La parabola del partito tendenzialmente maggioritario, il progetto ideato dal Pd di Veltroni e rilanciato dal Pd di Renzi, sembra effettivamente giunto alla sua logica conclusione.
Per poter decollare aveva avuto bisogno di iniettare nel partito, a uso e consumo soprattutto del nuovo elettorato da attrarre, una robusta iniezione di propaganda “anticomunista”, ricalcata sui modelli berlusconiani e tradottasi nella “rottamazione” di quel che restava della sua tradizione socialdemocratica, nella guerriglia mediatica condotta contro i dirigenti che la rappresentavano e nello scontro frontale praticato nei confronti del lavoro dipendente.
Il balzo del Pd registrato alle europee col 40% dei voti aveva convinto Renzi a proseguire con decisione per il sentiero tracciato.
Col miraggio di sempre nuove vittorie, la maggioranza del partito, messi da parte o archiviati principi e valori “del passato”, ha seguito il comandante e il cerchio magico che lo applaudiva; la minoranza ha subito per mesi le scelte del capo, sempre incerta sul da farsi, mentre sul carro del vincitore, dopo le giravolte e le retromarce del Cavaliere, erano nel frattempo saliti i “diversamente berlusconiani”.
A questo punto Renzi ha cercato di tirare le fila pensando al (suo) futuro e ha puntato, con l’Italicum, a trasformare il 40% di preferenze nel 55% di seggi alla Camera, unica operazione questa che, se riuscita, gli avrebbe consentito di realizzare il sogno del «partito realmente maggioritario».
Ma lo statista di Rignano non si è fermato qui e, cercando di consolidare il proprio successo, ha fatto varare in parlamento, coi voti di fiducia, una riforma costituzionale idonea a garantire per anni la presenza del suo partito al governo e a condizionare, con gli aiuti che non mancano mai al vincitore, anche i principali organi di garanzia previsti dalla Costituzione.
La strada che gli ha consentito questi risultati è stata percorsa con una calcolata e pubblicizzata rottura a sinistra. Non vi sono stati errori tattici o eccessi verbali nel perseguire questo obiettivo: i toni irridenti, il sarcasmo e i veri e propri insulti usati nei confronti della minoranza sono stati la strategia studiata per sottolineare muove affinità e per attrarre al partito quegli elettori di centrodestra rimasti privi del tradizionale leader di riferimento.
A questo punto, però, la sua corsa si è arrestata.
Ciò non perché la riforma progettata non fosse anch’essa espressione di una cultura politica di destra, così come lo erano stati il job act e la «buona scuola», tutt’altro: l’intreccio tra Italicum e la nuova costituzione, infatti, erano stati da tempo caldeggiati dai sostenitori del maggioritario e della governabilità, dai fautori della preminenza dell’esecutivo sul parlamento e della “compatibilità” tra il governo e le istituzioni di garanzia; né erano mancati i consensi, dal «Foglio» e dal «Corriere della sera» e l’approvazione dei controllori internazionali, Merkel in testa.
Ma il progetto, se poteva soddisfare opinionisti e politici di una destra che si sforzava di guardare all’Europa, non poteva certo soddisfare Lega, FI e FdI che, divisi e in competizione tra loro, erano preoccupati soprattutto del loro immediato futuro ed erano penalizzati da una legge elettorale che, premiando la lista e non la coalizione, minacciava di confinare quei partiti all’opposizione per un tempo indefinito.
A trarla d’impaccio ha pensato Renzi con la sua iniziativa referendaria: sopravvalutando il consenso mediatico che a lungo l’aveva circondato e sottovalutando il malcontento reale causato anche dalle sue politiche, il giocatore d’azzardo ha puntato l’intera posta sull’esito positivo della consultazione e ha perso la partita.
Con alcune conseguenze di rilievo.
La campagna condotta all’insegna del “solo contro tutti” è riuscita infatti a ricompattare contro Renzi l’intero schieramento delle opposizioni, che l’hanno così travolto al momento del voto; ma è riuscita soprattutto a ridare nuovo vigore a una destra allo sbando, facendo “dimenticare” agli elettori che era la stessa che nel 2005 aveva votato una riforma ancora più incostituzionale e che nel 2011 aveva condotto il paese sull’orlo del fallimento.
Per ottenere un simile risultato, il capo del Pd ha caparbiamente portato alle estreme conclusioni la linea di condotta adottata in precedenza, cancellando ulteriormente l’identità del partito, suscitando una babele di lingue all’interno e determinando una duplice fuga verso l’esterno: la prima manifesta, con la fuoriuscita dei “bersaniani” e la formazione di una nuova compagine politica; la seconda, meno pubblicizzata ma ancora più consistente, con la fuga di tanti elettori registrata dal voto referendario e confermata dalle recenti amministrative.
L’azzardo non ha dunque funzionato e il Pd, cambiato per via di repentine conversioni, di travasi e di fuoriuscite in varie direzioni, è tornato alla casella di partenza, là dove in pratica l’aveva lasciato Bersani.
La cancellazione della riforma costituzionale per via referendaria, prima e quella parziale della legge elettorale decisa dalla Corte costituzionale, poi, hanno peraltro rimescolato le carte anche nel variegato campo dei vincitori.
Nell’impossibilità di andare “subito al voto”, per la mancanza di una legge valida per entrambi i rami del parlamento, le varie oligarchie, avendo interessi diversi se non addirittura opposti, hanno finto di cercare un accordo per vararne una nuova, ben sapendo che ogni proposta sarebbe caduta nel vuoto per via dei veti incrociati. Mentre dalle colonne del «Corriere» si alzava il rimpianto per le riforme cancellate, i capi delle varie formazioni politiche cominciavano a ragionare in termini di “proporzionale”, attendendo che dalle amministrative uscissero segnali sicuri per orientarsi. E dalla tornata di primavera i dati emersi, sia pure valutati con tutte le cautele del caso, hanno indicato che il centrodestra riunito è nuovamente in grado di raccogliere, con buone probabilità, alle elezioni politiche, la maggioranza dei consensi.
Così FI e Lega, formazioni che a mala pena raggiungono il 15%, unite ai post-fascisti di FdI e grazie alla brillante operazione di Renzi, si sono contate, sono tornate a sperare e ora, sia pure confusamente, si agitano per ottenere una qualche legge elettorale che assicuri il premio di maggioranza alla coalizione e non più alla lista vincente.
Perché questo è il punto.
La Corte, contrariamente a quanto si ripete di continuo prospettando future paralisi, nel cancellare parzialmente l’Italicum, ha lasciato in vita per la Camera una legge che configura sì un sistema proporzionale, ma profondamente “ritoccato” e, soprattutto, ritoccabile: la sentenza ha infatti considerato legittimo l’ampio premio di maggioranza destinato alla lista che, al primo turno, raggiunga il 40% dei suffragi; ma ha suggerito altresì che sarebbe in linea con la Costituzione anche una norma che prevedesse un analogo premio al ballottaggio, riservato non più alla singola lista, bensì, questa volta, alla coalizione vincente.
Questo suggerimento della Corte mette dunque in difficoltà sia il M5S (che comunque afferma di essere in grado di raggiungere da solo quell’obiettivo, contando sul fatto di essere il contenitore di ogni tipo di protesta), quanto il partito di Renzi, che, in caduta di consensi, ha visto sfumare la possibilità di ottenere il 40% al primo turno e ha fatto di tutto per rendere impraticabile una credibile coalizione al secondo; e ha reso comunque poco appetibile per gli elettori un’ipotesi di governo tra forze che si presentano con progetti divaricati e che quotidianamente si delegittimano reciprocamente.
Quanto alle formazioni che continuano a crescere numericamente alla sinistra del Pd, il loro proliferare rivela solo la frammentazione in atto, le polemiche che li dividono denotano la difficoltà di giungere a una qualche soluzione unitaria, mentre la loro stessa esistenza dovrà fare i conti con la soglia di sbarramento che verrà stabilita dalla futura legge elettorale.
Altro clima si respira invece nell’area del centrodestra, ove il suggerimento della Corte sembra incontrare crescenti adesioni.
Le passate coalizioni tra partiti neofascisti, secessionisti e “moderati” ci avvertono che la costruzione di alleanze tra quelle formazioni non è mai stato un problema reale; esiste, è vero, la questione di chi comanderà la futura coalizione, ma tra chi possiede e comunica con le televisioni e chi parla direttamente alla pancia degli italiani un compromesso, se giudicato conveniente a entrambi, sarà sempre possibile: su come “opporsi all’Europa” ci si può sempre intendere (basta abbassare i toni, negare il giorno dopo quello che si è detto il giorno prima, ecc.); su come respingere “l’invasione dei migranti” la convergenza tra “moderati” e razzisti è ancora più agevole, grazie allo slogan: «aiutiamoli a casa loro», formula che non significa nulla di concreto (di quali aiuti parliamo, a chi vanno, chi li finanzia?), ma che proprio per questo trova tutti d’accordo.
Fin qui le chiacchiere e la propaganda.
Ma la Confindustria, fiutando il vento, ha pensato bene di offrire all’eventuale coalizione di destra o al listone unico suggerito dai sondaggi della Ghisleri, una più solida piattaforma operativa che vada oltre le invettive contro il governo o le paure coltivate ad arte.
Presentando Salvini in veste di statista, il «Sole-24 ore», il 7 giugno, ha ospitato una sua intervista nella quale il capo della Lega ha presentato la ricetta per favorire la crescita dell’economia: la flat tax, l’imposta “piatta” al 15%, finanziata con la copertura di 14 miliardi di euro, di cui 7 ottenuti cancellando il contributo dell’Italia alla Ue ed altri 7 ricavati dall’abolizione delle somme destinate al job act.
Tre giorni dopo è stata la volta di Berlusconi, che ha illustrato la sua proposta: una flat tax al 23%, che, insieme a un non meglio precisato «reddito di dignità», comporterebbe addirittura «un miglior gettito per lo Stato con la quasi totale eliminazione della elusione e della evasione» (sic!).
Il 25 giugno Nicola Rossi, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, chiariva la fonte da cui avevano attinto, con alcuni voli di fantasia, i due politici citati, pubblicando le linee di uno studio elaborato dai seguaci italiani di Milton Friedman: una flat tax al 25% per Irpef, Ires e Iva, abolizione di Irap e Imu, un «minimo vitale» universale, a base familiare, pari a 500 euro mensili per i single, della durata di soli 3 anni e per giunta costituita da erogazioni decrescenti a partire dal secondo.
Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, dato che si tratta della vecchia ricetta liberista di un capitalismo compassionevole, periodicamente riproposta dagli anni settanta del secolo scorso, che mira ancora oggi a produrre un’ulteriore distribuzione del reddito in favore dei “ricchi”, come se le attuali diseguaglianze non fossero più sufficienti.
La novità è data invece dal fatto che la proposta si pone nella scia di una norma della Legge di Bilancio varata dal governo, che in marzo ha istituito la flax tax di 100.000 euro per attrarre gli stranieri facoltosi che intendano trasferirsi in Italia dopo la Brexit; di qui la forza mediatica assunta dalla proposta, che, lanciata dal giornale confindustriale con un dossier di ben 18 articoli, è stata prontamente raccolta dalla stampa “moderata”, con i suoi opinionisti schierati a sostegno.
Nella sostanza il progetto, che sorvola su molti dettagli importanti, prevede di far fronte al minore gettito che ne deriverebbe ricorrendo, per due terzi, all’abolizione delle prestazioni assistenziali esistenti e per un terzo ad altri tagli di funzioni pubbliche (altro che ricupero dei contributi da versare alla Ue, come propagandato da Salvini!); l’aumento dell’Iva al 25%, oltre che spostare quel carico tributario sui consumatori, e quindi sulle famiglie, costituirebbe però (contrariamente alle miracolose previsioni di Berlusconi) un ulteriore incentivo all’evasione, per la quale già siamo i primi in Europa; il tetto del 25% per l’Irpef colpirebbe, poi, come ha osservato Visco, in egual misura sia «lo straordinario dell’operaio che il premio di produzione del manager», rivelando la vera natura della tassa: si tratterebbe dunque di un’eguaglianza regressiva, poiché, come hanno documentato Baldini e Giannini, se una coppia di dipendenti del nord con due figli e con un reddito di 40.000 euro da questa riforma guadagnerebbe 268 euro, la stessa famiglia con un reddito doppio ne guadagnerebbe quasi 9.000.
Il contrasto di una simile proposta con l’art. 53 c.2 Cost., che prevede un «sistema tributario informato a criteri di progressività» è perciò sotto gli occhi di tutti, essendo pacifico per i costituenti che il carico fiscale poteva «aumentare in misura più che proporzionale con il crescere della ricchezza», essendo il riparto destinato a produrre risultati redistributivi tra i consociati, nella prospettiva di emancipazione prevista dall’art. 3 cpv.
Altri tempi.
I liberisti di oggi hanno logicamente accolto con entusiasmo questo progetto, che non solo «darebbe una frustata così vigorosa alla nostra economia, da farla ripartire al galoppo» (sic!), ma, soprattutto farebbe «prendere congedo dalle ideologie socialisteggianti che hanno segnato i secoli diciannovesimo e ventesimo» (così Panebianco, «Corriere della sera», 21.7.2017).
Quanto all’asserita incostituzionalità della proposta, «è vero che i principi della prima parte della Costituzione del ’48 non si conciliano facilmente con la filosofia che ispira la flat tax» e tuttavia a questo punto una riflessione si impone. Se «i risultati del referendum costituzionale hanno messo fuori gioco per chi sa quante generazioni (!) la possibilità di riformare la seconda parte della Costituzione […] perché allora non cominciamo a discutere della prima?». E a questo proposito l’articolista espone le sue certezze, sotto forma di ulteriori domande retoriche: «È sicuro che la convivenza civile ci rimetterebbe se la nostra repubblica anziché essere fondata sul lavoro fosse fondata sulla libertà? È sicuro che se il diritto di proprietà, anziché essere relegato tra i cosiddetti “interessi legittimi” (!) fosse riconosciuto tra i diritti fondamentali, quelli su cui si poggia la libertà, ce la passeremmo peggio?».
Così tra un’acritica professione di fede nella formula liberista e un’improbabile previsione sull’immutabilità della seconda parte della Costituzione, l’attacco viene portato ai principi fondamentali che reggono l’intero edificio delle istituzioni repubblicane.
Forzature ideologiche a parte, il discorso è però estremamente chiaro: il diritto di proprietà (privata) diviene il principio fondante della nuova costituzione; sostituisce il lavoro, che essendo una merce, occupava quel posto abusivamente; e delimita la stessa nozione di libertà, che esiste solo se rimane a esso funzionale e collegata (e della “libertà dal bisogno”, un’utopia “socialisteggiante”, non è più il caso di parlare).
Non si tratta, si badi bene, della tradiva riedizione di teorie in voga nell’Ottocento, bensì dell’esposizione di alcuni tratti salienti della costituzione materiale in marcia nel nostro paese, che, in attesa di essere formalizzata, può già costituire la base per un prossimo programma di governo. E Panebianco ne ha sottolineato l’attualità, spiegando quali effetti concreti possa determinare una concezione della libertà declinata in chiave proprietaria.
Tutto questo, peraltro, non sembra interessare molto coloro che oggi “si muovono a sinistra”.
Considerare questo articolato attacco contro la Carta del ’48 un semplice temporale estivo sarebbe comunque un errore, poiché, se anche in autunno altre vicende occuperanno la scena mediatica (le elezioni in Sicilia, per esempio), il sasso è stato lanciato, il messaggio è stato diffuso con dovizia di mezzi e l’opinione pubblica è ormai preparata ad accoglierlo quando il momento sarà ritenuto opportuno.
Per chi intende difendere realmente i principi costituzionali ogni giorno e non solo nelle grandi occasioni, occuparsi di questo progetto, e soprattutto delle sue implicazioni, dovrebbe essere quindi doveroso.
A meno che non si preferisca costruire una politica discutendo sulle sigle, sui nomi dei candidati, sugli abbracci o le ripulse dei singoli soggetti e avviarsi nel frattempo a una coalizione senza qualità o, peggio, a un suicidio elettorale in ordine sparso.