E la Nato? E il ruolo geopolitico dell’Italia? È la questione centrale, l’unico vero contesto in atto di quanto sta accadendo nel nostro paese. Perché il governo trumpiano degli Stati Uniti, rafforzato dalle elezioni di medio termine, riserva all’Italia un ruolo di partner privilegiato, per esempio evitandole le limitazioni delle sanzioni commerciali all’Iran nei prossimi sei mesi? E perché il governo giallo-verde aderisce senza condizioni a una linea di subalternità servile nei confronti delle politiche di guerra degli Stati Uniti nei confronti della Russia, dell’Iran e della Cina, su una linea di “sovranismo” senza sovranità? Perché il Movimento 5 Stelle, che prima delle elezioni politiche del 4 marzo aveva sostenuto le lotte del movimento No Tap contro il gasdotto pugliese (fossili e affini), alternativa statunitense strategico-militare ed economica al gasdotto settentrionale dalla Russia all’Europa, per poi aderire senza condizioni ai diktat trumpiani? Perché, dopo aver sostenuto le lotte del movimento No Muos in Sicilia, oggi aderisce senza condizioni ai piani strategici della Nato? I termini della questione del Muos sono stati chiariti, come al solito, da Manlio Dinucci («il manifesto», 6 novembre):
M5S diviso sul maxi radar siciliano, titola il «Corriere della sera», diffondendo una maxi fake news: non sul fatto che la dirigenza del M5S, dopo aver guadagnato in Sicilia consensi elettorali tra i No Muos, ora fa marcia indietro, ma sullo stesso oggetto del contendere. Definendo la stazione Muos di Niscemi «maxi radar», si inganna l’opinione pubblica facendo credere che sia un apparato elettronico terrestre di avvistamento, quindi difensivo. Al contrario, il Muos (Mobile User Objective System) è un nuovo sistema di comunicazioni satellitari che potenzia la capacità offensiva statunitense su scala planetaria. Il sistema, sviluppato dalla Lockheed Martin per la U.S. Navy, è costituito da una configurazione iniziale di quattro satelliti (più uno di riserva) in orbita geostazionaria, collegati a quattro stazioni terrestri: due negli Stati uniti (nelle Hawaii e in Virginia), una in Sicilia e una in Australia. Le quattro stazioni sono collegate l’una all’altra da una rete terrestre e sottomarina di cavi in fibra ottica (quella di Niscemi è direttamente connessa alla stazione in Virginia). Il Muos, già in funzione, diverrà pienamente operativo nell’estate 2019 raggiungendo una capacità 16 volte superiore a quella dei precedenti sistemi. Trasmetterà simultaneamente a frequenza ultra-alta in modo criptato messaggi vocali, video e dati.
Sottomarini da attacco nucleare e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri, statunitensi e alleati, saranno così collegati per mezzo a un’unica rete di comando, controllo e comunicazioni agli ordini del Pentagono, mentre sono in movimento in qualsiasi parte del mondo, regioni polari comprese. La stazione Muos di Niscemi non è quindi un «maxi radar siciliano» a guardia dell’isola, ma un ingranaggio essenziale della macchina bellica planetaria degli Stati uniti. Se la stazione fosse chiusa, come ha promesso disinvoltamente il M5S in campagna elettorale, dovrebbe essere ristrutturata l’architettura mondiale del Muos. Lo stesso ruolo svolgono le altre principali basi Usa/Nato in Italia. La Naval Air Station Sigonella, a poco più di 50 km da Niscemi, è la base di lancio di operazioni militari principalmente in Medioriente e Africa, effettuate con forze speciali e droni. La Jtags, stazione satellitare Usa dello «scudo anti-missili» schierata a Sigonella – una delle cinque su scala mondiale (le altre si trovano negli Stati uniti, in Arabia Saudita, Corea del Sud e Giappone) – serve non solo alla difesa anti-missile ma alle operazioni di attacco condotte da posizioni avanzate. Il Comando della Forza Congiunta Alleata, a Lago Patria (Napoli), è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che comanda allo stesso tempo le Forze Navali Usa in Europa (con la Sesta Flotta di stanza a Gaeta in Lazio) e le Forze Navali Usa per l’Africa con quartier generale a Napoli-Capodichino. Camp Darby, il più grande arsenale Usa nel mondo fuori dalla madrepatria, rifornisce le forze Usa e alleate nelle guerre in Medioriente, Asia e Africa. La 173a Brigata aviotrasportata Usa, di stanza a Vicenza, opera in Afghanistan, Iraq, Ucraina e altri paesi dell’Europa Orientale. Le basi di Aviano e Ghedi – dove sono schierati caccia statunitensi e italiani sotto comando Usa, con bombe nucleari B61 che dal 2020 saranno sostituite dalle B61-12 – fanno parte integrante della strategia nucleare del Pentagono. A proposito, si ricordano Luigi Di Maio e gli altri dirigenti del M5S di essersi solennemente impegnati con l’Ican [International Campaign to Abolish Nuclear Weapons] a far aderire l’Italia al Trattato Onu, liberando l’Italia dalle armi nucleari Usa?
Il caso del Muos di Niscemi è drammaticamente esemplare. Perché la politica estera del “governo del cambiamento” aderisce senza condizioni e senza incertezze alla corsa alla guerra dell’imperialismo statunitense nelle attuali condizioni di panico finanziario determinato dal cambiamento climatico in atto, dalla crisi di ogni prospettiva di sviluppo capitalistico “sostenibile”, dalla necessità di raschiare il fondo del barile delle risorse fossili, di contendere alla Cina (il vero antagonista) i mercati dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, di riaffermare il proprio dominio nel “cortile” dell’America Latina?
Per la politica estera italiana l’atlantismo non è certo una novità, e tutti i governi, di destra e di “sinistra”, che hanno preceduto l’attuale “governo del cambiamento”, hanno sempre professato la loro fedeltà al padrone americano. Oggi l’unica novità è un appiattimento rafforzato e senza riserve sulla linea dell’aggressività trumpiana, sullo stesso terreno della disarticolazione strategica dell’Unione europea.
E gli F35? I loro contratti non dovevano essere disdetti? E la vendita di armamenti all’Arabia Saudita, con cui viene massacrata la popolazione civile in Yemen, non doveva essere interrotta? E la riduzione delle spese militari, che costano all’Italia 37 miliardi l’anno e dovranno aumentare per accordi Nato? Sono bastati pochi mesi di governo per alterare profondamente il mandato dell’area di sinistra dell’elettorato 5 Stelle. Ma è proprio sul terreno geopolitico che si gioca il presente e il futuro dell’Italia, come ricorda puntualmente – dicendo e non dicendo, ma sapendo – il presidente della Repubblica, capo delle forze armate.
Anche sul piano dell’economia di sistema la partita è eterodiretta: nessuna regola europea sarà messa in discussione e la pretesa indipendenza dell’Italia è puntualmente regolata dalle minacce sella Commissione europea e del Fondo monetario internazionale, il braccio armato della finanza internazionale a guida statunitense. Le campagne dei media arruolati (praticamente tutti) insistono, giorno dopo giorno, sui pericoli di una pretesa autonomia italiana, suscitando allarmi e diffondendo timori nei sudditi “consumatori” e “risparmiatori”, mettendo in guardia contro i “sovranisti”; il loro vero bersaglio sono gli elettorati che il 4 marzo hanno determinato la crisi profonda del sistema politico della destra e di una sinistra che si è fatta destra, e che devono essere puniti, frustrati, impauriti, ricondotti all’interno di un sistema insostenibile ma unico possibile.
Questo il disegno: tutti prigionieri di un sistema politico in pezzi, in cui nessuna forma di democrazia rappresentativa è credibile, frammentato in sempre più ristretti gruppi di potere e di opinione al servizio della dittatura multinazionale di un capitalismo finanziario in crisi che di fronte al fallimento di ogni prospettiva di “sviluppo sostenibile” del modo di produzione capitalistico, cerca scampo nella guerra economica tra Occidente, Oriente e sud del mondo, preparandosi a uno scontro militare globale. Il cambiamento climatico in atto – ed è un dato ormai strutturale – sta accelerando la corsa agli armamenti e alla loro dislocazione strategica nei vari scenari di scontro, a est, sulle frontiere con la Russia e con la Cina, e a sud, in Medio Oriente e in Africa. Le migrazioni di intere popolazioni, da sud a sud, da sud a nord, da est a ovest, sono determinate dalle rapine economiche del neocolonialismo occidentale, dalle desertificazioni provocate dal cambiamento climatico e dalle guerre in corso.
Quanto sta accadendo nella ristretta area di governo, l’unica realtà rappresentata dai media, è tutto interno alla crisi del sistema politico. La riduzione dello scontro politico alle competizioni contrattuali tra M5S e Lega, prive di qualsiasi visione strategica se non l’esaurimento della forza contrattuale del M5S, in ambiti parziali e limitati (i costi della politica, un’astratta legalità, l’invenzione della guerra agli immigrati), trasformano i conflitti tra competitori in piccoli accordi al ribasso e a vantaggio del gruppo dirigente della Lega, l’unico partito con un certo radicamento territoriale, “il partito” oggi riconosciuto nelle regioni “rosse” da buona parte dell’antica base gregaria del Pci. Le parole perdono i loro contenuti originari: il reddito di cittadinanza del M5S, un possibile inizio di redistribuzione del reddito per una lotta alla povertà e alla precarietà dell’esistenza, in assenza di una politica attiva del lavoro esaurirà molto presto il suo senso; il cinico realismo della “governabilità” sta già producendo i suoi danni (dai condoni fiscali ed edilizi, alle minacce di espulsione dei parlamentari che dissentono dai “capi politici”). Perde il suo senso anche la parola “lavoro”, ridotto alle sue degradanti condizioni servili in cambio di mance miserabili.
Non questo hanno voluto gli elettori del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 che hanno determinato la crisi del Pd renziano, e del 4 marzo 2018, che hanno determinato la crisi dell’intero sistema politico. Non l’hanno voluto e non lo vogliono. Come tutti sanno, in una “democrazia liberale” da sempre illiberale e oligarchica il potere degli elettori è limitato al consenso che possono delegare a qualche “rappresentante” ogni cinque anni. Ma gli elettorati del 4 dicembre 2016 e del 4 marzo di quest’anno, soprattutto l’elettorato del M5S, hanno rivelato una precisa volontà di cambiamento radicale: non solo un grande NO al golpismo renziano, non solo una forte spinta della forza di opposizione più radicale in una posizione di governo, ma anche precisi contenuti alternativi di altra società e di altra economia, convogliando tante esperienze di base, ambientaliste (No Tav, No Triv, No Tap, No Muos…), sociali (associazionismo, sindacalismo di base, centri sociali, esperienze di autogestione di fabbriche fatte fallire per speculazioni finanziarie, reti contro le mafie, reti contro la guerra ecc.), che da molti anni si pongono l’obiettivo di sperimentare e organizzare nuove relazioni sociali, avendo chiara la questione del potere «dal basso»: non per partecipare in maniera subalterna ai traffici dei gruppi di potere ma per rovesciare la piramide sociale. Le attività di queste realtà territoriali, scollegate e disperse, spesso limitate dai loro temi settoriali, stanno costruendo un processo collettivo trasversale all’intera società italiana. In “alto” i governi e i gruppi di potere che li esprimono, in “basso” cittadini che, forti della progettualità di una Costituzione inattuata e delle loro esperienze, praticano un’altra politica, con una visione radicalmente diversa dalla politica dei gruppi di potere politici, economici e culturali.
Il governo M5S-Lega ha recepito in parte – nella componente M5S – questa pressione dal basso, soprattutto nella fase pre-elettorale. Ma che fine ha fatto la “democrazia diretta”? Intanto la Lega ha facile gioco ad aumentare consensi securitari, speculando sull’assenza cronica di politiche dell’immigrazione e su una linea di guerra ai migranti già attuata da Minniti, con il risultato di incrementare il numero dei migranti “irregolari” e di impestare con i veleni del razzismo e della xenofobia le relazioni sociali tra nativi e migranti. L’area di governo e la sedicente opposizione di destra e di ex-sinistra sono completamente interne alla crisi del sistema politico, e tutti ne sono prigionieri, aumentando la separazione tra “politici”, vecchi e nuovi, e cittadini.
Qui dovevamo arrivare. La crisi del sistema politico in tutte le sue articolazioni, in alto e in basso, rende necessaria un’intensificazione delle esperienze di autorganizzazione con l’obiettivo di costruire coalizioni sociali «dal basso», in relazioni di confronto aperto con quelle componenti degli elettorati del M5S e della Lega, e delle varie formazioni della diaspora di sinistra (da Potere al popolo a Rifondazione comunista, a Leu), dello stesso Pd, che fanno comunque parte – con tutti i loro limiti e disastri – di quella vasta area che dagli anni sessanta in poi ha svolto un ruolo attivo “di sinistra” nella società italiana. In questi giorni si stanno riattivando gli studenti, in difesa della scuola pubblica nazionale, e il movimento delle donne contro le politiche oscurantiste e familistiche della Lega, mentre si vanno moltiplicando le iniziative contro il decreto sicurezza, incostituzionale, di Salvini. Tutto è in movimento. È in movimento la stessa società americana nonostante il consolidamento del potere autocratico trumpiano. Nel grande caos del presente, la storia si chiude e si apre convulsamente, e nei vicoli ciechi – come insegnò Brecht in Me-ti. Il libro delle svolte, avviene il cambiamento. In quali direzioni? Qui siamo.
E il governo giallo-verde? Se l’area di governo si chiude in un vortice di vecchie pratiche politiche, condoglianze al M5S. Tutti prigionieri del sistema politico in crisi? No, liberi tutti, per costruire insieme quel «potere di tutti» che ci ha insegnato Capitini: l’«omnicrazia» come sviluppo storico, teorico e pratico, della democrazia inattuata e del socialismo libertario. I temi più urgenti di una rivoluzione sociale e politica nonviolenta? La creazione e la sperimentazione di relazioni interpersonali, faccia a faccia, in situazioni di concreta socialità, per costruire strumenti di potere dal basso e nuove relazioni tra territori ed enti locali spostando in basso il baricentro decisionale. L’autorganizzazione di processi di altra economia alternativa al modo di produzione capitalistico. La progettazione di interventi pubblici per un lavoro socialmente necessario e garantito da diritti collettivi, sui terreni prioritari dell’ambiente e dei beni culturali, in un paese che sta andando in pezzi. La costruzione di relazioni di cooperazione tra nativi e migranti, tutti da regolarizzare e da inserire in percorsi legali di nuova cittadinanza attiva. Il socialismo come visione strategica internazionalista di cooperazione tra i popoli, per un pianeta di tutti. L’opposizione alla guerra globale e alla devastazione del pianeta con tutti gli strumenti – legali e illegali – della non collaborazione, della disobbedienza civile, del boicottaggio, del sabotaggio, sapendo che la pace non è soltanto opposizione alle guerre ma è soprattutto progettazione e organizzazione di nuove realtà che ne superino le cause.
Oggi l’umanità è a un bivio: farsi distruggere dagli orrori di una storia che gronda sangue, oppure costruire – con alta visione e altra passione – realtà liberate dalla schiavitù economica, dall’isolamento dei sudditi, dai poteri oligarchici. Creare e organizzare società di tutti non è un’utopia, è una necessità. Non c’è più tempo. Ognuno si faccia centro di un processo corale (relazionale, sociale, culturale e politico), ognuno sviluppi il proprio potere per il potere di tutti.