di Giancarlo Scarpari

[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 3 de Il Ponte – marzo 2014]

veloce marcia dentro le istituzioniIl 10.12.2013, commentando sul «Corriere» Il trionfo di Matteo Renzi, Angelo Panebianco poteva tirare un sospiro di sollievo ed esclamare convinto: «oggi il Pci è davvero finito»; poi, con una punta di rammarico, aggiungeva che il processo non era però ancora concluso visto «l’insperato regalo» fatto dalla Corte costituzionale ai proporzionalisti di quel partito; avvertiva poi il neosegretario di stare bene attento ai «suoi nemici interni», quelli dell’«apparato», consigliandolo di sollevare la questione cruciale dell’«oro del Pci», messo «al sicuro in qualche Fondazione» e che invece doveva essere messo a sua disposizione a sostegno del nuovo corso impresso al partito. E Ostellino, su quelle stesse pagine, alcune settimane dopo, evocando Stalin per ben tre volte in poche righe, identificava quei «nemici» interni nella «sinistra massimalista del Pd», animata da una «vocazione totalitaria», tuttora legata alla «parola d’ordine cominformista: nessun nemico a sinistra» («Corriere della sera», del 28.01.2014).

Articoli del genere, per il linguaggio usato e per le immagini evocate, avrebbero forse trovato collocazione piú appropriata sulle pagine di «Libero» o del «Giornale», ma proprio per questo sono doppiamente interessanti: innanzitutto perché evidenziano come l’egemonia culturale della destra berlusconiana abbia lavorato in profondità, condizionando idee e linguaggio dei “liberali moderati”, trasformando l’ideologia anticomunista in senso comune e promuovendo cosí una radicalizzazione nel paese che alcuni scambiano oggi per un salutare bipolarismo; ma soprattutto perché, depurate dai fumi di quella ideologia, le frasi alludono a un processo reale, alla conclusione di un percorso che non riguarda certo il Pci, un partito morto e sepolto da un quarto di secolo, ma, semmai, il Pd, un partito ibrido sorto dai resti di varie formazioni della sinistra e che mirava a convogliarne le eredità nell’ambito di un piú vasto raggruppamento politico genericamente riformista.

In realtà, già al tempo dei Ds e della Margherita, le rispettive identità erano andate diluendosi, per l’assenza di qualsiasi programma conseguente in grado di renderle concrete; questo vuoto progressivo era stato via via riempito dalla ricerca di nuove ricette, che prescindevano da analisi approfondite e da verifiche empiriche, ma che, offerte con particolare insistenza dal mercato mediatico, venivano recepite acriticamente, talvolta addirittura con entusiasmo.
La flessibilità del lavoro, per esempio, era stata introdotta da Treu al tempo dei governi dell’«Ulivo» ed era diventata precarietà generalizzata sotto quelli di Berlusconi; ma entrambe, pur nella loro diversità, erano però il frutto della stessa logica, già allora dominante, che considerava prioritari gli interessi dell’impresa rispetto ai diritti dei lavoratori e che, contestata a parole, era stata in realtà accolta di fatto all’interno dei maggiori partiti della sinistra.

Ancora piú evidente, poi, era stata l’accettazione delle formule escogitate dagli ingegneri costituzionali per modernizzare l’articolazione dello Stato, sembrando ai piú ormai obsoleta quella configurata dalla Carta del ’48. Spostato da tempo il baricentro dal parlamento al governo, anche le mediazioni tra i partiti che lo componevano sembravano un eccesso (“rallentavano” le decisioni, ne pregiudicavano l’“efficienza”); bisognava semplificare e, mano a mano che la logica pervasiva dell’economia sopravanzava quella della politica e il modello azienda veniva a contaminare la forma partito, la persona del leader si stagliava nettamente dal gruppo dirigente: l’ideologia del maggioritario e le conseguenti leggi che hanno regolato localmente la competizione elettorale sono state il volano di questa trasformazione.

Governatori e sindaci sono divenute cosí le figure emergenti di questa nuova fase. Per vincere sul territorio non era necessario presentare un “programma di partito”, bensí era indispensabile poter contare su di una ramificata rete di alleanze, politicamente variabili e non tutte visibili, cui il leader locale garantiva poi la successiva “governabilità”; e, dovendo convogliare voti da piú parti, l’aspirante leder doveva allentare i legami con il “centro romano” e declinare questa relativa autonomia, privilegiando le cordate alle correnti: si affermava cosí la figura di un leader “pigliatutto”, dall’ideologia incerta, spesso un “moderato”, quasi sempre gradito alla Curia, che, una volta eletto, forte del consenso popolare personalmente riportato, poteva poi governare dall’alto, con gli uomini e le donne della sua lista, liberato finalmente dai lacci delle passate, “estenuanti”, mediazioni.

Dalla periferia al centro

Quando Veltroni lancia su scala nazionale il «partito a vocazione maggioritaria» rende finalmente esplicite le conseguenze di un tale principio. Nell’estate 2007, al Lingotto, ne parla solo di sfuggita (ma già con questo segnale contribuisce a indebolire dall’interno la coalizione di Prodi); precisa meglio il suo pensiero a Roma, nel febbraio 2008, quando nel programma elettorale sostiene che ormai il paese ha bisogno di una «democrazia governante», che consenta all’esecutivo di presentare disegni di legge da votare entro due mesi, al presidente del Consiglio di chiedere la revoca dei ministri e al parlamento di rivedere anche «la prima parte della Costituzione, purché con la maggioranza di due terzi»: per raggiungere questi obbiettivi, dichiarandosi «disponibile alle piú ampie convergenze», reputa necessario «stabilizzare un bipolarismo fondato su due grandi partiti a vocazione maggioritaria», cui appare funzionale un sistema elettorale basato su «collegi uninominali a doppio turno» e con «un sistema di primarie regolate per legge». E Ceccanti, commentando questa iniziativa, afferma soddisfatto che «la scelta di andare da soli, o meglio liberi, è già stato un bell’anticipo del programma istituzionale».

Veltroni non dice che un chiaro esempio di «democrazia governante» l’aveva già offerto in precedenza Berlusconi, che con la sua maggioranza aveva cambiato 50 articoli della seconda parte della Costituzione, conferito al presidente del Consiglio il potere non solo di revocare i ministri, ma anche di sciogliere il parlamento, e aveva previsto inoltre «tempi certi» per l’ approvazione dei disegni di legge voluti dal governo; e che solo un referendum popolare, non certo l’opposizione di sinistra in parlamento, aveva impedito a quella riforma di cancellare gran parte della Costituzione del ’48; né considera che quel partito a vocazione maggioritaria, a differenza del suo, poteva contare su di un regime mediatico consolidatosi attorno al padrone delle televisioni e sulla legge elettorale appositamente confezionata da Vegas e Calderoli, legge che regalava la maggioranza assoluta alla Camera non al partito, ma alla coalizione, che avesse vinto, con qualsiasi quorum, anche soltanto per un voto.

Indifferente a questi dati della realtà e inseguendo il suo astratto modello, Veltroni, si “liberava” della sinistra litigiosa, ma poi finiva per allearsi con l’Idv di Di Pietro e, con una campagna mite e rispettosa (per questo assai apprezzata dai media e dall’avversario), andava incontro a una sonora e prevedibile sconfitta. Ciononostante, nel partito, i sostenitori del maggioritario registravano compiaciuti che, grazie anche al «voto utile», erano effettivamente scomparse dal parlamento le scomode formazioni di sinistra, mentre il Pd aveva superato il 33% di voti sia alla Camera che al Senato; nel campo opposto, con ben maggiore soddisfazione, si faceva però notare che il distacco in favore della coalizione di destra era risultato di ben10 punti e che, grazie alle distorsioni dalla legge elettorale, Berlusconi e i suoi nominati potevano ora contare su 97 seggi in piú alla Camera e su 138 al Senato, un’autostrada per legiferare a piacimento.

Il resto è noto. Solo l’insipienza dei governanti nominati nella «Casa delle libertà» riusciva a sperperare il regalo che la legge elettorale aveva loro offerto: quella schiacciante maggioranza aveva sí, come previsto, destinato all’irrilevanza l’opposizione parlamentare; aveva anche consentito di scrivere d’autorità alcune tra le pagine piú indecorose della moderna storia parlamentare (dalle leggi per salvare il leader dalle condanne penali all’affidavit prestato da entrambe le Camere per la «nipote di Mubarak»); ma proprio sul fronte della “governabilità” era franata miseramente, rivelandosi incapace di gestire la complessità dei problemi politici e sociali che aveva in parte causato, avviando cosí, tra contrasti interni, ricatti, dolose omissioni e acquisto di parlamentari, il paese verso la bancarotta.

Nel frattempo, a causa della sconfitta elettorale, per un po’ di tempo, dentro al Pd nessuno aveva parlato piú apertamente della «vocazione maggioritaria». Ma, in mancanza di una proposta politica condivisa e in un partito ormai frantumatosi in tanti potentati locali sorti attorno ai “governatori” e ai sindaci, quella cultura si era silenziosamente diffusa e consolidata; e l’entusiasmo acritico per le primarie ne era stata la pratica conferma.

Queste, in realtà, costituivano l’ultima stampella offerta dagli ingegneri costituzionali alla traballante democrazia procedurale, una finestra aperta al vento e agli umori della società civile, una palestra in cui si scomponevano e si ricomponevano correnti e cordate: quella dell’ottobre 2012 aveva visto la sostanziale contrapposizione tra Bersani e Renzi, portatori non tanto di linee politiche diverse, quanto piuttosto di una differente concezione della natura del partito: non a caso il sindaco di Firenze si era presentato nelle vesti del «rottamatore» della dirigenza, sostenitore dell’abolizione del finanziamento pubblico, innovatore persino sulle regole del voto. Queste sue posizioni, molto ben accolte dal sistema mediatico, non gli avevano consentito al momento di prevalere, ma gli avevano assicurato al primo turno un buon successo proprio nelle “regioni rosse”, sintomo del mutamento che nel frattempo stava avvenendo nella base del partito.

Lasciato il peso della campagna elettorale sostanzialmente sulle spalle di Bersani, comparendo pubblicamente con lui in soli due comizi, il 1° e il 21 febbraio, Renzi tornava alla ribalta dopo l’esito del voto, impegnandosi personalmente in vista dell’elezione del presidente della Repubblica: il 3 aprile attaccava il segretario e annunciava la sua strategia: «Bersani si è fatto umiliare da quegli arroganti di M5S. Ora patto con il Pdl o urne», dichiarava infatti al «Corriere della sera»; il 14 aprile bocciava al Tg5 la candidatura al Quirinale di Marini, un «candidato del secolo scorso», sostenendo che «ce ne sono tanti altri di meglio, anche nel centrodestra» (ma, due giorni prima, aveva avuto a Firenze un colloquio con un altro candidato del secolo scorso, Massimo D’Alema, non piú evidentemente da “rottamare”, colloquio sul cui contenuto entrambi manterranno sempre un prudente riserbo); il 19 aprile, infine, dopo che la proposta di Bersani di presentare Prodi, accolta al mattino con un’ovazione, era stata bocciata nel pomeriggio in aula grazie al voto dei 101, Renzi per primo e in gran fretta aveva dichiarato chiusa la partita («la candidatura di Prodi è tramontata» aveva dettato alle agenzie appena terminato lo scrutinio).

Ma con questo voto la partita si era chiusa anche per Bersani e per il suo tentativo di dare vita a un governo alternativo a Berlusconi, tentativo non certo incoraggiato dall’alto, ma ora stroncato bruscamente anche dal basso: nessun dissenso dichiarato all’origine dell’implosione del partito, ma una faida interna, con protagonisti impresentabili – e perciò rimasti anonimi – che puntavano a una rinnovata edizione delle “larghe intese”, prefigurando, in alternativa, un assai improbabile ritorno alle urne.

E “larghe intese” ci sono state, con la rielezione di Napolitano, con il varo del governo Letta-Alfano e, soprattutto, con il risultato immediato di riconoscere all’imputato Berlusconi, deriso in Europa e arrivato solo terzo alle elezioni, il ruolo di statista e addirittura di “padre costituente”; ed è in questa rinnovata palude che si è sviluppata la strategia di Renzi, intesa, da un lato, a completare la trasformazione del Pd da gruppo politico organizzato e strutturato a semplice movimento di opinione e, dall’altro, a incalzare di continuo il governo, per marcare la propria “differenza”; e questo, in perfetta simmetria, con quanto andavano facendo, nell’opposta sponda, Brunetta e soci per conto di Berlusconi.

Mentre, infatti, l’alleanza tra Letta e Alfano imponeva loro e ai ministri al seguito la sospensione di ogni contrasto e anzi una reciproca innaturale solidarietà (come si è visto nei casi clamorosi della vicenda kazaka e del rapporto Cancellieri-Ligresti), Berlusconi e Renzi, per non lasciare al M5S e alla Lega il compito assai redditizio di “lucrare sull’inciucio”, creavano una sorta di opposizione interna al loro stesso governo, pretendendo risultati visibili e continuando ad agitare lo spauracchio delle elezioni in caso contrario; ma se per il primo questo calcolato atteggiamento è stata la premessa per passare dall’ambiguo sostegno all’esecutivo alla dichiarata opposizione tramite la rifondazione di Forza Italia, per Renzi la critica continua al governo è servita per scalare con successo il partito di appartenenza e portare a compimento la sua trasformazione.

L’outsider contro l’apparato: questo lo schema che ha affascinato Panebianco, convinto De Benedetti (e «la Repubblica») e che è stato apprezzato da Berlusconi (da «Libero» e dal «Giornale»). Il medium è il messaggio: Facebook, Twitter e rapide interviste archiviano vecchie “liturgie”, semplificano la comunicazione e soprattutto evitano ragionamenti complessi. La nuova retorica renziana rilegge lo statuto del partito, guarda agli elettori piú che agli iscritti, coltiva l’onda crescente che plaude alla cancellazione del passato, prende le distanze dal sindacato e si concentra sulle critiche alla “casta” e agli “sprechi”. Per il regime mediatico è un personaggio rassicurante – ha elogiato Marchionne quando estrometteva la Fiom, ha criticato la sinistra per il referendum sull’acqua, ha sempre mantenuto il silenzio sui processi di Berlusconi, Previti e Dell’Utri, sulla corruzione, sui legami con la mafia e, non ultimo, sulla questione delle televisioni –, mentre per un partito già dichiaratosi sconfitto, appare come la luce in fondo al tunnel, l’unico, cioè, in grado di risollevarne le sorti in vista di una nuova scadenza elettorale.

Renzi, dunque, critica ritardi e omissioni del governo, rimprovera gli altri di non occuparsi dei problemi del paese, elenca una serie di temi, indica obiettivi, sfumando però sempre sui contenuti concreti e sui mezzi per raggiungerli; ma questo evidentemente non rileva, i sondaggi promuovono la formula «Con Renzi si vince» e l’opinione degli elettori del Pd, nello spazio di pochi mesi, muta radicalmente e il sindaco di Firenze viene eletto segretario con quasi il 70% di preferenze.

L’investitura popolare esalta il decisionismo del sindaco: la Corte costituzionale boccia la legge elettorale di Berlusconi, perché «non consente all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati» e perché il premio di maggioranza ivi previsto produce «un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente»; insorgono i devoti del maggioritario, Panebianco, Galli della Loggia, Ceccanti e Parisi in testa; il sindaco-segretario li rassicura, confermando la continuità con il recente passato: a dicembre rinnova il rito annuale della presentazione del libro di Vespa, occupando, in coppia con Alfano, il posto tradizionalmente riservato a Berlusconi, a gennaio indossa i panni del costituente, offrendo agli altri partiti tre diversi modelli di legge elettorale; poi, continuando con Verdini (un banchiere fallito e plurindagato) i tradizionali incontri toscani, si lascia il partito alle spalle, aggira Letta e il governo, ignora la sentenza della Corte, si rivolge direttamente a Berlusconi (il plurindagato piú noto, nel frattempo condannato definitivamente per frode fiscale) e con lui concorda, «in piena sintonia», un quarto progetto, che viene presentato poi pubblicamente come «privo di alternative».

L’accordo riproduce, con modeste varianti, i vizi censurati dalla Corte: le liste, piú brevi, restano però sempre bloccate; il “premio”, ora ancorato a un minimo, rimane ugualmente spropositato, perché trasforma il 35% di voti nel 53% di seggi; inoltre, portando a ulteriori conseguenze la logica del maggioritario, il patto riesce a peggiorare ulteriormente il deprecato Porcellum: lo sbarramento del 12% per le coalizioni e soprattutto quello dell’8% per il partito che corra da solo non hanno l’eguale in Europa e costituiscono un autentico sfregio alla rappresentatività del parlamento; se poi nelle aggregazioni un partito non raggiunge il 5%, nessuno dei suoi candidati viene eletto, ma in compenso i suoi voti servono per eleggere quelli degli altri partiti della coalizione, aggiungendo cosí, oltre al danno, la beffa. Con qualche telefonata, poi, i due si accordano per aumentare in modo irrisorio – 2 punti (al 37%) – la soglia cui ancorare il premio e convengono di abbassare lo sbarramento dal 5 al 4,5% (la norma cosiddetta «Salva Lega», necessaria per l’alleanza con Berlusconi) e per introdurre il ballottaggio nel caso nessuna delle coalizioni raggiunga il 37% (e già ora i sondaggi attribuiscono a quella di destra il 35-36%).

Si è trattato dunque di un accordo concluso tra privati, l’uno mai entrato in parlamento, l’altro cacciatone per indegnità; e questo patto, con la clausola “prendere o lasciare”, è stato poi successivamente imposto ai partiti, nel caso di Berlusconi ovviamente senza difficoltà, nel caso di Renzi con qualche turbolenza interna; ma qui il nuovo segretario ha dato una rapida dimostrazione di come si governa un partito d’opinione.

Alcuni deputati del Pd propongono emendamenti per introdurre le preferenze, abbassare le soglie di sbarramento e alzare quella per accedere al premio? Renzi interviene in assemblea, esige che le richieste di modifica siano ritirate, pena il fallimento della trattativa, addebita l’eventuale insuccesso alla minoranza interna e quegli emendamenti vengono prontamente cancellati.

Fassina e Cuperlo lo criticano per la gestione e gli esiti della trattativa condotta con Berlusconi?; il neosegretario dedica loro un paio di battute irridenti e quando il presidente del Pd si dimette, dalla poltrona di Vespa commenta: «problemi di democrazia interna ? Mi viene da ridere».

Sul merito delle questioni ritiene di non doversi soffermare, avendo ricevuto l’investitura «da parte dei 3 milioni di votanti alle primarie»: in quell’occasione aveva promesso «una legge elettorale che restituisca ai cittadini il sacrosanto diritto di scegliere a chi affidare i propri sogni, le proprie speranze, i propri progetti»? Sí, certo, lui le preferenze le voleva, ma poi Berlusconi si è opposto e cosí non se ne è fatto piú nulla; quando infine gli fanno osservare che una trentina di costituzionalisti – da Rodotà ad Azzariti, da Ferrajoli alla Carlassarre, ecc. – hanno sollevato seri dubbi sulla legittimità della nuova normativa, si limita a definire gli estensori dell’articolato documento «un manipolo (!) di scienziati del diritto», condividendo cosí anche lui quel crescente distacco dalla legalità costituzionale che ha caratterizzato in questi anni, da Craxi a Berlusconi, l’attività politica di tanti governanti.

Ma non basta: dopo aver utilizzato le critiche costanti all’esecutivo per conquistare la segreteria del Pd, Renzi nei due mesi successivi usa questa volta il partito per scalare la presidenza del Consiglio: nella sua nuova veste critica infatti l’operato di Letta, ma personalmente lo rassicura («sono leale, stai sereno», ecc.); poi lo frena, imponendo la priorità della legge elettorale rispetto alla presentazione del patto di governo da presentare agli alleati; infine, temendo il trascorrere del tempo e il suo possibile appannamento, accelera improvvisamente: quando la Confindustria attacca frontalmente il governo, Renzi accusa Letta di immobilismo, anticipa una riunione di Direzione, sfiducia in quella sede il presidente del Consiglio e si presenta come premier di un nuovo esecutivo, «che dovrà durare sino al 2018»: tutto rimane nel vago, il programma, le forze politiche che dovranno sostenerlo, ecc. Ma non importa: i membri della Direzione (si fa per dire), a grande maggioranza, si accodano; Letta si dimette, le Camere vengono ignorate e in due giorni l’obiettivo è raggiunto.

Alcuni raccolgono i cocci della spregiudicata operazione: l’ennesimo trauma causato agli elettori del partito, lo strappo istituzionale avvenuto senza uno straccio di motivazione, l’assoluta incertezza sulle conseguenze di questa avventura; ma coloro che il giorno dopo dimostrano preoccupazione per come sono andate le cose sembrano dimenticare che una parte di questa storia, la piú importante, era stata già scritta quando anche loro avevano invocato il principio maggioritario, esaltato la figura del leader, il decisionismo che ne derivava e manifestato in diverse occasioni una palese insofferenza per le regole della rappresentanza, per i confronti e le mediazioni. Renzi, di suo, vi ha aggiunto, come ha voluto sottolineare, una «smisurata ambizione», e ha potuto dimostrare come, con l’appoggio determinante dei media, con le primarie aperte a tutti e nel deserto della politica, un uomo che vanta simili qualità possa, in soli tre mesi, diventare segretario del primo partito d’Italia e poi direttamente presidente del Consiglio, senza dover seguire la noiosa trafila prevista dalle vecchie regole della democrazia e dell’ordinamento repubblicano.