di Marcello Rossi
«È un errore ed un pregiudizio credere che il basso salario giovi ai progressi dell’industria; salari bassi significano cattiva nutrizione, e l’operaio mal nutrito è debole fisicamente ed intellettualmente, ed i paesi ad alti salari sono alla testa del progresso industriale. Si lodava […] come una virtú la frugalità eccessiva dei nostri contadini: anche quella lode è un pregiudizio: chi non consuma non produce. […]
Quando il Governo […] interveniva per tenere bassi i salari, commetteva una ingiustizia, e piú ancora un errore economico ed un errore politico. Una ingiustizia, perché mancava al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe in favore di un’altra. Un errore economico, perché turbava il funzionamento della classe economica della domanda e dell’offerta, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Ed infine un errore politico, perché rendeva nemiche dello Stato quelle classi che costituiscono la grande maggioranza del paese»[1].
Chi parla è Giovanni Giolitti in un memorabile discorso (4 febbraio 1901) con cui abbatté il ministero Saracco. Questa risoluta presa di posizione di fronte al problema sociale, per quanto rappresentasse il nuovo indirizzo della politica del governo liberale di Zanardelli prima, e dello stesso Giolitti poi, fu accolta dai benpensanti come una provocazione. Era infatti per loro l’inizio di una politica socialista. Il Missiroli, che allora dirigeva il «Corriere della sera», parlò addirittura di una «monarchia socialista». Per Giolitti, in realtà, politica non socialista ma di favore ai socialisti, per il vantaggio che essi avrebbero arrecato alle istituzioni liberali, facendo rientrare nella dinamica governativa le masse operaie acquetate nelle loro aspirazioni e rivendicazioni. Politica conservatrice quanto mai, ma di un conservatorismo particolare che aveva compreso di dover cedere spontaneamente quanto gli stava per essere tolto con la forza, pronto a riprendersi il tutto quando l’avversario avesse dato segno di aver perso lo slancio offensivo. E Giolitti questo fece.
Tuttavia questo incipit sulla politica giolittiana non vuole aprire un discorso sullo statista piemontese né prendere in esame l’azione dei socialisti italiani di primo Novecento. Il rimando a Giolitti è avvenuto per associazione di idee e fondamentalmente in contrapposizione a ciò che oggi sta accadendo. La logica odierna della conduzione delle industrie è infatti giocata tutta quanta sul contenimento dei salari e ancor piú sull’idea che per un risanamento occorra mettere in mobilità, o addirittura licenziare, gran parte delle maestranze. Gli esempi non mancano. Non entro nel particolare perché ogni industria che si ritenga tale – e che cioè non sia una piccola attività a conduzione familiare che, non so per quali dinamiche sociologiche, oggi è chiamata industria e non bottega artigianale – ha usato di questi strumenti. Comunque credo che non si possa non parlare dell’Ilva che a Taranto ritiene che siano in esubero 6.000 lavoratori e a Genova 1.500; di Piombino, dove non si riesce a far ripartire la produzione; dell’Alitalia che per rinnovarsi ancora – dopo aver già fallito un “rinnovamento” berlusconiano – pretende di mandare a casa 3.000 lavoratori; dell’Alcoa (Aluminum Company of America), terza produttrice di alluminio nel mondo che a Portovesme, nel Sulcis, chiude i battenti per quanto gli esperti sostengano che il suo alluminio è il migliore del mondo e le commesse non manchino. E potremmo continuare con gli esempi perché oggi in Italia circa 20.000 lavoratori dell’industria (o di ciò che rimane dell’industria) rischiano di perdere il lavoro nell’idea dei padroni (pardon, dei datori di lavoro) che sia fondamentale rispettare le “inderogabili” leggi del mercato.
E la sinistra? La sinistra discute dei voucher che, oggettivamente, che ci siano o non ci siano per l’economia del paese è abbastanza indifferente; della legge elettorale, su cui non resta che stendere un velo pietoso; del ritorno di Prodi – un vecchio arnese democristiano – alla guida del governo. Quanto tutto questo serva a quei 20.000 lavoratori di cui sopra ognuno può immaginare. E allora? Allora, a questi lavoratori servirebbe ben altro. Servirebbe che si desse corso all’art. 35 della Costituzione («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni») e all’art. 36 («Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»), in barba alle “inderogabili” leggi del mercato. Ma non ci illudiamo: l’applicazione di questi due articoli comporterebbe una repubblica ben altrimenti diversa da quella odierna e diversa anche da quella che per quasi cinquant’anni fu in mano alla Democrazia cristiana che, non a caso, demandò la tutela del lavoro e la retribuzione del lavoratore alla Confindustria.
Dunque, una repubblica che “socializzi”, una repubblica “socialista”, ma non di quel socialismo statalista cui alludeva Missiroli. Al lavoratore, in quanto salariato, poco importa se il padrone è lo Stato o il privato: l’illusione della proprietà collettiva non lo compensa certo delle difficoltà economiche e sociali che è chiamato ad affrontare. Sarebbe interessato, invece, a un’effettiva e continua partecipazione alla gestione economica dell’impresa, al suo controllo, al godimento equo dei profitti.
E tutto questo non coincide con la ragion d’essere della sinistra?
[1] G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945, p. 164 ss.