A chiarirlo è Vito Teti nella prefazione al volume: Mezzogiorno padano (manifestolibri, Roma 2015, pp. 127, € 14,00) è «un unico romanzo», inequivocabilmente corale, «sul dolore del nostro tempo presente». Si rivela assai presto un’organica epopea dei già rassegnati e degli ancora combattenti che scaturisce non dal mero accostamento, ma dalla sempre ponderata, credibile intersecazione di «storie apparentemente separate», e «fatte di scarti e di frammenti», tutte in egual misura pronte ad offrici «le vicende eroiche e drammatiche della normalità, di un mondo di sradicati, di persone in fuga per arrivare in nessun luogo». Lancinanti cronache tenute assieme dall’«io narrante del racconto di apertura», che è «quasi certamente un alter ego» dell’autore e si fa quindi carico del progetto, squisitamente intellettuale, di costui. Sandro Abruzzese desidera cioè riflettere su una crescente «meridionalizzazione» dell’Italia da intendersi anche come processo per effetto del quale «la criminalità sembra avere ancora i piedi in certe aree del Sud e la testa, la mente, gli interessi al Nord», ma soprattutto da ritenersi la cartina al tornasole del «fallimento collettivo, storico», di un’intera idea di nazione, se quanti oggi popolano il Bel Paese affollano, in verità, un’indifferenziata «distesa di non luoghi, di vuoti o di pieni» che saldano il Meridione al Settentrione cancellando ogni residua distanza tra le due metà della penisola appunto per creare, mercé l’ibridazione degli originari «tratti negativi» di tali zone, un indistinto, soffocante Mezzogiorno padano. In cui – è allora immediatamente necessario aggiungere – le sole tracce di decoro, sia civile sia culturale, vanno reperite nelle «minute forme di resistenza che vedono come protagonisti piccoli eroi dolenti e dignitosi ancora capaci di pietas, di amore e di bisogno di abitare», non nei disegni di «gruppi dirigenti sempre uguali a se stessi» e che appare dunque inevitabile considerare i principali responsabili del degrado nazionale.
Così, nel nome anzitutto di Rocco Scotellaro, ma – a voler indicare almeno una seconda ideale guida, fra i tanti scrittori che ne hanno ispirato il lavoro – cercando altresì di attualizzare il magistero di Carlo Levi, Abruzzese rielabora letterariamente storie di cui è risultato in una qualche misura testimone o che gli sono state raccontate o delle quali è venuto a sapere dai mass-media, traducendole, ancor più che in micro-romanzi, in deposizioni – eccetto un paio, tutte ovviamente in prima persona, finanche quando a esprimersi è un maiale – che ambiscono, con il loro succedersi, a ricostruire il “caso Italia”. Paese – ammette uno dei narratori cui l’autore cede quindi la parola – che «non è degli onesti cittadini come dichiarano i politici e i mezzi d’informazione o come recita la Costituzione, ma di chi lo possiede, di chi possiede il denaro che scorre nei caveau delle banche, di chi possiede le terre, i palazzi, le fabbriche». Insomma, per dirla appunto con Levi, di quei “Luigini” sempre implacabili nel confiscare persino l’illusione di un futuro migliore ai “Contadini”, la democrazia essendo ormai tornata peraltro a rivelarsi – posto che in passato sia effettivamente stata qualcosa di diverso, entro i nostri confini nazionali – «una questione di ricchi e poveri».
Si capisce allora perché Mezzogiorno padano finisca magari col sembrare – pure all’autore, che, non per nulla, organizza la materia a sua disposizione in modo da rendere legittimo un simile accostamento – una specie di Spoon River, pazientemente cucito da un umile aedo giocoforza sradicato, al pari dei tanti personaggi che si muovono smarriti nel mondo ordinario del quale egli liricamente ci offre un partecipe spaccato mai retorico, e dunque persuasosi – con l’amato Adorno dei Minima moralia – che, «per chi non ha più patria, anche e proprio lo scrivere può diventare una sorta di abitazione», ovverossia infondere, nell’individuo che accetti di raccontare le storie di cui è venuto a conoscenza, l’illusione «di moltiplicare la vita, o quantomeno di fissarla», per sé e per gli interlocutori che tali narrazioni vogliano accogliere. Tuttavia, se ci si limita a valutare il tipo di lavoro svolto sulle fonti, perlopiù non scritte, da Abruzzese e quindi il tentativo, cui egli si mantiene fedele, sia di restituire piena dignità letteraria alla figura, cara a Walter Benjamin, del narratore orale, sia di costruire, in tal modo, una catena di parabole sull’oggi, ci si accorge che Mezzogiorno padano richiama quasi irresistibilmente alla memoria un altro testo, licenziato da Gianni Celati un trentennio fa: Narratori delle pianure. E anzi, scegliere di misurarsi con il volume da poco edito tornando magari a compulsare quello che, fra i titoli della recente tradizione letteraria nazionale, più somiglia a un suo verosimile antecedente logico, se non necessariamente a un suo modello esplicito, può rivelarsi un’ottima opportunità per domandarsi cosa l’Italia era ed è, avrebbe voluto o potuto essere ed è invece diventata.
Un Paese in cui «è troppa la somma dell’ingiustizia e del dolore»; che «sembra aver smarrito anche solo l’ombra di cosa sia l’onore»; che neppure si vergogna più di esibire costantemente, e a tratti persino con ingovernabile euforia, «lo sfacelo di una società malata di incuria». Una democrazia ridottasi a «tempio delle parole», che servono soltanto «a conquistare, ad apparire», a ghermire «il potere», essendosi la gente «assuefatta all’uso falso, mistificatorio» di esse, «in pubblico come nel privato». Una provincia d’Occidente che disprezza a tal punto il sapere, e crede così poco nell’obbligo di formare intellettualmente le nuove generazioni, da aver ridotto la scuola pubblica, «autonoma» per statuto e ormai «triste» per vocazione, a una specie di società semi-privatizzata, richiesta di inventarsi ininterrottamente «carovane di stronzate per dilapidare risorse con l’ossessione della concorrenza», affidandosi – si tratti di presidi o, in quota minore, persino di docenti – a «giovani manager imbevuti di giurisprudenza» – ma del tutto «in malafede» o che, più semplicemente, «non sanno di cosa parlano» – con l’obiettivo «di misurare le prestazioni, i risultati dell’apprendimento». Una terra «in cui non è più possibile sognare il futuro», ma neppure viene «voglia di rimpiangere il passato», e che allora costringe chi non voglia affogare nel disfattismo, o – peggio ancora – nel cinismo, a tramutarsi in un «apprendista funambol[o]» convinto che «esista una parte giusta della vita», che «decifrarla» sia oltre ogni dire faticoso e che essa vada per l’appunto associata «a qualcuno che, a scapito del tempo, battuto dalle intemperie, resiste in bilico sopra una fune». Eccola, l’Italia, quale ci viene incontro dalle pagine di Abruzzese. Ricorda tremendamente quella che tutti possiamo ogni giorno esperire: inutile negarlo.