Dalle colonne de “il manifesto”, domenica scorsa, Michele Prospero ha ribadito con efficacia che il populismo non salverà la sinistra. Ha perciò invitato quel poco che resta dell’identità progressista e comunista a non inseguire i miti rassicuranti del sovranismo e del qualunquismo, incarnati oggi dalla Lega di Salvini e dai pentastellati. «Tra l’individualismo liberista demolito dalla crisi sociale e i rifugi in comunità ingannevoli (prima gli italiani, il rosario e la ruspa) esiste un vuoto, quello che nel Novecento ha occupato il socialismo», scrive Prospero. Un socialismo che, se vuole rimettersi all’opera, non deve «scimmiottare la versione più originale e anche genuina della rivolta del “basso”», ma che deve rispondere a una rigenerazione più complessiva delle sue istanze, la quale magari parta da una discussione teorica e politica sui fondamenti e sui presupposti. La questione organizzativa diventa allora centrale: alla cultura superficiale e aggressiva, fatta di istinti e di macchiette, inscenata tanto dai leghisti quanto dai grillini, capaci di raccogliere i frutti più maturi del berlusconismo nei termini di rappresentazione spettacolare della propria identità, bisogna opporre, dice Prospero, «una cultura politica nuova che tragga ispirazione da Marx» e che quindi rimetta al centro il conflitto tra capitale e lavoro, oggi del tutto svuotato dalla banalità transeunte delle promesse elettoralistiche, e che rimetta in gioco il ruolo della rappresentanza, della formazione, della coerenza ideologica.
Prospero si rivolge a quel milione e passa di voti espresso dagli elettori di Liberi e Uguali e di Potere al Popolo. Ritengo che vada premiato questo gesto, a seguito di una campagna elettorale giocata su reciproche accuse. La ricostruzione di un fronte popolare e socialista non può che partire da uno sforzo comune. Che implica, lo sappiamo, le tradizionali lacerazioni, a questo punto persino fin troppo intellettualistiche, ma che appare, in questa fase, inevitabile. Il discrimine è l’antiliberismo. C’è una quota di elettori di sinistra che non ha digerito il riformismo liberale promosso da Bersani e compagni; che ha ritenuto lesivi della propria identità il confronto sottomesso con il Partito democratico e le promesse di un dialogo ulteriore; che ha sentito come troppo verticistica l’operazione di LeU; che avrebbe voluto una campagna elettorale giocata più sui contenuti che sulla prospettiva di mandare una ventina di rappresentanti di provenienza post-comunista in parlamento.
E c’è una quota di elettori di sinistra che, avendo scelto Potere al Popolo, ne ha intravisto subito tutti i limiti, a cominciare dalla glorificazione entusiastica dell’orizzontalità, dello spontaneismo, della molteplicità; che ha concepito quell’esperienza sì come una risorsa possibile per il futuro, ma che ne ha patito i limiti organizzativi, ora molto più evidenti; che, pur avendo scelto una forza politica finalmente in grado di riabilitare un alfabeto a torto sepolto, non ha digerito certi atteggiamenti ribellistici, certe pose da estetica della rivoluzione. Da una parte e dall’altra, insomma, c’è una grossa fetta di militanti che, pena la confusione e il disorientamento, ritiene indispensabile avviare un lavoro di ricostruzione di un contenitore nuovo. Vale a dire di una struttura organizzata che sia in grado di tenere insieme, in chiave non populistica, anticapitalismo e lotte territoriali, difesa del lavoro e uguaglianza sociale. Si tratta di un’edificazione che avrà i suoi tempi, certo, ma che può forse svincolare la sinistra dalle solite operazioni elettoralistiche e dalla ricerca del leader carismatico.
La priorità è la costruzione di una nuova cultura – di un nuovo senso comune: lo si è sentito spesso nei discorsi di Potere al Popolo, per fortuna – e quindi di nuovi dirigenti, di cornici stabili, che non temano di sperimentare forme di lotta, di mutualismo, di presenza politica ancorate al passato. Purché quest’ultime assumano un’identità ideologica chiara e netta e non siano passibili di trasversalismi e trasformismi (come sempre più spesso accade nella storia attuale dei movimenti di protesta). In ciò il richiamo al corredo teorico è imprescindibile: Marx e Gramsci, anzitutto.
Se ciò ha una qualche verità, bisogna sin da subito opporsi a qualsivoglia ingerenza populistica, specialmente di fronte a scenari personalistici. Nessun dubbio, pertanto, che De Magistris rappresenti l’esito politico e antropologico di una stagione, purtroppo lungi dall’essere tramontata, che ha scorto nell’individualità assoluta un valore aggiunto. Sarebbe un errore per la sinistra cedere alle lusinghe del carisma. Si lavori piuttosto in quelle aree – il Meridione del Paese – in cui l’emersione di capipopolo segnala un vuoto democratico: si ricominci a parlare, senza mode culturali, di Sud e ci si interroghi per quale motivo la Lega a Rosarno – il luogo in cui la sinistra avrebbe dovuto rappresentare la battaglia degli sfruttati di qualsiasi provenienza – faccia il pieno di consensi.
Le elezioni hanno avuto come esito la delega agli invisibili, che deriva da una ben amministrata distruzione dei tradizionali luoghi fisici della politica. C’è invece, oltre le macerie, uno spazio concreto e visibile da riempire: ha ragione Prospero. Ma c’è bisogno di una cultura politica che, forte dell’insegnamento del passato, esca da certi luoghi comuni che hanno infestato la sua identità e si predisponga a un lavoro di penetrazione culturale sul lungo periodo, tenendo ben presente le esigenze, da Nord a Sud, del paese reale, senza limitarsi ai luoghi del consenso radicato (ammesso che ve ne siano). E restando vigile – lo dico soprattutto a chi, come me, ha votato Potere al Popolo – anche sul proprio campo teorico e ideologico, nel quale vecchie e nuove mitologie sulla fine del lavoro, imbarazzanti arnesi concettuali d’ordine populista, mode e vezzi minoritari talora sembrano sedurre più del dovuto, bloccando di fatto la possibilità di una ricostruzione condivisa.