Il primo sentimento che prova il lettore di La spilla d’oro[1] è di gratitudine, come ormai avviene raramente per un libro di narrativa. Si ha infatti l’impressione, a libro chiuso, di aver percorso non solo un romanzo – e di romanzi “storici” ce ne sono fin troppi – ma di avere incontrato, conosciuto e ascoltato un universo riecheggiante di voci e dialoghi in controcanto, tutto un mondo vicino/lontano che chiedeva di venire alla luce, di accompagnarci. Lì ci guida Buchignani, nel cuore vivo e sanguinante del Novecento: lungo le oltre quattrocento pagine del libro si avverte una sorta di richiamo continuo, un appello che va oltre la dimensione letteraria; vi si riflette una eco collettiva e, insieme, alcunché che corrisponde a una necessità interiore non eludibile. Ci dice all’inizio il narratore che quel bisogno nasce nei giorni della pandemia, quando gli slogan volevano convincerci che “andrà tutto bene” e intanto i morti venivano caricati a centinaia sui camion militari, così evocando il tempo di guerra. Qualcuno, allora, aveva rammentato le processioni delle ambulanze di Caporetto, la morte che assume una dimensione di massa, la nazione in ginocchio. Scriveva Walter Benjamin nel 1933: «Una generazione, che era andata a scuola ancora con il tram a cavalli, stava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro – in un campo di forza di esplosioni e di correnti distruttrici – il minuto e fragile corpo umano». È proprio da quel momento, la Grande Guerra, che prende avvio La spilla d’oro; ed è nel 2020 che la figura cardinale del libro, Lapo, che di mestiere è uno storico, comincia a interrogarsi sulla vita del padre, morto nel 2001, e a riflettere sugli avvenimenti di quel “secolo breve” che qui diventa, invece, “sterminato” (recita così il sottotitolo del libro). Alle parti narrative, con la fitta trama dei fatti, si affianca uno spazio di tipo saggistico, intonato alla professione di Lapo (che è anche quella dell’autore): evocazione e riflessione s’intrecciano, pertanto, ma è nel coro dei personaggi e nello spessore tragico delle vicende che il libro prende quota, si apre al vento della storia, alle sue «correnti distruttrici».
La “spilla” di nonna Esterina (classe 1891: «come Antonio Gramsci») che campeggia nel titolo, dimenticata «come un soprammobile, forse una reliquia», è lo strumento che mette in moto la memoria: già, ma che tipo di memoria? Della spilla d’oro la nonna si era servita non solo come monile ma come arma per difendersi, a teatro, dalle brutali avances maschili; e nel libro essa porta con sé qualcosa di questa doppia origine, l’uso della memoria ne conserva la traccia. Poiché è una memoria, quella messa in moto nel libro, che attraversa le generazioni non come può farlo un souvenir privato oppure davvero una «reliquia» familiare, bensì e al contrario agisce come una specie di Lampada di Aladino che fa viaggiare nel tempo, trasportando Lapo (e il lettore) nel passato ma, allo stesso tempo, provoca come una puntura, una trafittura («fora»: il libro reitera a ogni capitolo l’espressione, come un refrain): essa funziona insomma come un segnale di risveglio a cui Lapo, lui studioso di storia, deve rispondere, mobilitando insieme le sue conoscenze e la fantasia. Servono tutte e due, conoscenza e fantasia, purché entrambi radicate nel vissuto, nell’esperienza; solo così, s’intende, può farsi sentire il richiamo delle generazioni scomparse che chiedono conto delle loro sofferenze e speranze, di non essere dimenticate nello scialo dei giorni, nel tempo quotidiano e immemore del comfort anestetizzato che sotterra tutto, cose e persone. Un elemento doloroso, non conciliato, si associa allora al riemergere del passato, un trauma che esige di non restare muto, di non essere confinato, congelato nelle lapidi e nei monumenti (dei partigiani uccisi dai nazifascisti ha scritto una volta Sereni: «Geme / da loro una ferita / e le dà voce il vento della pianura, / l’impietra nelle lapidi», Nel sonno).
Se lo spunto di partenza è il trauma del lockdown che apre la strada alla storia di tanti traumi immersi nel tempo, uno dei motivi di fondo della riuscita del libro è da scorgere nella bilanciata dialettica che lega strettamente spazio e tempo, e conferisce coerenza e profondità alla narrazione. All’ampiezza dell’orizzonte storico – più di cento anni, si è detto – corrisponde un ambito ben circoscritto e circostanziato: Lucca e il suo territorio prossimo, città e campagna con epicentro Santa Maria dei Colli; luoghi facenti parte di una topografia mentale e sentimentale e come tali formano un deposito di esperienze, un cosmo con i propri riferimenti culturali e ideologici (s’incontrano nelle pagine della Spilla Pascoli, Papini, Viani, Tobino, Ricci). È dentro questo paesaggio che la memoria familiare e quella collettiva s’incontrano, entrambe delineate con precisa cognizione delle separazioni e sedimentazioni di classe, di cui i conflitti aspri e così spesso cruenti dell’epoca fascista – stragi, omicidi, agguati, torture – sono espressione esemplare e indelebile, così come lo sono le menzogne del regime criminale del ventennio, quelle che dovevano servire a fare degli italiani un popolo di guerrieri degno dell’antica Roma.
Senza mai perdere di vista il collegamento tra il microcosmo locale e familiare e il contesto più ampio, nazionale e continentale (non solo le due guerre ma il ’56, il ’68, l’89), la Spilla d’oro di Buchignani ci fa attraversare il Novecento e rivivere la storia con un grande affresco, ricolmo di eventi drammatici e pullulante di personaggi umili, come i preti che non dimenticano la lezione evangelica, o protervi e scellerati come Carlo Scorza, il segretario del Fascio lucchese e poi dirigente del Partito. Va inoltre notato come tratto distintivo del romanzo che nel corso del libro l’autore si serve anche di documenti, diari, brogliacci: strumenti propri della ricerca storica, che però non han qui niente di libresco o erudito e integrano con naturalezza il tessuto narrativo. L’autore non si limita a “sceneggiare” la storia novecentesca, si riserva un margine di interpretazione ma vuole fare spazio alla forza dell’evidenza, alla verità non soggetta alle mistificazioni della “opinione” (una merce come le altre), così da fornire un solido fondamento agli eventi tramandati come leggende di generazione in generazione; una prospettiva “dal basso” consegna alle carte d’archivio e ai diari una funzione liberatoria nei confronti della propaganda tutta ideologica dei piccoli e grandi poteri. Del resto Buchignani giunge a questo suo decisivo appuntamento dopo aver dato contributi importanti alla comprensione del Novecento italiano, né la commistione di saggio e narrazione è fatto inedito per la sua scrittura; ma soprattutto, va a suo onore che nell’affrontare i temi di tanti suoi studi[2] (il “fascismo di sinistra”, Berto Ricci, Romano Bilenchi, l’età del «Selvaggio»), anche qui, in questa polifonia di voci viventi lontane e prossime, non dimentichi di esplicitare come lo spunto di origine di ogni ricerca sia sempre nel presente, nelle sue contraddizioni e manipolazioni: le ingiustizie non sono scomparse con la guerra, né l’aspirazione ad un tempo diverso, nonostante sia messa al bando. Lo «spiritello impertinente» che riaffiora qua e là nel libro non si contenta perciò dei luoghi comuni, insinua il dubbio che certezze date per ovvie nascondano convenienze, esorcismi, interessate rimozioni. C’è sempre un velo che ancora bisogna “forare”; e come aveva preso avvio dalla pandemia, al 2022 torna il libro nel finale, in una coda breve e severa, scandita dagli accenti millenari della rogazione A peste, fame, et bello… («I tre flagelli temuti dai popoli del passato si sono scatenati tutti assieme in questo terzo millennio», p. 422). Sappiamo bene, ai nostri giorni, che per perpetuare l’ingiustizia c’è chi di guerre e catastrofi e fake news si nutre spudoratamente, né ha perso l’occasione per travestirsi, dismettendo l’orbace ma alimentando la fiamma infame che ha avvelenato il paese della cosiddetta “brava gente”; e dunque grazie a Buchignani per questa sua spilla, che potrà servirci.
[1] Paolo Buchignani, La spilla d’oro. Memorie da un secolo sterminato, Roma, Edizioni Arcadia, 2024.
[2] Tra gli altri ricordiamo Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico (Roma, Bonacci 1984); Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio (Bologna, il Mulino, 1994), Fascisti rossi (Milano, Mondadori, 1998, poi Oscar Mondadori, 2007); La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943 (Milano, Mondadori, 2006, poi Oscar Mondadori, 2007); Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate Rosse (Venezia, Marsilio, 2017). Come narratore Buchignani ha esordito con Solleone di guerra (Firenze, Pagliai, 2008), seguito dai racconti L’orma dei passi perduti (Lucca, Tra le righe ed., 2021).





