di Giancarlo Scarpari
È passato un anno da quel 4 dicembre 2016 che interruppe il sogno di Renzi di riformare l’Italia. Ma quel risultato è stato archiviato in fretta, quasi si fosse trattato di una semplice sosta in un viaggio da riprendere subito, dopo un semplice cambio della guardia (col passaggio del testimone del governo a Gentiloni) e una nuova investitura al segretario del partito da parte del popolo del Pd (con la celebrazione del rito delle primarie).
Invece è da lì che bisogna ripartire per comprendere quello che sta succedendo oggi, poiché, all’ombra dell’asserita competizione per difendere o meno la Costituzione, si è conclusa quel giorno la prima fase di una lotta politica tra e dentro i partiti – soprattutto in quello democratico – lotta caratterizzata da finalità e scopi che in realtà poco avevano riguardato la difesa dei principi della Carta.
Renzi aveva infatti usato il referendum come clava per vestire definitivamente i panni del leader della Nazione, assumere un controllo totalitario sul Pd e sbarazzarsi, strada facendo, dell’opposizione interna. La sfida baldanzosamente lanciata all’insegna di “Renzi contro tutti” si è risolta invece con la vittoria di “tutti contro Renzi”, poiché lo statista di Rignano è riuscito nella miracolosa impresa di far coalizzare tra loro tutte le opposizioni, dalla sinistra ai grillini ai fascio-leghisti e di fornire, contemporaneamente, utili suggerimenti alle destre in vista delle successive campagne elettorali (suggerimenti prontamente raccolti, come si è visto, nelle amministrative di giugno e, come presto si vedrà, anche in quelle siciliane di novembre).
Se l’obiettivo di riformare la Costituzione è stato clamorosamente mancato, quello di stroncare l’opposizione interna, invece, è stato in gran parte raggiunto, poiché, in aprile, gli elettori del partito, malgrado la sconfitta, hanno prontamente rieletto Renzi segretario col 70% dei voti (a conferma della mutazione genetica nel frattempo intervenuta in quel partito), la minoranza interna si è frantumata (un 20% si è schierata con Orlando e un 10% con Emiliano) e una parte della “vecchia guardia” se ne è uscita con Bersani, nel contesto di una delegittimazione reciproca: il confronto si è presto tramutato in uno scontro e la questione costituzionale è diventata l’occasione per segnare la divaricazione da tempo creatasi a proposito di temi cruciali come la scuola e il lavoro, temi che, se presi sul serio, inevitabilmente rimandano a una diversa lettura del presente e a una difforme costruzione del futuro.
Inutile pensare a ricomposizioni in vista delle elezioni; solo a destra, infatti, dove non vi sono tradizioni o storie da rispettare (Bossi e Fini sono stati cestinati senza alcun trauma) e i proclami del giorno possono essere tranquillamente cancellati l’indomani (l’andirivieni in Forza Italia è ormai un classico), le rotture possono essere agevolmente ricomposte, perché comunque cementate dal comune slogan “sicurezza, meno tasse, contrasto all’immigrazione”.
A sinistra le scissioni lacerano ideologie e storie comuni, lasciano rancori e macerie e le varie oligarchie rinserrano le file; nel passato, poi, tutte le volte che hanno cercato di tornare a unirsi per andare al governo, gli esecutivi così formati hanno avuto vita contrastata e sono alla fine caduti soprattutto per il fuoco amico.
Il fatto è che Renzi ha, per il momento, vinto la battaglia per il controllo del partito, ma al tempo stesso è riuscito a indebolirlo ulteriormente davanti all’elettorato; e se Bersani e gli altri che hanno abbandonato la “ditta” hanno compiuto un chiarimento necessario, lo hanno fatto però colpevolmente in ritardo, dopo aver concesso a Renzi ripetute “fiducie”, indebolendo in tal modo la forza stessa della loro proposta.
Renzi, alla fine, ha dovuto abbandonare la pretesa di dar vita al Partito della Nazione e si è accordato con Berlusconi e Salvini per varare, dopo mesi di stallo, una legge elettorale volta a sconfiggere sia lo spauracchio, gonfiato ad arte, del M5S, sia tutto ciò che “si muove a sinistra”; non fidandosi, poi, della “propria” maggioranza, ha imposto, tramite Gentiloni, alla Camera dei nominati, una serie di voti di fiducia; e, pur di raggiungere l’obiettivo; puntando infine sul “voto utile”, ha però concesso incautamente alla destra la possibilità di formare quelle “coalizioni-arlecchino”, con formazioni dall’1% dei voti (tipo Brambilla), che tanto rendono da quelle parti.
Lo statista di Rignano ha così evidenziato nei fatti, ancora una volta, che, dopo tanto cianciare, l’orizzonte praticabile per il suo Pd è quello segnato dal patto del Nazareno, non altro.
Coloro che se ne sono andati hanno invece aggiunto una nuova sigla a quelle che da troppo tempo ormai, soprattutto in vista delle elezioni, si agitano nei cantieri sempre aperti (e mai chiusi) della “sinistra plurale”; e si sono affiancati, non molto graditi per la verità, a quei gruppi impegnati a bollare con una serie di No le politiche esistenti, ma incapaci – e non da ora – a combinare una qualche alleanza per far sì che i tanti progetti “virtuosi”, di cui si affermano portatori, trovino finalmente le gambe su cui camminare.
L’obiettivo dichiarato da tutte queste formazioni è quello di dar voce ai milioni di elettori, già di sinistra, che, “umiliati e offesi” dalla politica corrente, si sono ritirati sempre più numerosi nell’astensione; si tratta di una prospettiva che si affaccia regolarmente alla vigilia di ogni competizione elettorale e che viene regolarmente smentita il giorno dopo dagli esiti del voto.
L’obiettivo realisticamente perseguito, al di là dei racconti interessati, è invece quello di attrarre almeno il 3%, dei votanti, pena l’irrilevanza e l’estinzione.
Un bivio drammatico, dunque: la salute della sinistra non è mai stata così precaria.