Achille Occhettodi Rino Genovese

Senza risalire fino al Rinascimento, alle famose analisi di Machiavelli e Guicciardini, sarebbe sufficiente ritornare a circa trent’anni fa, a quel 1989 in cui alle elezioni europee di giugno – come ho avuto modo di ricordare sfogliando il recente volume che raccoglie gli scritti di Marcello Rossi sul Ponte (Socialismo libertario e dintorni, Firenze, Il Ponte Editore, 2017) – il Pci di Occhetto ottenne ancora il 27,5% dei voti. Questo risultato – che dimostrava la capacità di resilienza del maggior partito della sinistra italiana – si ebbe a pochi giorni dalla repressione di Tienanmen, nel pieno di una crisi che, due anni dopo, porterà alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Alla fine, dentro quel marasma internazionale di cui non riuscirà ad avvantaggiarsi il Psi di Craxi, scoppierà il bubbone Tangentopoli degli anni novanta, facendo saltare gli equilibri italiani della guerra fredda. Il craxismo ne uscirà distrutto, ma in un certo senso ne farà le spese anche Occhetto, tagliato fuori dal qualunquismo montante – di cui beneficiario sarà il “nuovo” berlusconismo aziendal-politico, prosecuzione di un affarismo targato Caf (che era la sigla dell’alleanza di potere tra Craxi, Andreotti e Forlani).

Il paese non si è mai più risollevato da quegli avvenimenti che segnarono la morte sia del comunismo sia del socialismo italiani, e che in parte furono tragici e in parte tragicomici, se si considera che il lungo periodo berlusconiano è stato caratterizzato da un immobilismo agitato, come di chi gesticoli senza concludere granché – a parte difendere i propri interessi privati –, e che tuttavia rese possibile la continuità di un generale sistema di potere, rimasto intatto nelle sue basi sociali sotto i mutamenti di facciata.

Nel frattempo c’è stata – è vero – anche l’esperienza del centrosinistra, esaltata da persone stimabili come Giuliano Pisapia. Ma bisogna dire che la coalizione, rissosa al suo interno, tra i frammenti della vecchia Democrazia cristiana e del vecchio Partito comunista ormai diviso, più i Verdi che mai sono riusciti a decollare in Italia, è stata una forma di resistenza e una risposta sistemica alla deformazione della democrazia indotta dal berlusconismo piuttosto che un vero e proprio programma di riforma del paese: un gioco “di rimessa”, che ha visto come unico risultato (oggi da molti contestato) l’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea. Senza minaccia berlusconiana, non c’è centrosinistra. La stessa costituzione del Pd (approvata a suo tempo da D’Alema che certo avrà avuto modo di dolersene) approfondì questa logica del tutto speculare al berlusconismo (Michele Salvati parlò a suo tempo di una Forza Italia di sinistra): un’aggregazione di forze eterogenee, prive di una loro vera ragione di fondo se non quella della “risposta” elettorale a un competitore pronto a tutto, rotto alla più sfrenata demagogia e dotato di un apparato mediatico da far paura.

Ora, nell’arco di vent’anni, il berlusconismo ha contagiato di sé l’intero spettro politico. E non è mai veramente finito: l’ultimo governo Berlusconi si chiuse per consunzione interna di fronte alla crisi e per una sorta di mozione di sfiducia da parte dell’Europa, non in virtù di un risultato elettorale. È emerso invece un altro populismo, quello grillino, basato non più sulla tv ma sulla rete, che – fin dal suo atto di nascita firmato dalle forze riunite di un comico e di un’azienda – porta in sé il segno del privato e dello spettacolo, in maniera non diversa dal berlusconismo. Dinanzi al configurarsi ulteriore di una costellazione in fondo identica, il Pd (incoraggiato in questo da quei suoi mancati elettori che, scegliendo Grillo nel 2013, decretarono la non vittoria di Bersani) ha secreto il meglio del suo umore berlusconiano disponibile, abbinato a un residuo spirito democristiano di provincia, cioè Matteo Renzi – in fondo, ancora una volta, secondo una logica speculare nei confronti di un fenomeno inatteso come quello grillino.

A questo punto il prossimo confronto elettorale avrà come posta in gioco la scelta tra una politica delle larghe intese con Forza Italia, prospettata da Renzi, che chiameremo populista-centrista, e la nebulosa costituita da una vittoria grillina con probabile apertura parlamentare ai leghisti – qualcosa che sarebbe uno sgangherato populismo fascistoide. Ecco il quadro dell’impasse politica italiana. Un quadro di continuità, comunque vada, all’insegna del “come prima, forse peggio”.

C’è soltanto da rallegrarsi del fatto che l’impianto costituzionale abbia retto nel referendum dello scorso dicembre, e che si stia preparando una legge elettorale di tipo proporzionale. Poco importa, nella situazione politica generale del paese, se ci saranno i capilista bloccati e altri marchingegni per assicurare ai leader che gli eletti siano di loro esclusivo gradimento. A questo punto della storia, importante è il fatto che, con un sistema elettorale di tipo proporzionale e uno sbarramento al 5%, si possa cercare di coagulare una forza di sinistra che, come sarebbe augurabile, sia quella di un partito socialista in costruzione (si noti che non ho scritto in ri-costruzione e ho messo “partito” con la minuscola).