Landinidi Fabio Vander

L’intervento di Maurizio Landini in forma di intervista al «Fatto quotidiano» di domenica 22 febbraio, è importante, ma richiede da subito approfondimenti e precisazioni.

Importante che si muova qualcosa a sinistra. Era il segnale che molti aspettavano. Dopo aver passato autunno e inverno con mobilitazioni di piazza (manifestazione del 25 ottobre, sciopero Cgil-Uil, sciopero “sociale”, mobilitazioni pro-Grecia di Tsipras, ecc.), era evidente che mancava il precipitato politico di tutto ciò. Non si riusciva mai ad arrivare al punto. L’assenza della sinistra sulla scena politica italiana si è fatta sempre più grave. L’intero panorama politico del Paese ne ha risentito e ne risente. Il successo di Renzi è anche se non soprattutto conseguenza di questo. Cioè del combinato disposto del fallimento della sinistra interna al PD, quella di Bersani, che nel 2013 ha perso l’ennesima sfida elettorale, come della inesistenza della sinistra radicale, per colpa di Vendola e Ferrero, di Sel e di Rc.

Come prevedibile non era con le manifestazioni di piazza che si poteva surrogare alla mancanza della sinistra. Né con iniziative “dal basso” come la raccolta di firme per un referendum contro la legge Fornero sulle pensioni. Anche qui puntualmente fallita. La cosa è passata anzi sotto silenzio. Non sarebbe invece il caso di parlarne? La lezione andrebbe imparata. E invece si sente dalla Camusso ventilare la proposta di raccolta di firme contro lo Jobs Act ed eventualmente un altro referendum.

Si tratta di imporre all’agenda della svagata sinistra italiana un punto decisivo: se non si affronta il nodo politico, della rappresentanza e organizzazione politica del lavoro, non si va da nessuna parte. Non si salvano le pensioni, non si difendono i lavoratori dallo Jobs Act, non si rilancia la giustizia sociale, non si combatte davvero la disoccupazione, senza un salto di qualità politico.

Il tema è questo. Vale anche per il sindacato. La sua stessa esistenza, come soggetto sociale autonomo e incisivo, è infatti oggi in pericolo. Da soli non ce la potranno mai fare. Così è sempre stato. Senza i grandi partiti della sinistra il sindacato non avrebbe avuto la grande storia che in Italia ha avuto. E certo neanche la sinistra storica sarebbe stata la stessa senza di sindacati forti, in fabbrica e nella società. Oggi, cioè da troppi anni, non è più così. Il circuito socio-politico della rappresentanza del lavoro si è rotto.

Bisogna porsi il problema, eminentemente politico, della sua ricostruzione. Nuovi partiti, per un nuovo sindacato, per una nuova democrazia del XXI secolo.

Chi se lo pone un problema del genere? Solo un general intellect (o se si preferisce «intellettuale collettivo») adeguato, organizzato, ramificato, capace di politica, sociale e nazionale. Insomma un partito politico.

E veniamo a Landini. La sua iniziativa è adatta al giorno e all’ora? Evidentemente no. La disponibilità personale, che trapela dall’intervista, è un fatto positivo, ma è solo un primo passo. E il primo passo è decisivo. Per cui bisogna star bene attenti a non sbagliarlo. La «sfida a Matteo» va messa sul binario giusto, altrimenti si mandano segnali ambigui o controproducenti, che favoriscono proprio la “parata e risposta” dell’avversario (e Renzi ne ha subito approfittato costringendo Landini ad una avvilente precisazione).

Il rischio lo vedo in affermazioni del tipo: occorre realizzare una coalizione sociale o in altre parole d’ordine di tipo genericamente sociale, para-sindacale o movimentista. Quando Landini dice che le politiche del governo Renzi e più genericamente dell’Europa dei mercati richiedono «un fatto nuovo nel rapporto fra politica e organizzazione sindacale», dice cosa giusta in genere, ma che non può significare la politicizzazione del sindacato. Né la sindacalizzazione della politica.

Landini aggiunge tra l’altro che di questi temi è indispensabile una «discussione esplicita». Cominci lui però. Faccia chiarezza visto che ambisce a essere protagonista di una nuova fase. E comincia male se parla appunto di coalizione sociale (formula vendoliana, cioè priva di senso) e non chiarisce con nettezza i termini del confine fra partito e sindacato, ma anche l’obiettivo, la direzione di marcia.

Ricapitolando: la disponibilità di Landini è utile, può servire a rivitalizzare un campo sguarnito e depresso come quello della sinistra italiana, ma da sola non è sufficiente. Rischia anzi di esporsi a facili e vincenti obbiezioni da parte di chi più ha da temere dalla nascita di una nuova sinistra.

La “scesa in campo” del sindacalista ha bisogno di essere eterodiretta. Altrimenti il fallimento è assicurato. È indispensabile cioè situarla in un progetto politico strutturato, evitando sbandamenti sindacalisti, movimentisti, antipolitici. Non abbiamo bisogno di un Renzi “di sinistra”. E speriamo che a Landini non venga in mente di farsi una Leopolda “di sinistra”.

Ci serve politica, politica e poi ancora politica.

Proporrei una costituente. Costituente di un nuovo partito della sinistra, che sia di quanti credono che la centralità del lavoro non debba essere un conato laburista, ma il prospetto centrale di un più ampio e ambizioso progetto politico. Solo così si costruisce l’alternativa a Renzi, al Partito della Nazione, alle larghe intese.