccezione per due degli imputati, ha chiuso la vicenda.

Di lì a poco sarebbero avvenuti i fatti di Genova del 19-22 luglio 2001, raccontati in articoli innumerevoli sui media di tutto il mondo, in più relazioni del comitato parlamentare d’indagine formato da 36 membri delle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato (si veda in particolare la relazione di minoranza redatta dalla deputata di Rifondazione comunista Graziella Mascia, pubblicata e diffusa con il titolo Genova per noi) e in alcuni film (fra questi, Diaz, di Daniele Vicari, 2012). Contestualmente allo svolgimento della riunione del G8, i movimenti no-global e le associazioni pacifiste avevano programmato varie manifestazioni di dissenso. Il 19 luglio si svolse un imponente corteo in favore dei migranti, senza incidenti («siamo tutti clandestini», era la scritta portata dal primo striscione). Nei due giorni successivi avvennero invece gravi tumulti di piazza, con scontri tra forze dell’ordine e manifestanti (durante uno di questi trovò la morte il giovane Carlo Giuliani, ucciso da un carabiniere). È stato osservato da Livio Pepino[3] che, nell’occasione, ci fu un vero salto di qualità nella gestione dell’ordine pubblico, con forzature e violenze del tutto improprie, con inni al fascismo in occasione dell’irruzione/perquisizione alla scuola Diaz e dei maltrattamenti nella caserma Bolzaneto. Le violazioni della legalità da parte di tutti gli apparati di polizia e le modalità che le caratterizzarono, con annessa solidarietà delle autorità di governo che non esitarono ad auspicare che la magistratura desse copertura all’operato di polizia e carabinieri, sono state tali da indurre molti a parlare di una sospensione della democrazia nel nostro paese. Il bilancio dei feriti è stato di 560 medicati o ricoverati negli ospedali genovesi (è rimasto sconosciuto il numero delle persone che si sono fatte medicare altrove). Nei confronti di funzionari pubblici sono stati aperti dalla magistratura genovese numerosissimi procedimenti per reati di vario tipo, in particolare per lesioni, circa 250 dei quali, peraltro, sono stati archiviati a causa dell’impossibilità di identificare personalmente gli agenti responsabili grazie alla copertura loro assicurata dai loro superiori (la magistratura tuttavia, pur non potendo perseguire i colpevoli, spesso ha ritenuto effettivamente avvenuti i fatti-reato). In alcuni casi le sentenze di condanna sono diventate definitive. In particolare la Corte d’appello di Genova, con la sentenza 18 maggio 2010 (confermata in Cassazione nel 2012), relativa alla irruzione/perquisizione alla scuola Diaz, ha affermato tra l’altro che

i tutori dell’ordine si sono trasformati in violenti picchiatori, insensibili a qualunque evidente condizione di inferiorità fisica per sesso o età delle vittime, agli atteggiamenti passivi o remissivi di chi stava fermo con le mani alzate. […] Alla violenza si sono aggiunti l’insulto, il dileggio sessuale, la minaccia di morte.

Altri procedimenti sono stati aperti contro manifestanti per gli incidenti avvenuti durante le manifestazioni, in molti casi con imputazioni gravissime, che ad alcuni sono apparse sproporzionate rispetto agli avvenimenti e al contesto in cui questi sono maturati. In complesso, come è avvenuto a Napoli, l’atteggiamento della magistratura, sia nella fase delle indagini preliminari che dei successivi dibattimenti, si è caratterizzato per indipendenza e rigore. Tra l’altro, negli anni successivi, lo Stato italiano ha subito varie condanne in sede civile per gli abusi commessi a Genova dalle forze dell’ordine.

5. Forse per effetto della grande risonanza che hanno avuto i fatti di Genova (per alcune parti trasmessi in diretta dalle televisioni e poi in ampie repliche nei mesi successivi), dello sdegno che hanno suscitato nell’intera cultura italiana (non solo giuridica), dello spettacolo angoscioso del sangue di tanti giovani che, come immortalato da moltissime riprese e fotografie, aveva imbrattato muri e pavimenti di aule, corridoi e scale della scuola Diaz, dell’ampia pubblicità che hanno avuto i processi e le condanne, in questo decennio vi è stato un mutamento non trascurabile negli orientamenti dell’opinione pubblica quanto a richiesta di rispetto dei diritti fondamentali della persona che venga a contato con le autorità di polizia. Lo si è potuto constatare in due recenti vicende che hanno trovato largo spazio nelle cronache dei media e nei dibattiti televisivi, che appaiono significative perché hanno segnalato, al contempo, il persistere dell’istanza di impunità in ampi settori delle varie polizie e contraddizioni gravi e limiti non trascurabili nell’intervento della magistratura. Due vicende processuali, quella relativa alla morte del diciottenne Francesco Aldrovandi e quella per la morte di Stefano Cucchi, che hanno avuto, a oggi, esisti contrastanti, e che rappresentano in qualche misura la fotografia di quella che è la situazione.

Il 25 settembre 2005, nei pressi dell’ippodromo di Ferrara, dove oggi una targa ricorda l’avvenimento, quattro poliziotti fermarono un giovane, lo studente Federico Aldrovandi, che stava tornando a casa dopo una notte in discoteca. Ne nacque uno scontro, che diventò molto violento. Di primo mattino la pattuglia richiese alla propria centrale operativa l’invio di un’ambulanza del 118, per un sopraggiunto malore del fermato. «Ferrara Soccorso» inviò un’ambulanza e un’automedica, giunte sul posto rispettivamente alle 6.15 e alle 6.18. All’arrivo il personale del 118 trovò il paziente «riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena […] era incosciente e non rispondeva». L’intervento si concluse, dopo alcuni tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte del giovane, per «arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale». L’intervento della magistratura, ostacolato in vari modi, ha prodotto una prima sentenza del Tribunale di Ferrara il 6 luglio 2009: quattro poliziotti sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. Il 21 giugno 2012 la Corte di cassazione ha confermato la condanna. Un secondo processo, definito da alcuni Aldrovandi bis, ha riguardato fatti di depistaggio nelle indagini: il 5 marzo 2010 tre funzionari di polizia sono stati condannati dal Tribunale di Ferrara.

Rispetto a tutto ciò l’atteggiamento della polizia è stato fortemente polemico, anche con pubbliche manifestazioni sotto gli uffici del Comune di Ferrara dove lavora la madre del giovane ucciso, che aveva più volte sollecitato lo svolgimento delle indagini. La pretesa di impunità, sostanzialmente giustificata con la necessità di difendere l’ordine pubblico, è stata esplicita. Solo la decisione del capo della polizia Antonio Manganelli, dopo l’esito dei processi, di presentare le scuse alla madre di Federico Aldrovandi (fatto ampiamente ripreso dalla stampa nazionale), ha potuto far passare in secondo piano, ma non dimenticare, le pubbliche plateali manifestazioni di solidarietà agli imputati dei poliziotti di Ferrara e i loro applausi polemici ai condannati al momento delle sentenze.

La morte di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 dai carabinieri nel parco degli Acquedotti di Roma perché trovato in possesso di droga, ha dato vita a una vicenda giudiziaria caratterizzata da pronunce altalenanti ed esiti clamorosi. Il giorno successivo all’arresto, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori e l’udienza di convalida, Cucchi venne portato dai carabinieri nel carcere romano di Regina Cœli. Morì nel “reparto protetto” dell’ospedale Sandro Pertini di Roma il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare.

Il processo, molto lungo e complesso, con oltre 40 udienze, iniziato nel gennaio 2011, ha visto coinvolte dodici persone, imputate, a seconda dei casi, dei reati di abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Si trattava di tre agenti della polizia penitenziaria e alcuni medici e infermieri dell’ospedale. In primo grado gli agenti penitenziari e gli infermieri sono stati assolti (il pubblico ministero aveva chiesto una pena di tre anni di reclusione per i primi, accusati di lesioni personali aggravate), mentre i medici dell’ospedale «Pertini», in cui era ricoverato il ragazzo al momento della morte, sono stati condannati. Nessuno è stato però considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi: le condanne ai medici si sono infatti riferite al mancato soccorso, una volta che il giovane era stato portato in ospedale. Già questa circostanza aveva sollevato polemiche e critiche, non solo dei familiari di Cucchi. Ma clamorosa è stata la sentenza d’appello pronunciata il 31 ottobre 2014, che ha assolto tutti gli imputati: una decisione meritevole di attenzione, da un lato per le immediate reazioni di alcuni settori della polizia di Stato, dall’altro per il contenuto delle motivazioni, depositate il 12 gennaio 2015. Sotto il primo aspetto è emerso un contrasto fra i sindacati di polizia, probabilmente espressione di una diversità di orientamenti interni al corpo. Sprezzante commento del segretario generale del sindacato di polizia Sap, Gianni Tonelli, indicativo al contempo del permanere di un antico atteggiamento di condanna nei confronti della marginalità e della richiesta di impunità:

In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. […] Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie. […] Per questo esprimo piena soddisfazione per la sentenza: tutti assolti, come è giusto che sia.

Un commento che ha suscitato varie reazioni, anche nel mondo politico, e che è stato stigmatizzato dal segretario del Silp-Cgil Daniele Tissone, per il quale:

le sentenze possono anche indurre a commenti, ma quanto affermato dal sindacato di polizia Sap supera di gran lunga ogni obiettiva valutazione tesa a ricostruire una non facile verità processuale, acuendo il solco tra la società e chi, tra le forze dell’ordine con sacrificio e impegno, assolve i propri compiti istituzionali. […]. Come sindacato di polizia, abbiamo sempre cercato, durante tutte le vicende processuali da Aldrovandi a Cucchi, di affermare il principio che la magistratura inquirente ha il compito di esercitare a pieno il proprio mandato, senza che derive corporativistiche, da qualsiasi parte provengano, intaccassero mai tali giudizi. […] La presa di posizione del Sap è fuori luogo e non aiuta il percorso democratico che deve vedere cittadini e forze dell’ordine unite nel comune obiettivo di garantire sicurezza, legalità, giustizia e trasparenza, alla luce dei difficili compiti che vengono oggi affidati ai tutori dell’ordine.

È ipotizzabile che da una simile dialettica possa derivare una ripresa del processo, da tempo interrotto, di democratizzazione delle forze di polizia?

Di grande interesse, d’altro lato, sono apparse le motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello, depositate il 12 gennaio 2015. Ampiamente argomentate, hanno infatti rappresentato una conferma di quanto molti hanno subito pensato: vi si legge infatti tra l’altro che «le lesioni subite sono necessariamente collegate a un’azione di percosse e comunque a un’azione volontaria». Dunque, come ha affermato il presidente della Corte d’appello di Roma Luciano Panzani, dubbi sui fatti non possono esserci: «La sentenza è chiara nel dire che Stefano Cucchi quelle fratture non se le è procurate da solo o accidentalmente. Il che vuol dire che qualcuno lo ha picchiato o forse spinto, ma quel qualcuno non sedeva davanti ai miei giudici»[4]. Orbene, se si considera che in un passaggio la sentenza afferma che «non può considerarsi astratta l’ipotesi secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia», appare chiaro il riferimento a un carenza della magistratura nell’iniziale fase delle indagini dei pubblici ministeri, che hanno trascurato di verificare il comportamento di coloro che, per primi e per molte ore, hanno avuto nella loro disponibilità Stefano Cucchi. E, infatti, la Corte ha disposto la trasmissione degli atti per nuove indagini alla Procura della Repubblica di Roma. Da dove può essere derivata questo tipo di difficoltà, che ha costretto a ricominciare tutto daccapo? La verità è che lo sviluppo del processo evidenzia ancora una volta come sia difficile accertare la verità quando negli apparati dello Stato prevale la logica di una comune gestione dell’illegalità che eventualmente li attraversi; quando cioè manchi la volontà, per un malinteso senso di solidarietà o per il timore di una delegittimare un’intera istituzione, di individuare le responsabilità di torture e violenze. Il risultato è che la delegittimazione comunque avviene, e in questi casi finisce per investire davvero un’intera istituzione o addirittura più istituzioni.

6. I processi di democratizzazione negli organismi deputati alla tutela dell’ordine pubblico procedono con difficoltà ‒ come si è visto ‒ quasi che sia radicata, un po’ dovunque, l’idea dell’esistenza nel sistema penale di un doppio binario: quello del processo contrassegnato, in linea di principio, da pubblicità e garantismo, e quello dell’intervento delle autorità di pubblica sicurezza, in via di fatto contrassegnato da riservatezza e copertura di eventuali illegalità considerate a volta necessarie o inevitabili, comunque sempre spiegabili.

Una spinta al superamento di questa contraddizione può essere data proprio dall’introduzione nell’ordinamento del reato di tortura, da configurare come reato proprio, che cioè può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, ai danni di un persona privata della libertà personale. Il suo significato, anche simbolico, è evidente; e ragionevolmente potrebbe favorire nuovi orientamenti di democratizzazione. La Corte di cassazione, in una sentenza del 17 luglio 2014 ha avuto modo di affermare che

l’inadempienza dell’Italia nell’adeguarsi agli obblighi della Convenzione Onu crea una situazione paradossale in cui un reato come la tortura che a determinate condizioni può configurare anche un crimine contro l’umanità, per l’ordinamento italiano non è un reato specifico.

Una proposta di legge è stata approvata, il 5 febbraio 2015, dalla Commissione giustizia della Camera; il testo dovrà ricevere i pareri di altre commissioni prima di essere formalmente licenziato per l’aula. Il fatto è che se alcune componenti della maggioranza appaiono ancora prudenti, gli orientamenti di Forza Italia non sono allo stato incoraggianti, visto che il suo leader Silvio Berlusconi, che quando era all’opposizione tuonava contro il governo Prodi per l’«inqualificabile inadempimento», come presidente del Consiglio si è ben guardato dal proporre al Parlamento l’approvazione di una nuova figura di reato in attuazione della convenzione delle Nazioni Unite. Fra i vari magistrati che hanno parlato in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario ha fatto cenno alla necessità dell’introduzione del reato il presidente della Corte di cassazione, definendo intollerabile il ritardo del Parlamento e ricordando le indicazioni della Corte di Strasburgo e le numerose fonti internazionali che alla necessità della repressione della tortura fanno riferimento, anche per escludere che il reato possa essere coperto da amnistia. Questa autorevole indicazione, che coincide con gli auspici del presidente della Camere penali, dell’intera cultura giuridica e di tante associazioni, potrà aiutare le forze politiche presenti in Parlamento a superare perplessità e timori ormai anacronistici?

[1] Come si svuota un processo, in «Questione giustizia», n. 2/1988, p. 331 ss.

[2] Nicola Rao, Colpo al cuore, Torino, Sperling § Kupfer, 2011.

[3] Forti con i deboli, Milano, Rizzoli, 2012, p. 241.

[4] «la Repubblica», 13 gennaio 2015.