La stampa quotidiana – come è logico – ha già ampiamente commentato il discorso di insediamento del neopresidente della Repubblica e, salvo poche eccezioni, ha messo in campo tutto il servilismo di cui è capace. In linea, tra l’altro, con l’emiciclo di Montecitorio che, in omaggio alla morigeratezza, ha interrotto con lunghi applausi il discorso presidenziale per ben 42 volte. Di quel discorso non si vuole in questa sede proporre un commento – che risulterebbe superfluo, dopo tutto quello che è stato scritto – ma si vuole solo mettere in luce un passaggio: quello in cui il presidente ha detto che vorrà essere «arbitro imparziale».
Meraviglia che il presidente Mattarella, che tutti descrivono come giurista di rango e fine intellettuale, sia caduto in questo luogo comune tanto abusato dai politici nostrani. Meraviglia perché, se si scorrono gli articoli della Costituzione che riguardano il presidente della Repubblica (artt. 83-91), non si trova mai la parola “arbitro”. E pour cause, secondo me, perché l’arbitro è figura che vive di luce riflessa, mentre i soggetti veramente attivi sono i giocatori. Ma la nostra Costituzione non postula un presidente “neutro” o addirittura “passivo”: il presidente non è il monarca dello Statuto albertino, che regnava ma non governava, né è il monarca inglese, che fonda il suo potere sulla tradizione ed è soltanto un organo di rappresentanza. Nella nostra Costituzione il presidente della Repubblica, ponendosi come mediatore fra i tre poteri fondamentali – il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – costituisce una sorta di ago della bilancia che deve compensare ogni più piccolo conflitto e squilibrio che si venga a delineare fra i tre poteri. Dunque figura assolutamente attiva, mediatore, non arbitro, per evitare – come ricorda Calamandrei – che la politica governativa si indirizzi per vie divergenti dalle direttive politiche prefissate nella Costituzione.
E questo perché la nostra Costituzione è – o almeno dovrebbe essere – una Costituzione programmatica. Programmatica, non nel senso deteriore usato dalla Corte di cassazione – in anni tutti da dimenticare – di insabbiamento del dettato costituzionale, ovvero non come norme di differita applicazione nel tempo, ma come norme precettive di immediata applicazione e proprio al fine di una piena attuazione del disegno costituzionale. Uso in subordine il condizionale perché tutti i governi democristiani della Prima repubblica si sono sistematicamente dimenticati di questa caratteristica e la politica del governo ha battuto sempre vie divergenti rispetto alle direttive prefissate dagli articoli della Carta, tanto che Calamandrei, nel mettere in luce il fenomeno, commentava: «questo è l’assurdo della situazione italiana: che chi si richiama alla Costituzione, fa la figura di essere un sovversivo, che la questura ha l’ordine di tener d’occhio!». E la situazione non è cambiata con i governi berlusconiani e non della Seconda repubblica, con la differenza che chi si richiama alla Costituzione non appare più un sovversivo ma un ingenuo e un illuso. E la cosa è così evidente che ormai si parla addirittura di Costituzione “reale”, volendo con l’aggettivo marcare la differenza fra il dettato degli articoli della Carta e la prassi politica. Al riguardo potremmo portare molti esempi. Basti qui ricordare la sorte che è toccata all’art. 33, terzo comma, che statuisce che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». In realtà lo Stato ha sempre trovato il modo di finanziare, e lautamente, le scuole private, che in gran parte sono quelle scuole cattoliche tanto care alla vecchia Democrazia cristiana e non meno care – se vogliamo stare agli atti – al nuovo Pd. E se volessimo affondare il bisturi potremmo far riferimento al Titolo III della Costituzione, quello in cui si tratta dei rapporti economici. Qui lo iato tra la politica del governo e le direttive fissate nella Carta è enorme perché la politica liberista che il governo incarna è assolutamente contraria a quei diritti sociali che sono il perno della nostra Costituzione. Qui veramente il presidente della Repubblica, se vuole, può arare un campo pressoché vergine e affermare, come ricorda Calamandrei, di essere la viva vox Constitutionis, che è poi – è vano tentar di dimenticarlo – la viva voce della Resistenza.