di Marco Gatto
Il revival operaista è ormai sotto gli occhi di tutti: il successo internazionale raggiunto da Toni Negri, il riconoscimento dell’importanza filosofica di Mario Tronti, i tentativi di innestarne la teoria politica sul post-strutturalismo di marca deleuziana, la proliferazione accademica di discorsi teorici fondati sull’autonomia e sulla soggettività rivoluzionaria, e via dicendo, segnano un orizzonte culturale in cui l’operaismo ha conquistato una rilevanza impensabile fino a qualche decennio fa. Si coglie, persino, una sorta di euforia galvanizzante nei sostenitori di quella stagione, oggi alfieri del post-operaismo: una narrazione culturale in cui i filosofi-politici diventano eroi titanici, scrivono ponderose autobiografie, diventano senatori dalla parte sbagliata, e nella quale la classe operaia è vista come una sorta di leggenda o di racconto delle origini.
A questa creazione dal nulla di un mito filosofico il nostro paese non è estraneo: chi si ostina, oggi, a riconoscere una supposta differenzialità teoretico-geografica nella tradizione filosofica italiana sembra servire, senza neppure troppi problemi, logiche forse eccessivamente somiglianti a quelle del mercato culturale più ordinario. Ogniqualvolta venga fuori dal niente un’identità costruita a tavolino, non possono che affiorare preoccupazioni. Nel caso dell’operaismo, il profluvio di pubblicazioni entusiastiche fa sorgere il sospetto di un’integrazione sin troppo facile di questo fenomeno nei discorsi culturali: per paradosso, la sua legittimazione intellettuale sembra svuotare il peso politico di libri pur importanti come Operai e capitale, che andrebbero invece vivacemente discussi alla luce della loro compromissione col percorso – a essi successivo – del capitalismo postmoderno (e delle vicende politiche italiane a esse legate: dal Settantasette fino al berlusconismo). Il fatto che quella stagione possa dirsi conclusa, perché in fondo strategicamente sbagliata, ha oggi poca importanza: mantenuta in vita attraverso i funambolici percorsi teoretici delle filosofie della differenza e della decostruzione, la sua vacuità politica viene sommersa dalla sua legittimazione culturale o dalla facilità con cui i suoi portati concettuali trasmigrano nel mercato delle mode teoriche. L’idea che potesse darsi un’eccedenza interna al capitale, capace vieppiù di autonomia e di consapevolezza politica, ha dovuto necessariamente riformularsi nel momento in cui quella stessa eccedenza era divenuta la regola del capitalismo. Che sia sopravvissuta solo a livello intellettuale, lo testimonia il destino politico dei suoi principali sostenitori.
Nonostante l’idea della fine del lavoro abbia trovato una sua conversione amministrata nelle nuove forme di flessibilità, e nonostante gli esiti dell’attuale capitalismo rimettano in discussione la possibilità che venga a costituirsi, al suo interno, una soggettività rivoluzionaria, il racconto mitico-politico di un soggetto preposto alla rivoluzione continua a essere presente in ambito culturale, producendo diagnosi del tutto miopi. Il punto è che l’aggiornamento teorico dell’operaismo – quel misto di deleuzismo, lacanismo e post-marxismo tanto in voga in Occidente – ha riprodotto lo stesso vizio di quella filosofia da cui prendeva le mosse: volendo incarnare l’assoluta e radicale alternativa al capitale, mimandone il percorso, ha finito col ricadere nelle sue stesse logiche, candidandosi a essere una dimostrazione delle capacità del neoliberismo e della sua strategica inclusione dell’eccedenza entro un sistema che fonda tutto se stesso sull’eccesso. Le forme di libertà garantite dalla soggettivazione maturata in virtù delle continue rivoluzioni tecnologiche si mutano ben presto in forme accettate di asservimento e di manipolazione, di assoggettamento al sistema. Ciò riflette ragioni di distinzione teorica: l’assoluta radicalità del post-operaismo fa il paio con l’assoluto rifiuto di analisi provenienti da altre tradizioni di pensiero. Il fatto che Deleuze (con i suoi attacchi alla dialettica) sia divenuto il punto di riferimento del dibattito politico a sinistra la dice lunga sul fascino di una filosofia che, volendo praticare la differenzialità più radicale dalle logiche sistemiche, dimentica il momento in cui essa stessa si fa sistema e i suoi prodotti concettuali riproducono i portati più evidenti del neoliberismo. Quel che non permette al post-strutturalismo di elevarsi a coscienza dei suoi errori, costringendolo ad avvitarsi sulle questioni che solleva, è l’incapacità dialettica o, per essere più precisi, il rifugio su un supposto piano di pura immanenza (che è una nuova forma di metafisica). Ciò non toglie che possa esservi, in qualche frangente, l’espressione più genuina di una consequenzialità politica immediata: sta di fatto che la soggettività messa in campo da Deleuze si sposa perfettamente con le esigenze di un sistema economico che lavora alla distruzione permanente del soggetto e delle sue possibilità di orientamento attraverso la coazione alle logiche distrattive del mutamento e della differenziazione. Non può esserci futuro a sinistra se non si rimettono in circolo concetti che il deleuzismo, nella foga di opporsi al pensiero dialettico, ha contribuito a liquidare.
Non bisogna poi dimenticare che il tentativo di reincarnare l’operaismo trontiano nelle ambivalenti figure del post-strutturalismo si inquadra in una dimensione ulteriore. Quella della più generale manomissione del pensiero marxista. Il quale, a partire dalla svolta althusseriana e dalla sua eredità democratico-radicale, è stato accuratamente addomesticato come bene culturale o come sterile riferimento scientifico. La destrutturazione del marxismo e la sua annessione al pensiero postmoderno, favorita dall’esplodere di discorsi teoretici e di sinergie disciplinari spesso infelici, descrivono un contesto in cui le categorie ereditate dalla tradizione sono virtuosamente rimesse in gioco proprio dal capitale. Cosicché, il significato di un termine come “autonomia”, che sta alla base della riflessione di Tronti, viene facilmente coperto e convertito in articolazioni semantiche del tutto nuove, che ne svuotano l’originaria forza. Agitare il feticcio dell’autonomia, in nome del post-operaismo o da una prospettiva fintamente materialistica, significa lasciarsi condizionare dalla ri-alfabetizzazione concettuale operata dal sistema capitalistico, nel quale, oggi, la rivendicazione autonomistica obbedisce alle leggi più generali della frammentazione e della dispersione di senso – quelle stesse per cui la macchina dell’accumulazione può dispiegarsi senza apparenti contraddizioni. E tale riconversione – che concerne la nostra idea di libertà, di democrazia, di legame sociale, ecc. – ha una forza pervasiva unica nel suo genere, una tensione dialettica del tutto originale: riesce ad annettere alle proprie logiche, senza che vi sia una trasformazione evidente, ciò che un tempo appariva come contrastivo (e che come tale appare ancora in superficie). Si desidera l’autonomia: ed ecco che il capitale è pronto a concederla, senza battere ciglio. Cosicché la filosofia antisistemica può dirsi conservata e salvata proprio perché antisistemica, ma, in verità, innocua come tutte le altre mode culturali.
Da vero “sismografo” (per dirla con Adorno), l’architettura ha anticipato processi sociali e svolte persino epocali. Non avremmo teorizzato la postmodernità senza Las Vegas. Un recente e prezioso contributo di Pier Vittorio Aureli ci suggerisce che il destino concettuale e politico dell’autonomia possa essere studiato attraverso i percorsi del pensiero architettonico italiano. Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo (Quodlibet, Macerata, 2016) parte da un assunto che si può condividere (e che rimonta alla riflessione di Cornelius Castoriadis): posta l’assoluta sterilità dell’integrazione del pensiero dell’autonomia nell’orizzonte della postmodernità, occorre riabilitarne (contro le coperture capitalistiche cui prima si accennava) il senso e ricostruire «la pratica dell’autonomia come dimensione originaria della politica» (p. 16), ossia come capacità di un soggetto collettivo di rapportarsi in modo cosciente con il potere che lo governa. Il fatto che un rapporto critico tra soggettività politica e potere non possa oggi darsi dipende in larga misura dagli interventi effettuati sulla capacità del soggetto di rendersi consapevole della sua posizione. Basterebbe già questo per porre un primo problema: senza la precondizione di un soggetto pienamente consapevole e riconosciuto, cioè capace di liberarsi dalle pulsioni più agguerrite della macchina capitalistica, è difficile, in termini di strategia politica, realizzare la possibilità di una lotta tutta interna al capitale condotta con le armi stesse del capitale. Quella soggettività rivoluzionaria che il progresso tecnologico avrebbe costituito come naturalmente antagonista soggiace oggi al principio di prestazione: la supposta liberazione mediante accoglimento delle possibilità di progresso offerte dal capitale si è mutata in una sorta di consapevole servaggio o di volontaria prigionia. «Attraverso la libertà individuale» il soggetto del neoliberalismo, scrive in un recente contributo Byung-Chul Han, «realizza la libertà del capitale» (Psicopolitica, Nottetempo, Roma, 2016, p. 12), una libertà fatta di sfruttamento volontario, di una prestazione giornaliera che mira a un’autoproduzione illimitata del soggetto, il quale, anziché sperimentare il legame sociale come momento di riconoscimento e di autoriconoscimento, rivolge la sua attenzione solo alla propria irriducibile eccedenza, lavorando alla costruzione di essa.
In tal senso, viene meno anche la possibilità di un’autonomia della prassi politica: nella sua furia distruttiva, il capitale depoliticizza mediante le proprie forme di aggregazione ed elide il momento della formazione coscienziale del soggetto e di una collettività politica. Diventa pertanto difficile quella dialettica tra “dentro e contro” che Aureli evoca nel sottotitolo del suo libro. Ed è estremamente interessante notare come le contraddizioni della strategia trontiana (che confermano, tuttavia, una sua ricchezza teorica) vengano messe a nudo nelle riflessioni di Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e di Archizoom, e nelle loro scelte, di cui il testo di Aureli propone un’utile ricapitolazione. Costruire la differenza e l’autonomia nello spazio della città significa per Rossi e Tafuri de-ideologizzare la professionalità dell’architetto e, nello stesso tempo, provare a innestare nella dimensione urbana e moderna momenti radicali e persino “illuministici” di riappropriazione. Ciò è “figura” di un lavoro politico in cui la dimensione di classe è solo una possibilità perché la differenziazione dalla città capitalistica è praticata, diremmo, in modo riformistico, cercando un’alternativa nel solco della tradizione borghese. I membri di Archizoom, al contrario, riflettono in modo più netto le mosse dell’operaismo: introdurre nella razionalità della città capitalista quegli elementi che ne potrebbero scalfire il tessuto, mirando subito a una progettazione “di classe” che ascriva a un soggetto antagonista predeterminato le «conseguenze urbane più estreme» (p. 125). L’obiettivo è, per Archizoom, quello di sfuggire al controllo del capitale, di aggirare il rischio della neutralizzazione (forse più evidente nella scelta riformistica di Rossi) e di porsi, in qualche modo, nei panni stessi del “controllore”, di sostituirsi al potere capitalistico. Un desiderio, quello di “diventare il capitale”, da cui gli operaisti non furono certo immuni.
E tuttavia, come Aureli nota, la «costruzione di questo soggetto fu però travolta dagli ulteriori sviluppi del capitale» (p. 133), che condussero anche l’architettura a un’accettazione della vulgata postmoderna, a una rinuncia al senso sociale e alla proposta politica. Certamente, in ambito filosofico, il potenziale dell’operaismo venne attenuato dall’incontro (voluto e cercato) con il pensiero negativo e con le successive filosofie postmoderniste. Il ritorno attuale ai concetti trontiani si può leggere, come abbiamo visto, attraverso le lenti della contraddizione: un radicalismo che si sposa perfettamente al momento confusionario amministrato dall’attuale sistema culturale. Aureli – cui comunque starebbe a cuore una discussione sul lascito del pensiero operaista e dell’autonomia – è ancora più netto: fatti salvi i contributi di studiosi e militanti come Paolo Virno e Christian Marazzi (per citarne solo alcuni), che hanno favorito il rilancio di questioni interne alla critica del sistema produttivo, «il rischio del post-operaismo è proprio quello di limitarsi a essere un colto riferimento per una accademia stanca del girare su se stesso del post-strutturalismo» (p. 139). In particolare, la declinazione postmoderna dell’autonomia ha fortemente minato la possibile ripresa di un concetto di lotta “dentro e contro” il capitale. Se non altro, aggiungo, essa ha ostacolato una discussione genuina su cosa l’autonomia sia divenuta in un tempo in cui la frammentazione, la partizione e la differenziazione incontrollata sono diventate condizioni necessarie allo sfruttamento capitalistico. Nutro seri dubbi sul fatto che si possa riabilitare il concetto di autonomia ripartendo dalla necessità di trovare una nuova soggettività rivoluzionaria: il capitalismo ha, in qualche modo, superato la teoria politica nella capacità di anticipare e gestire l’eccedenza antagonistica. Aureli è forse più ottimista nel dire che «proprio nel momento in cui il capitalismo stesso nella sua tarda forma neoliberista, non sembra più in grado di badare né ai suoi subalterni né tantomeno a se stesso in quanto sistema di governo, diventa allora urgente e necessario cercare nuovi modi di pensare e costruire una nuova soggettività politica che non sia vittima né dei facili entusiasmi movimentisti, né del vuoto moralismo dell’austerità post-crisi» (pp. 140-141). Resta la necessità di riformulare i concetti in campo. E sarebbe già questo un lavoro teorico da onorare al meglio delle nostre possibilità.