Leopardidi Rino Genovese

Il recente film di Mario Martone (in fin dei conti né brutto né bello, perché la notevole interpretazione di Elio Germano controbilancia le scene kitsch che il regista non ha saputo evitare nel suo lavoro) ha riportato in auge la figura del più grande poeta italiano moderno. A partire dall’alta retorica alfieriana, e con l’apporto delle molteplici esperienze provenientigli dagli studi di filologia classica, Leopardi si era creato una forma che può essere detta sperimentale ante litteram, con una poesia a trecentossessanta gradi, dall’idillio alla “polemica in versi” (per usare una formula di Pasolini), che mentre anticava la lingua, lamentando nella contemporaneità la perdita del bello stile passato, al tempo stesso la forzava verso sonorità e costruzioni sintattiche tra le più ardite, con un verso che si faceva “libero” in una lotta con la metrica: a riprova del fatto che la modernità letteraria è molto più una rottura nella tradizione che con la tradizione. Una posizione, la sua, destinata a confliggere con l’estetica della intuizione-espressione (basti pensare alla banale circostanza che esistono i testi preparatorî in prosa di molti dei suoi componimenti apparentemente dettati dal puro empito lirico), come pure, ed è arcinoto, con qualsiasi liberal-progressismo di stampo risorgimentale, essendo il filosofo Leopardi una sorta di Sade italiano – al netto, tuttavia, dell’opzione in favore della crudeltà – nel considerare la natura come indifferente ai mali degli esseri umani e addirittura, in un rovesciamento della concezione rousseauiana, la vera fonte di ogni malvagità.

Noi – voglio dire alcuni della mia generazione, studenti che se ne infischiavano del manuale del liceo che ancora si esercitava nello sterile esercizio di discernere la poesia dalla non poesia – cercavamo di comprendere l’intellettuale anticonformista e il poeta sulla scorta della triade pisano-fiorentina composta da Walter Binni (di cui si vedano gli scritti leopardiani ora ripubblicati in tre volumi dal Ponte editore), Cesare Luporini e Sebastiano Timpanaro. Il primo induceva a leggere nella “nuova poetica” l’energica rottura, formale e storica, che faceva di Leopardi un caso unico nell’Ottocento letterario, per così dire insieme romantico e antiromantico; il secondo – filosofo marxista che aveva respirato l’aria dell’esistenzialismo tra le due guerre – ne proponeva l’immagine “progressiva”, con un termine che pareva rubato dalle labbra di Togliatti, di un individualismo solidale contro la natura matrigna (quello che segnatamente si può reperire nella Ginestra) più avanzato, in chiave quasi socialista, del progressismo a lui coevo; il terzo, infine – con un discorso articolato su più livelli (c’era in lui, per esempio, una rivalutazione di Engels) e permeato da una violenta polemica a sinistra –, faceva del sensismo materialistico leopardiano l’esplosivo che avrebbe potuto far saltare l’edificio storicistico del marxismo italiano. Come Fortini, che invitava i rivoluzionari a riflettere sul non liquet dato dalla morte (in particolare in uno scritto a proposito di Sussurri e grida di Bergman), allo stesso modo Timpanaro insisteva sulla non superabilità dialettica di concretissime rogne e controfinalità, come il dolore fisico e psichico, che complicano per l’individuo, fino a dissolverlo, il quadro dello storicismo ottimistico.

A me sembra, ritornandoci su a distanza di una quarantina d’anni, che quelle letture di Leopardi – tutte pregevoli e fatte da persone degne di ogni stima – non abbiano còlto però un punto fondamentale. Che è questo: Leopardi è un critico della cultura immerso nella ristretta “società” del suo tempo, dove le virgolette stanno a significare essenzialmente la società aristocratica e letteraria, quella dei salotti, contro cui egli lancia i suoi strali. C’è in Leopardi, che non era a suo agio né nella piccola Recanati né nella capitale romana, una messa in stato d’accusa della cultura del suo tempo, intendendo il termine sia nel senso delle persone colte, sia in quello degli usi e costumi di un’epoca. In questo senso “natura” è un termine ambiguo: può indicare un determinato tipo di società ed esserne l’allegoria. Questo è il problema di tutto il sensismo materialistico con la sua forte componente edonistica (la teoria del piacere, dalle antiche radici epicuree e lucreziane, che si trova anche in Leopardi): quando tematizza la natura che spinge al godimento e al tempo stesso lo limita – magari con la vecchiezza o con la malattia –, di che cosa sta discorrendo se non di una determinata forma di vita, di una cultura, alle prese con una sovrabbondanza di oggetti (si pensi tra l’altro alla controversia sul lusso nel Settecento), cioè con una realtà debordante da cui l’individuo possidente è sommerso? Non è forse proprio la fuga libertina – di oggetto in oggetto, all’infinito, se introduciamo inoltre l’elemento così tipicamente leopardiano dell’immaginazione – che genera noia, per cui alla fine del piacere non resta più nulla?

Se oggi ci si troverebbe a respingere come ingenuo, privo di significato, l’attacco alla natura – quando ogni terremoto, ogni frana o alluvione, appaiono soprattutto come una ferita aperta dalla società che non è riuscita a essere, appunto, società nella sua funzione più alta, ossia a proteggerci –, questo è il segno che è stato invertito il senso della natura leopardiana, che era l’eredità di un pensiero certamente illuministico ma anche il portato di una comunicazione sociale chiusa in un mondo formato da quattro gatti. Si chiama oggi piuttosto cultura il motore immobile, o presunto tale, che conferisce il suo ritmo lentissimo alla storia e alla (cosiddetta) evoluzione. Per conseguenza oggi malediciamo quella, non già la natura, se la società, che non sa renderci immortali, ci abbandona alla malasanità nella corsia di un ospedale, o al vuoto di una legge sulla possibilità di una morte dignitosa.