di Raffaele Tedesco
Anche i Giochi di Rio 2016 hanno chiuso il loro sipario. E, siccome ci hanno insegnato che show must go on, già sappiamo che nel 2020 sarà Tokyo a ospitare la fiaccola, mentre per Roma si deciderà se dedicarsi alla costruzione degli impianti o alla riparazione delle buche stradali.
Insomma, ridendo e scherzando, siamo già proiettati verso i XXXII Giochi olimpici moderni, la cui storia ci aiuta bene a capire che lo sport non è affatto solo un gesto atletico o tecnico con cui si compete con altre persone, ma un fenomeno sociale complesso e dalle molte “capacità rappresentative”. Difficilmente un “mezzo neutro”, e spesso un “veicolo” per qualcosa o qualcuno.
In mezzo a questi centoventisei anni (da Atene 1896), c’è un’edizione non annoverata negli annali del Cio, e della quale ricorre il settantesimo anniversario. È un’olimpiade di cui non si conoscono i risultati tecnici e in cui non sono state distribuite medaglie di alcun conio. Qualcuno l’ha definita, amabilmente, «l’olimpiade dell’utopia», forse perché l’uomo ha sempre pensato un “mondo ideale” concepito in antitesi col “mondo reale”, o, forse, perché utopia è “non luogo”, quindi rappresenta “l’impossibile”. Infatti, questi giochi “impossibili” non si sono mai svolti. L’utopia, come vorrebbe Mannheim, non ha trasceso la realtà in direzione rivoluzionaria.
Stiamo parlando delle «Olimpiadi popolari», che si sarebbero dovute tenere nella Barcellona anarchica, socialista e democratica dal 19 al 26 luglio del 1936, e con lo scopo di essere una contromanifestazione rispetto ai giochi olimpici organizzati da Hitler a Berlino.
Era il tempo della vita breve dei Fronti popolari, e di fascismi e nazismi ormai divenuti una tremenda realtà. Lo sport non era più considerato, a sinistra, come un «vizio borghese» (Turati) e K. Kautsky, già nel 1900, aveva posto il problema della «rigenerazione fisica del proletariato per sconfiggere uno dei principali nemici del socialismo: l’alcoolismo». Uno sforzo imponente, voluto dall’unico paese che, insieme all’Urss, decise di boicottare quelle olimpiadi naziste, da cui gli atleti ebrei tedeschi, con l’unica eccezione della fiorettista H. Mayer, erano stati esclusi.
Il Cio, che aveva scelto Berlino quando la Germania era ancora una Repubblica democratica, non cambiò la sua decisine con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo. E dopo un mondiale di calcio affidato, senza colpo ferire, a un paese fascista (Italia 1934), ecco che i vessilli di mezzo mondo sfilarono, nello spettacolo organizzato dal “genio creativo” di Goebbels, sotto lo sguardo compiaciuto di Hitler.
Se spesso è difficile ricostruire ciò che è stato, descrivere quello che non è mai avvenuto è impossibile, se non ricorrendo all’immaginazione di quello che sarebbe potuto succedere in una manifestazione “senza nazioni” e senza nazionalismi, dove l’unica bandiera sarebbe stata quella rossa e l’unico canto l’Internazionale. Seimila atleti provenienti da ventidue paesi, tra cui gli ebrei della società sportiva Hapoel di Tel Aviv; discipline “classiche” accanto a competizioni “alternative”, come gare di scacchi, danze popolari, musica e teatro; la libertà per gli atleti delle colonie africane di poter partecipare senza l’obbligo di farlo sotto le bandiere dei loro dominatori.
Il perché i giochi non si tennero è ascrivibile a un evento storico che tutti conoscono: il golpe del fascista Franco, e la conseguente guerra civile.
A ricordo di quelle olimpiadi mai avvenute rimangono pochi manifesti, qualche foto e il valore di molti atleti che rimasero in Spagna a tentare di resistere all’avanzata franchista. A Barcellona, al posto della cerimonia di apertura dei giochi, si alzarono le barricate per difendere la libertà e la democrazia.
Non ci sono record da ricordare e medaglie da celebrare. È vero, “non c’è stata partita”. Ma ciò non vuol dire che “non ci sia stata storia”. Anzi. Di certo, sarebbe stato meglio sfilare insieme a Buenaventura Durruti, che sotto il braccio teso di Hitler. Meglio la scomposta allegria delle ramblas, che il passo dell’oca nazista.
Ancora alcune “piccole” curiosità. Forse, per non perdere l’abitudine all’ambiguità, il presidente del Comitato internazionale olimpico (Cio), per ventuno anni (1980-2001) è stato Juan Antonio Samaranch, un ex ministro franchista.
Le Olimpiadi popolari, come ho detto, non si disputarono per un golpe tramutatosi in guerra. Anche nel Brasile di Rio 2016 c’è una situazione politica molto instabile, tanto che qualcuno parla apertamente di «golpe di velluto». A Barcellona, nel 1936, doveva esserci una rappresentativa di rifugiati politici, cosa che è avvenuta, meritoriamente, a Rio 2016. Con la differenza che lí, a Barcellona, la squadra dei rifugiati era composta soprattutto da italiani che fuggivano dal fascismo. Ad maiora