di Rino Genovese

L’articolo precedente, a firma di Juan Carlos Monedero, può essere portato a esempio di una notevole confusione d’idee a sinistra. Non c’è alcuna prova del fatto che l’attuale opposizione venezuelana – un variopinto cartello di forze, in cui certo sono comprese anche frange estremiste – sia di tipo golpista; e del resto l’esercito, l’organismo che di solito organizza i colpi di Stato, nella sua stragrande maggioranza è schierato con il potere chavista. Lo si è visto di recente, con un tentativo di rivolta militare immediatamente rientrato, e lo si vide nel 2002 quando un golpe attuato da un gruppo minoritario di ufficiali fallì anche a seguito della pressione popolare. Chávez, piuttosto, era un militare che, lasciandosi un passato golpista alle spalle (era stato in carcere per questo), nel 1998 si presentò alle elezioni vincendole con un programma di cambiamento della costituzione, che realizzò, per rivincerle ancora successivamente.

Nessun paragone storico è possibile tra l’esperienza di Allende in Cile e quanto sta oggi accadendo in Venezuela. Allende era un dirigente socialista, presidente in carica democraticamente eletto, sia pure sulla base di un risicato risultato elettorale, che con la sua coalizione di Unidad popular si trovò a fronteggiare un’opposizione golpista e filogolpista vera e propria (si ricordi la lunga agitazione degli autotrasportatori, che fece mancare i generi di prima necessità), a cui seppe opporre soltanto un tentativo non riuscito di divisione del fronte militare. Nel momento in cui attuò il golpe, Pinochet era addirittura un ministro del governo Allende. Non c’era alcun piano di resistenza, o di passaggio alla lotta armata: eppure nel 1973 il colpo di Stato era atteso in Cile. Allende ne parla apertamente nei suoi discorsi, e dichiara pure che lui non lascerà mai da vivo la Moneda, il palazzo presidenziale. Il suo eroico suicidio in un certo senso era nel conto, mentre il seguito restava avvolto nella nebbia. Allende era del tutto consapevole, nel tempo del mondo diviso in blocchi, della gravissima minaccia costituita dagli Stati Uniti e dagli oppositori interni. La sua utopia di una transizione pacifica al socialismo doveva però restare in quel quadro, se non altro, come una tragica testimonianza.

Chávez, al contrario, mediante un’assemblea costituente in cui poteva contare su un’ampia maggioranza, si costruì da subito una costituzione “bolivariana” su misura. In essa è sì previsto il “referendum revocativo”, attraverso cui sarebbe possibile destituire il presidente in carica (Chávez a un certo punto accettò la sfida e la vinse, mentre un anno fa Maduro ha fatto di tutto per evitare questo referendum), ma è anche possibile che il presidente possa convocare in ogni momento una nuova assemblea costituente: espediente a cui  Maduro è infatti ricorso per aggirare la realtà delle cose, che è quella di un’assemblea legislativa ordinaria in cui lui non ha più la maggioranza. Siamo dunque quasi all’autogolpe: si attiva una parte della costituzione vigente (d’altronde marcatamente bonapartista: ve l’immaginate voi una costituzione in cui al presidente sia data la facoltà di ricorrere quando gli pare all’escamotage costituente?) per sfuggire alla resa dei conti che sarebbe quella delle dimissioni e della convocazione di una nuova elezione presidenziale.

Maduro sta cercando di sottrarsi alla perdita di consenso del progetto chavista, basato su un’élite militare-civile che si avvantaggiava del petrolio nazionalizzato ma al tempo stesso ne ridistribuiva i proventi con le politiche sociali. Questo “sistema” non è poi così nettamente di rottura con gli Stati Uniti come talvolta si tende a credere: si pensi, per fare un esempio, che a tutt’oggi, oltre alle esportazioni verso quel paese, il Venezuela diluisce con il petrolio “leggero” che gli arriva proprio dagli Stati Uniti quello più “pesante” di cui è produttore. Ma, morto Chávez, lo scarso carisma di Maduro non è stato sufficiente a far digerire alla popolazione la crisi innescata dal crollo verticale del prezzo dei prodotti petroliferi sui mercati internazionali, e allora non c’è stata altra opzione politica se non quella delle maniere forti contro le manifestazioni di piazza, delle uccisioni da parte della polizia e dello scatenamento dei gruppi paramilitari governativi. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il socialismo democratico. È una forma di bonapartismo alla sudamericana – lo stesso teorizzato dal filosofo peronista Laclau (tra parentesi, una fonte d’ispirazione di Podemos) che era arrivato a proporre che la presidenta argentina Kirchner fosse investita dell’incarico a vita.