Nella nuova collana “In breve” di Manifestolibri è disponibile Al mercato delle illusioni. Lo sfruttamento del lavoro gratuito: un volumetto di Marco Bascetta che, con la sua prosa concettualmente densa e insieme pungente, interviene sul fenomeno del lavoro ottenuto a costo zero o quasi zero, in cambio di una promessa di assunzione futura, o nella ricerca di uno status da parte di giovani e meno giovani condannati al “welfare familiare” – espressione truffaldina dietro cui si cela il semplice essere mantenuti (per quanto tempo ancora?) dalla famiglia. Oggi in Italia interi comparti, come l’università e l’editoria, non si reggerebbero senza l’erogazione di prestazioni gratuite, che per la loro specificità – non ultima quella di collocarsi dentro una feroce ideologia meritocratica e competitiva – rendono molto difficile qualsiasi forma di lotta da parte della forza lavoro.
Nei suoi caratteri generali il fenomeno è ascrivibile alla inesorabile perdita di centralità del luogo fisico della fabbrica, in cui il lavoro salariato può organizzarsi nel rapporto conflittuale con il capitale a partire da una sindacalizzazione basata sulla vicinanza e la solidarietà tra i lavoratori. La prospettiva di uno “sciopero sociale” del lavoro gratuito e precario, cioè di una forma di lotta messa in campo da soggetti tra loro divisi e dispersi sul territorio, sarebbe oggi piuttosto la conquista di una consapevolezza immediatamente utopica riguardo alla intollerabilità delle condizioni di vita in un mondo che, ormai da tempo, è avviato sulla via di uno sviluppo tecnologico in grado di liberare dalla fatica mentre, al contrario, riproduce l’asservimento. In un tipico gioco dell’oca, direi, l’ultramodernità contemporanea risospinge verso la casella dell’utopia, quella che Marx aveva pensato di lasciarsi alle spalle.
Nell’analisi marxiana, puntualmente ricordata da Bascetta, non mancano certo le considerazioni sulla gratuità: la riproduzione della forza lavoro, in particolare attraverso il lavoro domestico affidato alle donne, ne è un esempio; più in generale, la stessa erogazione di un pluslavoro, basato su una parte di tempo della prestazione non pagata, è ciò che permette la valorizzazione del capitale attraverso il plusvalore. Ciò presuppone comunque una manodopera libera sul mercato: sarebbe questa, secondo Marx, la dose di “progresso” introdotta dal capitalismo rispetto ai precedenti regimi schiavistici e servili.
Ora, proprio la diffusione di un fenomeno come quello del lavoro gratuito (integralmente tale, non soltanto in una sua parte) mostra che è in atto una trasformazione del mercato del lavoro in cui la compravendita della forza lavoro non è più l’aspetto centrale. Riguardo alla precarizzazione estrema, come pure riguardo alla intensificazione del lavoro nero e sotto caporalato erogato per lo più dai lavoratori immigrati, la teoria “scientifica” dello sfruttamento in quanto “furto del tempo di lavoro” appare ormai fuori fuoco: è piuttosto a forme di vera e propria servitù personale che il capitalismo mette capo. Non si può parlare di sfruttamento nel senso marxiano come di un concetto scientifico. A riprendere quota nell’analisi è per forza di cose il termine, in se stesso più ampio e generico, di oppressione. Il capitalismo è quella formazione economico-sociale che non riesce a mantenere la sua promessa di modernità, ma che, nelle sue condizioni reali, ripropone nel presente il passato dell’oppressione schiavistica e servile. Pur alludendo a ciò, Bascetta non ne trae fino in fondo le conseguenze teoriche.
L’utopia resta l’unica alternativa concettuale disponibile dopo la conclamata fine del “socialismo scientifico”. È una verità a cui il debole sfavillio dello status offerto dal lavoro gratuito richiama indirettamente i nuovi servi – la stessa a cui rinvia, del resto, il fulgore dell’ultraconsumo, particolarmente attraente per chi, fuggendo dagli stenti e dalle guerre, cerca riparo sotto l’ala dell’Occidente, candidandosi a forme analoghe e anche peggiori di servitù.