profughidi Gian Paolo Calchi Novati

Se e quando il flusso migratorio verso l’Europa finirà o almeno si normalizzerà, si potrà valutare meglio la maggiore o minore eccezionalità del fenomeno che è dilagato negli ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane. La storia registra processi migratori che hanno di fatto cambiato il mondo plasmando e riplasmando la geografia e la demografia dei continenti. Le Americhe, l’Australia, il Sud Africa ma anche la Turchia e Israele sono il prodotto di spostamenti massicci di popolazioni. Non sempre i nuovi insediamenti sono avvenuti nel vuoto. Le terre senza popolo per popoli senza terra sono più spesso una pia illusione o una pura e semplice ipocrisia per nascondere travasi o sostituzioni di massa con la forza. L’ultimo spostamento di milioni di persone in Europa è avvenuto a seguito della Seconda guerra mondiale come effetto dello slittamento verso ovest dei confini e della reazione alla “sovietizzazione”. La normativa internazionale sul diritto d’asilo ha avuto come spunto contingente proprio gli eventi in Europa degli anni quaranta.

Se si sta ai numeri, i profughi che approdano in Europa sono una quota minima rispetto ai profughi che si muovono all’interno delle stesse aree che soffrono le conseguenze di guerre, carestie, calamità naturali, persecuzioni e regimi autoritari. La grande maggioranza degli uomini e delle donne che in Africa – il continente che consideriamo il nostro continente di riferimento – lasciano i loro paesi d’origine per emergenze di varia natura, ma anche alla ricerca di lavoro o promozione sociale, lascia un paese africano per un altro paese africano. I profughi africani che restano in Africa si contano a milioni, non a decine o, tutt’al più, centinaia di migliaia come per le esperienze recenti di immigrazione da Sud a Nord. Pur ammettendo che è più “facile” integrare o integrarsi in contesti o spazi territoriali informali che non nei nostri Stati ultra-formalizzati, resta tuttavia una bella differenza fra Africa (ma anche Medio Oriente) e Europa. La percentuale media di stranieri nei paesi dell’Unione europea è dell’11%, nel solo Libano è del 25%.

Per circa 500 anni l’Europa si è ritenuta in diritto, e ne aveva i mezzi, di sottomettere al suo dominio il resto del mondo senza rispettare le frontiere altrui e la sovranità e le infrastrutture istituzionali delle genti nelle “aree esterne”. Questa espansione in senso genericamente Nord-Sud è avvenuta in coincidenza con l’affermazione del capitalismo finanziario e industriale e ha comportato anche la subordinazione di quelle terre e di quelle popolazioni in termini economici. Fino alla Seconda guerra mondiale non c’è stata nessuna vera parità neanche a livello teorico fra i bianchi e gli altri. Le asimmetrie stabilite dal colonialismo hanno perpetuato però un rapporto fra Nord e Sud caratterizzato da diseguaglianze che hanno resistito anche a svolte epocali come la fondazione delle Nazioni Unite e la promulgazione della Carta dei diritti dell’uomo.

Dopo aver contribuito a disseminare nei continenti extra-europei – unitamente ai propri sistemi organizzativi e alle proprie istituzioni – i suoi stessi cittadini in esubero o in cerca di terra o avventure, l’Europa sta subendo una specie d’invasione di ritorno, che muove appunto da Sud, un Sud politico quando non è geografico. Non si tratta necessariamente degli stessi popoli in provenienza dai medesimi territori. Il contesto è quello dell’“ordine neo-coloniale” che le forze egemoni fanno fatica ad ammettere ma che praticano impunemente (o quasi) a spese di quelle stesse plaghe e popolazioni. A differenza delle grandi potenze coloniali, l’Italia non ha dato nessuno spazio ai suoi colonizzati. Questo spiega perché nell’emigrazione ormai massiccia proveniente dai paesi del Sud del mondo in Italia non figurano se non per cifre residuali uomini e donne originari dei nostri antichi possedimenti in Africa. I primi eritrei e somali arrivati sulle rive dell’Italia in gran numero sono fra i morti o i naufraghi di Lampedusa.

Le guerre esportate dalle potenze occidentali sullo sfondo di crisi locali e guerre civili periferiche, sostenendo o fomentando cambi di governo (regime change nel linguaggio tecnico), con l’obiettivo di controllare risorse economiche e strategiche di cui hanno bisogno per soddisfare i propri interessi, sono una delle cause principali dell’esodo in atto. Non foss’altro per questo, non si condanneranno mai abbastanza i misfatti commessi in Iraq e in Libia. Certi paesi sono rimasti segnati per sempre dalle malversazioni perpetrate a spese dei processi interni. In Iran, solo per fare un esempio, l’atto di forza ordito dalla Cia nel 1953 per rovesciare Mossadeq e riportare sul trono lo scià non è mai stato veramente dimenticato.

Nel contesto di pretesa eguaglianza e compartecipazione alla base del Nuovo ordine mondiale, che più comunemente, soprattutto avendo in mente il mercato, diventa la globalizzazione, le ingiustizie a danno del Terzo mondo, il Sud globale di oggi, hanno tutt’altra rilevanza. Gli scambi e la comunicazione sono troppo pervasivi. L’Europa non può più dissimulare i secondi fini dell’opera di “civilizzazione” nel nome del progresso che ha permeato l’estensione su scala universale della sua presenza, più o meno stabile e profonda, insieme ai suoi modelli e in ultima analisi alla sua potestà. Se cadono le barriere per i capitali, le merci e l’informazione, si può ancora giustificare il contrasto al movimento delle persone?

Di per sé, l’emigrante, anche nelle vesti di profugo o rifugiato, ha tutto per essere una figura cruciale e per molti aspetti emblematica del mondo globalizzato, post-coloniale e post-bipolare. Valica le frontiere geografiche e culturali. Simboleggia la pluralità e l’interconnessione su base territoriale con i diversi identitarismi e le varie fedi religiose. Solleva con la sua sola presenza problemi di democrazia, libertà e parità nella società e nei luoghi di lavoro, diritto di cittadinanza e redistribuzione delle risorse. L’Europa si trova di fronte a un passaggio critico. È come se i popoli variamente discriminati o oppressi avessero preso in parola l’Europa e pretendano, con la loro presenza, di chiudere il cerchio.

In Italia – ma di fatto in Europa e in tutti i paesi sviluppati – l’immigrazione dal Sud del mondo è trattata, a livello di discorso pubblico e di legislazione, come una questione “securitaria”. I toni predominanti volgono all’allarmismo e al pericolo: invasione “biblica”, emigrazione clandestina, operazioni di polizia. Ma anche forniture di mezzi militari come motovedette armate o apparecchiature di videosorveglianza ai paesi di provenienza o di attraversamento. L’organo dell’Unione europea che si occupa di immigrazione si chiama Frontex evocando insieme una frontiera da presidiare e un fronte di guerra. Anche per questo l’apertura umanitaria della Merkel, ridimensionata peraltro di lì a poco dal ritorno della burocrazia e del “realismo”, è suonata come una grande rottura.

Sebbene nell’insieme abbia rappresentato un teatro secondario nell’arco dell’imperialismo coloniale – che ha avuto i suoi epicentri nell’Asia meridionale e nell’Africa a sud del Sahara – il Mediterraneo ha fatto registrare con il colonialismo un vero e proprio scambio di popolazioni. Prima i pieds noirs in Algeria, adesso i beurs nelle banlieues di Parigi e Marsiglia. Nessun altro teatro coloniale poteva vantare la vicinanza con l’Europa del Nord Africa (il che implica una dimestichezza reciproca, alla pari, iniziata ben prima dell’occupazione europea, assolutamente sconosciuta con l’India o con il Senegal prima dell’avventura coloniale e anche dopo). Per effetto del colonialismo, il bacino del Mediterraneo è stato diviso di fatto da una linea di sovranità che assoggettava il Sud al Nord. Anche a decolonizzazione completata, nel Mediterraneo permane una linea più o meno invisibile – di potere insieme hard e soft – che inquina i rapporti fra le due sponde e che ha mandato a vuoto le iniziative di cooperazione, compreso l’ambiziosissimo Partenariato euro-mediterraneo varato a Barcellona nel 1995 e dichiarato esaurito dieci anni dopo.

Il blocco di paesi che si affacciano sul Mediterraneo da sud, fra il mare e il Sahara fino all’area immediatamente contigua, il Sahel, con i suoi immensi spazi predisposti ai traffici sulle lunghe distanze, e quindi alla mobilità, è uno dei due grandi bacini della migrazione che sta investendo l’Europa. La Libia è il luogo di transito più che di produzione di candidati al viaggio al di là del Mediterraneo. I libici che hanno lasciato la Libia sono un’entità trascurabile (ma non è escluso che se la guerra continua e tanto più se dovesse aggravarsi, possa iniziare anche una migrazione propriamente libica). La “gente dei barconi” è arrivata e arriva in Libia per lo più dal Sahel, dove imperversa una specie di corto circuito innescato da un processo di state building particolarmente complesso per la coabitazione di popolazioni nere, contadine o urbanizzate, a contatto diretto, per effetto della geopolitica di derivazione coloniale, con i nomadi e semi-nomadi che hanno il loro habitat nel deserto e sono impervi a ogni forma di autorità centralizzata. Su di esso si è innestata la war on terror condotta dagli Stati Uniti e, soprattutto dopo l’avvento al potere di Hollande, dalla Francia. Il Fezzan, nel sud della Libia, è un vero e proprio focolaio di tensioni, traffici illeciti e addestramento per i gruppi dediti al jihadismo.

Chi, anche in Italia, parla della necessità di “andare in Libia” per bloccare il commercio di esseri umani dovrebbe almeno sapere che Zouara e gli altri porti d’imbarco sono un falso bersaglio, perché le terre d’origine del fenomeno sono lontane e anche molto lontane. Il Sahara è attraversato da profughi in provenienza dalla Nigeria a ovest e dal Corno a est. I due governi di Tobruk e Tripoli che il rappresentante dell’Onu cerca di portare a un accordo di pace con la formazione di un governo di unità nazionale si sono entrambi pronunciati contro la missione formalmente di anti-contrabbando approvata in maggio dall’Unione europea e rilanciata in settembre come sola espressione della politica unitaria dell’Europa.

Malgrado il lessico corrente, il trasporto di esseri umani verso l’Europa non ha nulla a che vedere con la tratta degli schiavi classica, quali che siano gli abusi che possono commettere e che certamente commettono gli scafisti. La tratta in direzione delle Americhe attraverso l’Atlantico che durò due o tre secoli fra Cinquecento e Ottocento prevedeva razzie di persone libere, prima uomini e in un secondo tempo anche donne, mai bambini, destinati a essere venduti come schiavi una volta giunti sulle coste dell’America. Gli schiavi erano incatenati e stivati sulle navi con la forza e contro la loro volontà. Le barche che arrivano o dovrebbero arrivare a Lampedusa o nelle isole greche trasportano persone che vogliono partire e hanno pagato per partire. I migranti di oggi, con molti bambini al seguito, esprimono la spinta di molti a lasciare la terra dove sono nati o risiedono. È l’emigrazione della disperazione: l’emigrazione inseguendo un semplice miglioramento economico (come è stata per molti anni l’emigrazione di marocchini e senegalesi verso il nostro paese) è quasi scomparsa. L’unico aspetto comune fra la tratta dell’epoca classica e i viaggi nel Mediterraneo oggi è l’alto tasso di mortalità che comportavano e comportano le due traversate.

Per combattere gli scafisti di oggi, la misura più ovvia sarebbe di schierare le navi lungo le coste e nei tratti di mare dove il commercio è più intenso per raccogliere i profughi. Qualcosa di simile avveniva con l’operazione Mare Nostrum, che però ufficialmente ha chiuso i battenti. Solo così, fra l’altro, si inaridirebbe alle radici il business milionario che ruota attorno all’emigrazione cosiddetta clandestina (in realtà irregolare perché per il resto si svolge alla luce del sole).

C’è un precedente che può tornare utile come caso di studio. Nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, l’esodo in massa dei boat people dall’Indocina – anche allora dopo una terribile guerra esportata dagli Stati Uniti, non si sa se vinta o persa – non fu sentito o presentato come una “minaccia”. I profughi venivano assistiti e integrati. Pazienza se la buona volontà rientrava nella propaganda anti-comunista. Non risulta nemmeno che chi scampava ai vopos di guardia a Berlino Est lungo il Muro fosse penalizzato e riportato indietro dai governi dei paesi occidentali. Schindler e Perlasca che, senza lucro alcuno e sia pure in un’emergenza del tutto diversa (ma a leggere i giornali anche questa è “epocale”), hanno aiutato tanti perseguitati a “fuggire”, sono addirittura passati alla storia come eroi.

Il Mediterraneo non è più la priorità assoluta sul piano europeo come accadeva solo pochi mesi fa ma resta incombente. Più attuale da qualche tempo è diventato il secondo grande contenitore di profughi effettivi o potenziali: la massa continentale ovest-asiatica che si estende dall’Afghanistan fino al Medio Oriente con lo snodo della Turchia e la pressione sui Balcani attraverso la Grecia. Negli ultimi tempi è la Siria ad aver occupato la ribalta. L’Italia ne risulta più defilata. L’opinione pubblica europea, colpevolmente male informata, si è trovata davanti un fenomeno inatteso. È da anni che i siriani fuggono a milioni dal loro paese per scampare alle violenze della guerra scoppiata nel 2011. Finora essi sono rimasti stanziati soprattutto in campi di raccolta ai confini con la Turchia e nei paesi arabi vicini. Il travaso verso ovest è la conseguenza del modo in cui è gestita la guerra aerea e terrestre in corso in Iraq e Siria contro lo Stato islamico (nonché contro il regime di Assad).

Il “tappo” è saltato soprattutto per effetto della disgregazione della Siria dopo quella dell’Iraq a seguito della guerra anglo-americana del 2003. I due Stati che ospitano le capitali dei Califfati storici, Damasco e Baghdad, rischiano di scomparire. Nel vuoto spicca la vitalità delle comunità curde, che hanno acquistato dei titoli di merito combattendo contro le milizie con le bandiere nere del finto “califfo” per difendere le loro case e i loro campi, da Mosul a Kobane. Preoccupano però i rapporti che esse intrattengono con le organizzazioni che rivendicano la formazione di quella patria curda che fu prevista e poi cancellata dagli accordi dopo la Prima guerra mondiale sulla sorte dell’ex Impero Ottomano e che sarebbe destinata a sovvertire i confini di tre o quattro Stati del Medio Oriente. La Turchia non è più tanto disposta a fare da filtro e allevare quasi in casa un esercito che potrebbe minacciare i propri delicati equilibri interni. La dichiarazione di guerra all’Isis di Erdogan, che ha messo intanto a disposizione dei bombardieri americani tre basi in territorio turco, è stata, almeno in parte, una copertura della guerra con il Pkk, chiudendo per il momento una lunga fase di convivenza e interrompendo bruscamente le trattative che avevano coinvolto anche Očalan dal carcere in cui sconta una condanna a vita.

La stessa Grecia, dopo l’ultimo accordo con l’Unione europea, ha cambiato politica. Invece di trattenere i profughi (le stime ufficiali indicavano in 50.000 all’anno i migranti arrivati in Grecia e mai partiti), per non provocare partners già mal disposti nei suoi confronti, impiegando anche misure restrittive molto vicine alla persecuzione (il 60% dei detenuti in Grecia è o era costituito da stranieri), ha instaurato una specie di via di transito che riversa migliaia di persone verso i Balcani. Da qui la sequenza che ha coinvolto la Macedonia, la Serbia e l’Ungheria e più in generale l’Europa centrale.

L’allargamento dell’Unione europea ai paesi dell’Est, che evitò sicuramente una lunga transizione dal “socialismo reale” al capitalismo liberale, rivela ormai troppe criticità. Manca solo la voce di un innocente che proclami che “il re è nudo” per mettere in crisi tutta la costruzione. La xenofobia può anche avere giustificazioni storiche ma non per questo può essere accettata come una regola. Calais e la Manica non hanno nemmeno la scusante della Cortina di ferro. Ancora più dei provvedimenti di chiusura presi dai governi fa scandalo il consenso che sale dal basso, anche in occasione delle elezioni, in un misto di cinismo, timore e risentimento.

Dentro e fuori l’euro, si credeva che l’Unione europea avesse dei principi politici e morali oltre ai vincoli di bilancio. Sotto l’urto dei profughi, sono saltati capisaldi che parevano inamovibili come la Convenzione di Dublino sul primo accesso e la libertà di transito nello spazio europeo previsto dal meccanismo di Schengen. In più, sono stati seppelliti, quasi formalmente, i “valori europei” scritti a lettere dorate in tutti i documenti prodotti in più di mezzo secolo dai Trattati di Roma in poi. Se può consolare, non è solo l’Europa, a tradire l’immagine “buona” dell’Occidente. Australia e Stati Uniti sono più o meno allineati al ribasso. La campagna elettorale di Trump è una rivelazione da non sottovalutare.

C’è una coincidenza quasi perfetta fra le terre di provenienza dei profughi e le terre in cui hanno imperversato le guerre esportate dagli Stati Uniti con la complicità dell’Europa. In Libia l’Europa ha persino indotto Washington a partecipare a un conflitto in cui l’inquilino della Casa Bianca non credeva fino in fondo. L’impotenza dell’Occidente risalta in tutta la sua gravità proprio perché esso sembra disporre ormai solo di strumenti militari, rinnegando o dimenticando le preziose risorse del soft power. Sulle colonne del «Corriere della sera» (14 settembre) Angelo Panebianco vede una realtà tutta sua e lamenta la riluttanza dell’Europa a ricorrere alla forza spiegandola con i troppi anni di desuetudine alla guerra. Una simile lettura cancella d’imperio le guerre in Algeria e Vietnam, o di Suez, veri e propri facsimili del bellicismo dilagato non appena sono venuti meno i freni e le auto-restrizioni del bipolarismo. I politologi, anche i più bravi, hanno il vizio (epistemologico) di fare a meno della storia.

Il circolo vizioso delle guerre si autoperpetua anche se l’obiettivo è un movimento o una fattispecie che nessuno a parole difende come l’Isis e in genere il “terrorismo” (termine che non si adatta fino in fondo proprio all’Isis). Se può avere un senso non continuare sempre e solo a recriminare contro le guerre intentate dal giovane Bush, proseguite a vario titolo o chiuse malamente da Obama, non ha sicuramente senso riproporre la stessa strategia che è fallita ovunque (persino nel Kosovo, anche se in Italia non se ne parla volentieri per non imbarazzare D’Alema). Anche i bombardamenti degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna uccidono e distruggono. Ogni raid dei droni americani per “neutralizzare” – in Pakistan, Yemen, Somalia e nel campo di battaglia a cui è stata ridotta la Mezzaluna fertile – il capo di una formazione nemica non è solo una violazione della legalità internazionale (e in qualche caso persino della legge americana): causa numerose vittime collaterali fra i civili rinfocolando la confusa avversione per l’Occidente che l’Isis sfrutta a suo vantaggio anche per il reclutamento di combattenti in Europa o nel Maghreb. Partire per l’Europa non è necessariamente un atto d’amore, può anche essere una rivalsa. Senza sbocchi politici credibili – e i recenti avvenimenti in Egitto dimostrano che le elezioni nei paesi in transizione non sono un’alternativa credibile – le frustrazioni delle masse e degli individui diventano un’arma impropria al servizio di cause che possono anche essere aberranti. Le difese che una volta proteggevano i ricchi e potenti signori del Centro dalla rabbia degli esclusi e degli oppressi della Periferia sono ormai inefficaci. È così che crisi che avvengono in posti remoti hanno ricadute ovunque.

Il bambino, fortunatamente vivo questa volta, che ha detto alla televisione «Fermate la guerra in Siria e non verremo più», non importa quanto spontaneo fosse, è stato più efficace di tanti inutili talk-shows. Si era sempre saputo che la sua centralità faceva della Siria il fulcro del processo scatenato dalle Primavere arabe. Quella frase ha ricordato a tutti l’insostituibilità della diplomazia, non a caso sprezzata da Panebianco. Nessuno si illude che una ricomposizione in Siria (come in Libia, dove almeno l’Onu ci prova) sia un processo facile. L’identificazione fra la Siria e l’apparato di potere del Baath, che ha creato nel tempo una rete pressoché inestricabile fra Stato, regime e società, rende Bashar al-Assad un’opzione che non può essere ignorata nella fase negoziale. Non tutti sono disposti a riconoscerlo e a prenderne atto. Obama ne ha un brutto ricordo, eppure il precedente del 2013 per le armi chimiche siriane indica che si può sempre provare. Ovviamente, non si potrà prescindere da interlocutori come la Russia e l’Iran uscendo dal petit comité di una Nato appena un po’ allargata fatto passare per “comunità internazionale”. Prima verrà impegnato nella gestione delle crisi e più il regime degli ayatollah si svincolerà dai mezzi impropri con cui aiuta i suoi proxies nella regione, dal Libano allo Yemen. I governi arabi, per non parlare di Israele, devono abituarsi a un Iran non espansionista e belligerante ma integrato nell’ordine regionale in funzione della stabilità e degli scambi, che tornano utili anche a Teheran.

La passività dell’Europa davanti a queste urgenze diventa sempre più imbarazzante. I sermoni di Scalfari ogni domenica su «la Repubblica», ma anche le generose iniziative di Laura Boldrini con i presidenti di alcune Assemblee di paesi europei, tengono viva l’illusione che la questione migratoria può essere l’occasione giusta per riproporre con forza la necessità dell’unità dell’Europa in senso federale. Evidentemente nessuno si sente abbastanza laico da dichiarare una volta per tutte che uno Stato europeo non esiste e non esisterà ancora per molto tempo. A questo punto, rivolgersi a Bruxelles – o a Berlino in quanto capitale dell’Europa “reale” – rischia di essere solo una perdita di tempo. Le quote d’accoglienza su cui puntava anche l’Italia sono state accantonate. In compenso, è stata rilanciata la bella idea dei Blitz contro gli scafisti, che o sono impossibili o sono a loro volta criminogeni.

Come è avvenuto per il trasporto degli schiavi in America (è questa, se mai, l’assonanza fra la tratta ieri e il traffico di esseri umani oggi), l’emigrazione alla volta delle cittadelle industriali e post-industriali dell’Occidente è “chiamata” da una domanda di lavoro che i residenti degli Stati europei e degli Stati Uniti (ma anche della Russia post-sovietica, dove i caucasici e in futuro i cinesi, temuti gli uni e gli altri benché per ragioni diverse, riempiono i vuoti aperti dalla crisi demografica in atto) non possono o non vogliono soddisfare per ragioni di numero ma anche per come sono evoluti gli stili di vita. La schiavitù nel Nuovo mondo risolse il problema della manodopera nelle piantagioni in un momento in cui non era disponibile nessun’altra alternativa. Non è escluso che sullo sfondo premano anche oggi le stesse correlazioni. Se per avventura il Messico domani diventasse una Svizzera con le piramidi Maya, gli Stati Uniti – che hanno edificato a titolo dimostrativo un muro di sbarramento sul confine del Rio Grande dando qualche idea prima a Israele e quindi ai dirigenti dell’Europa dell’Est – dovrebbero cercarsi da qualche parte un altro Messico per continuare a beneficiare di un afflusso di migranti a basso tasso di costi e di diritti.

Drammatizzare e militarizzare il problema dell’immigrazione è un espediente in più per diffondere paura e impedire un’eventuale solidarietà trasversale fra cittadini ed emigrati in una fase di contrazione forse inarrestabile del lavoro, dei diritti e dei salari. Potrebbe essere l’obiettivo a cui più o meno consciamente si prestano i partiti che nei nostri paesi vengono classificati di destra, colmando una carenza di rappresentanza del disagio dei più deboli da parte della sinistra. Oltre ad avviare una competizione economica su scala mondiale giocata a spese dei lavoratori, la globalizzazione, duplicata da forme sempre più articolate e invasive di “regionalizzazione”, sta riducendo sempre più le capacità degli enti intermedi come lo Stato, con le sue credenziali democratiche, di ordinare l’economia e la politica. La politica – proprio perché l’emigrazione è un tema complesso, difficile da “governare”, con risvolti che riguardano la storia, il diritto, l’economia, la sociologia, la psicologia individuale e collettiva – ha il dovere di studiare il modo migliore di convivere con un fenomeno per molti motivi destinato a durare coinvolgendo i partiti, i sindacati, le chiese, la scuola, i media e la cultura in un dibattito serio e documentato.

Ci voleva papa Francesco per dire a chiare lettere che l’emigrazione, come le altre crisi del nostro tempo, al pari per esempio del cambiamento climatico, è il prodotto di una diseguaglianza strutturale. Senza attaccare i nodi dello sfruttamento a favore di pochi, non si riuscirà a veder le stelle. Una solidarietà vera con i profughi, al di là del gesto umanitario comunque meritorio, implica prendere le distanze dal “potere” che è responsabile in ultima istanza di quel fenomeno, mettendo in discussione per ciò stesso dalle fondamenta il sistema che predomina in Europa e nel mondo.