di Luca Baiada

Questi ultimi vent’anni sono di scacco ai diritti e alla vita delle persone. E diventa ovvietà, senso comune, fatalismo.

Un furto di democrazia: finisce il XX secolo e un presidente degli Stati Uniti fabbrica il posto per suo figlio. Gli effetti si vedranno presto, nel 2001 e nel 2003: e saranno promesse di giustizia infinita, di libertà duratura, e saranno false provette, uranio raccontato, armi di distruzione di massa immaginarie. Soprattutto sarà guerra e guerra. Vent’anni dopo, gli Stati Uniti avranno la loro Marcia su Roma: e sarà l’invasione del Campidoglio, muscolare e beffarda, con agitatori palestrati e tangheri vestiti da sciamano. In Per chi suona la campana di Hemingway, un americano combattente in Spagna per la Repubblica spiega così il suo paese: «Ci sono molti che non sanno di essere fascisti, ma lo scopriranno al momento buono». Anche alla Marcia originale, quella italiana del 1922, c’erano assassini e intrattenitori, squadristi coi fucili e Mino Maccari con una gallina. Non c’è truppa che non si tiri dietro donnine e simpaticoni.

Negli stessi anni Roma ha fatto la sua parte; non dicono che è la culla del diritto? Ecco il ruolo del governo Berlusconi nel falso dossier sull’uranio del Niger, ecco il rapimento di Abu Omar con gli agenti della Cia prima condannati e poi graziati, un po’ da Napolitano e un po’ da Mattarella, ecco il caso Shalabayeva con il governo Letta. Le manovre di Palazzo Chigi e della Farnesina si distinguono per doppiezze infinite, eterni vedo-non vedo, posizionamenti a scomparsa. Indimenticabile, nel 2011, Franco Frattini intervistato dalla Bbc, che annaspa sulla questione della Libia.

Ma non tutti ubbidiscono al peggio, nei ranghi del potere. Nel 2004 una bella sentenza della Cassazione fa scalpore. È il caso di Luigi Ferrini, deportato a diciassette anni dai tedeschi nel 1944: la Germania può essere condannata a risarcire, ed è un’apertura alla giustizia per tutti i crimini di Stato. Poi altre sentenze simili, come quella sulla strage di Civitella. Significa giustizia non solo per stragi e deportazioni naziste, ma anche per vicende molto più recenti, come le uccisioni di Andrea Rocchelli e Giulio Regeni. Al caso Ferrini guarda il mondo, e sui delitti di Stato c’è l’imbarazzo della scelta: dai crimini in guerra a quelli in pace (Daphne Caruana Galizia e Jamal Khashoggi) a quelli nella zona grigia, sempre più pericolosa e incontrollabile. Per questo le cancellerie tremano e si muove un dispositivo alla Foucault: toghe e feluche s’inchinano a poteri impennacchiati e autoreferenziali. Nel 2012 la Corte internazionale di giustizia ribadisce la ragion di Stato e protegge l’impunità. Ma presto è smentita dalla Corte costituzionale italiana, perché c’è chi ha coscienza (presiede la Consulta Giuseppe Tesauro, scomparso questa estate, sit tibi terra levis).

Che cosa triste, però: queste battaglie epocali soffocano in aule, uffici, corridoi, mentre c’è bisogno di piazze e fucine di cultura. Ci vorrebbe un Duccio Galimberti a dire cose meravigliose da un balcone, ci vorrebbero gli studenti padovani stretti intorno a Concetto Marchesi per difenderlo dai fascisti. Ci si deve accontentare di distinguo sulla carta, di pandette. Ci vuole l’amore, ma quello vivente è un’altra cosa, e Piero Calamandrei scrive ad Ada che se fossero insieme getterebbero per aria tutti i codici, «robaccia vecchia grigia e fredda».

In questo momento la parte emergente e più violenta del personale intellettuale addetto alla repressione, cioè la fazione talebana dell’islam radicale, addestrata da decenni in funzione colonialista e antisocialista, svolge in armi il suo ruolo, assumendo l’amministrazione dell’Afghanistan. Il partigiano Giorgio Bocca, insospettabile di simpatie per i caffettani, l’aveva detto: prima o poi, ogni occupante che non si integra se ne va. Ma Bush, Cheney e Rumsfeld non sono Alessandro Magno, che faceva sposare i suoi ufficiali con le principesse d’Asia.

I mullah vogliono – pensa un po’ – gestire lo Stato. Già, questa vecchia scatola degli attrezzi, unta e confusa come quella dell’idraulico, ma evidentemente indispensabile come lui. Chi arriva in alto col sangue, poi vuole comandare anche con l’inchiostro. Hanno capito che avere le leve di un’autorità ufficiale fa la differenza e che le prerogative di uno Stato – sovranità, immunità, spionaggio e altro – sono garanzie di mano libera. E ci vorranno cadì, e ancora feluche, e insomma gestione del potere, ma sempre più irresponsabile, senza neppure i contrappesi che l’Europa ha costruito e che volentieri trascura. Certe lezioni vengono da lontano; si dice che i gerarchi nazisti avessero regalato a Hitler un grazioso canestro, con le copie dei trattati internazionali che la Germania aveva violato. Giuristi e legisti – qui un tempo erano poco distinguibili dai teologi, come adesso è laggiù, Oltretevere e oltre il Giordano e molto più in là – sono avvertiti: c’è bisogno di loro. Ma non facciano scherzi, per non finire come quello che s’impuntò, per rispetto a una regola, a negare al sultano l’approvazione di qualcosa: al Serraglio di Costantinopoli c’è ancora il vaso in cui fu pestato a morte. L’intellettuale che osa rifiutarsi di fare il burattino affronta rischi, e Tommaso Moro lo dimostra, anche se gli fu concessa un’esecuzione più rapida.

I giuristi intransigenti, però, sono pochi, e Giuseppe Conte ha detto quel che molti hanno in animo o fanno stando zitti: coi talebani si deve trattare. L’avvocato del popolo viene dalle Puglie, terra di antiche ibridazioni culturali, compresi l’emirato di Bari e la roccaforte islamica di Luceria Saracenorum. È una persona pratica, forse più concreta di un altro giureconsulto pugliese, quell’Aldo Moro che aveva negli occhi secoli di scirocco, e che morì chiedendo – ma come si permetteva? – che per lui non si applicassero le regole della ragion di Stato, ma invece si facesse un’eccezione. Le eccezioni si serbarono per Ciro Cirillo, perché in Italia la «trattativa» è un istituto delicato: non si impara in un corso all’università ma fa brillare la carriera della toga e della feluca, come della divisa e della grisaglia. Neanche il caffettano impara le trattative all’università, ma le conosce bene, e per questo mantiene sempre la parola. S’intende, quella che dirà dopo aver fatto come gli pare.

Questa epocale irresponsabilità del potere conta su una distrazione collettiva, cinica e puerile, che può slittare verso il fanatismo o l’apatia. C’è chi, esaltato, guarda il cielo sognando vergini Urì; e chi, mesto, a sera in tinello, guarda su uno schermo danze di corpi seriali che non toccherà mai. A ognuno il suo altrove. Certo, fra le due opportunità chi può scegliere si sposta, e ci sono ragioni. Ma qualcosa unisce mondi lontani, ed è sempre all’insegna della perdita di realtà: la droga che piace al mondo ricco sgorga da quello povero, e uno stuolo di notabili armati e istruiti ruota intorno a questo flusso, che ufficialmente è illegale ma che ormai è inseparabile dall’economia capitalista. Circolano goffi paragoni tra Kabul e Saigon, a proposito di sconfitte clamorose; però la guerra alla droga, dichiarata da Nixon dopo il 1968, è già durata più della Guerra dei trent’anni, e la sta vincendo il narcotraffico perché ha un alleato robusto: la fuga dalla vita, la voglia di evadere, di non esserci.

A proposito di evasione, in Italia riparte la mostra del cinema di Venezia – felice di ricordare che ha tanti anni di successo, cioè che fu ideata dai fascisti – mentre i talebani vieteranno anche di cantare e fischiettare, perché bisogna nutrirsi di cose sante. Qui la visione obbligatoria è orizzontale, là verticale, ma è sempre spettacolo e svia l’attenzione. L’ha insegnato Guy Debord, la società dello spettacolo vive di nascondigli; un primato che il filosofo riconosceva a Roma. E proprio a Roma, nei giorni in cui i mullah prendono il controllo di Kabul, il Consiglio di Stato si rifiuta di fare chiarezza sull’attivazione dell’Avvocatura dello Stato italiana, direttamente nei processi, contro le vittime di strage e deportazione: così, dopo tre quarti di secolo, possono continuare le innocue commemorazioni dei crimini nazisti, con la retorica del mai più e senza giustizia. Se i talebani leggessero le carte bollate romane, avrebbero la conferma che disporre di uno Stato fa comodo: a uccidere, si rischia solo di dover commemorare, purché si abbia l’accortezza di dire certe cose sotto i riflettori e di farne altre nell’ombra. Lo svuotamento della cittadinanza, la polverizzazione del popolo, procedono col favore del chiasso e del segreto. Guai alla realtà, e Julian Assange deve sparire.

L’antidoto a questi tempi velenosi? Marc Bloch dopo il 1940, braccato dai nazisti, scrive che mai il sentimento di solidarietà ragionata e armata si è manifestato come nel Nord della Francia al tramonto dell’Ancien régime. Piuttosto chiaro, insomma: l’olio di ricino dei fascisti del XXI secolo vuole purgare il 1789, perché l’Occidente non lo ripeta e l’Oriente non ci provi neanche.

La partita non è finita, la scacchiera è ancora qui.