di Massimo Jasonni
Si parla di approvazione, e tanto in effetti vi è stato alla Camera, della riforma del processo penale. In verità, manca una riforma effettiva, nel senso proprio e caratteristico del termine, e, quel che è peggio, manca una visione globale del processo penale. Più semplicemente questo nostro disgraziato mondo politico è ricorso al solito metro di «un colpo al cerchio e uno alla botte», inseguendo la pancia degli elettori. Da un lato, appaiono aggravate le pene per taluni reati; dall’altro, vi sono sconti di pena per alleggerire la prospettiva del carcere. Ma il tutto in assenza di un disegno legislativo complessivo e con “privilegio” offerto a taluni reati contro il patrimonio – il furto in abitazione e la rapina semplice, per esempio –, rispetto ad altri, senza alcun supporto o motivazione di ordine culturale. Cosicché quando il presidente del Consiglio ha affermato che «ora vi è più equilibrio e più garanzia nelle procedure, e pene severe per i reati più odiosi», non si è capito su quali basi fondasse l’idea dell’odiosità di un reato e quale concetto avesse dell’equilibrio nei rapporti sociali. Perché fossero più ripugnanti quei reati, rispetto ad altri, forse è dipeso dalla crescente attenzione di Paolo Gentiloni per l’elettorato leghista. Anche sotto questo profilo la sedicente riforma si allinea al buio che ha già caratterizzato la modifica dell’istituto della legittima difesa.
Peggio ancora per l’istituto della prescrizione, che cammina sempre più sul solco dell’incertezza normativa e della conseguente aleatorietà dell’interpretazione giurisprudenziale. Leggiamo, per esempio, che «la prescrizione resta sospesa per 18 mesi dopo la condanna di primo grado e per altri 18 mesi dopo la condanna in appello». Tale disciplina, se intendiamo bene, vale per i reati di violenza sessuale, stalking, prostituzione, pornografia e maltrattamenti in famiglia, non per altre figure criminose. Ora anche questa discriminazione, per cui taluni reati assumono veste di eccellenza e altri reati degradano a scorie dell’illecito, non trova giustificazione etica o costituzionale, aprendo le porte al più volgare cercar consenso nei media. Quel che in effetti ne verrà sarà un’incertezza crescente nei rapporti giuridici e uno sconvolgimento di tutto il sistema penale, sostanziale e processuale, con probabile futuro interessamento della Corte costituzionale, cui non sfuggiranno palesi vizi di legittimità.
Altro equivoco della cosiddetta riforma sta nell’attribuire al risarcimento del danno, causato dal delitto, rilievo estintivo della pena, se non addirittura del reato. La riparazione del danno o la restituzione del maltolto nella tradizione giuridica occidentale è sempre valsa come attenuante, ma non come esimente dell’illecito lesivo di interessi pubblici: ha potuto determinare benevolenza del giudice nella considerazione della gravità del fatto, ma non cecità giurisdizionale.
Un maleodore di segno populistico si avverte anche nella nuova disciplina delle intercettazioni e degli avvisi che il Pubblico ministero deve notificare, entro stretti termini prestabiliti, alle parti offese. Si potrebbe sostenere che ciò incrementi la trasparenza nelle istruttorie, ma non è vero. Ne verrà maggiore confusione nello svolgimento delle indagini, con offesa arrecata alle funzioni dei magistrati più solerti e nessun guadagno per la buona reputazione degli innocenti. Guarda caso anche su questo tema della “trasparenza” tornano in campo le figure criminose del furto in abitazione o dello scippo. Con buona pace dell’elettorato benpensante e sempre sotto l’ala protettrice, dio mio, del Pd.
Non si tratta di una riforma, ma della demolizione di quel poco che residuava del sistema processuale penale vigente in Italia.