A-Famous-Cause-Honore-Daumierdi Luca Baiada

La possibilità di azioni giudiziarie contro la Germania davanti all’autorità giudiziaria italiana, per il risarcimento di stragi e deportazioni, è una certezza, specialmente dopo il caso Ferrinii e dopo le sentenze di Cassazione del 2008, in sede civile e penaleii. Ma nei processi civili di questo tipo, negli ultimi anni, è intervenuta l’Avvocatura dello Stato, per la presidenza del Consiglio o per il ministero degli Esteri, chiedendo il rigetto della domanda. Insomma, si è trattato di interventi contro gli interessi dei familiari delle vittime: di fatto, una difesa d’ufficio di Berlino a spese del contribuente.

Questi casi hanno ricevuto qualche commento da parte dell’informazione e della dottrinaiii; nel 2018 ci sono state anche prese di posizione a un’inaugurazione dell’anno giudiziarioiv.

L’epoca d’inizio dell’attivazione dell’Avvocatura sembra individuabile approssimativamente, considerando una dichiarazione del ministro Angelino Alfano e i dati ricavabili da alcuni processi (per esempio a Roma, Firenze, Ascoli Piceno, Como), in un periodo compreso fra il 2008 e il 2016. Proprio nel 2008, l’anno delle prime avvisaglie di crisi anche in Europa, si segnalano appunto le sentenze della Cassazione e a novembre, a Trieste, il vertice italo-tedesco Berlusconi-Merkel. Viene voglia di saperne di più.

Un FOIA (Freedom of Information Act), è stato introdotto in Italia col decreto legislativo 25 maggio 2016 n. 97, novellando il decreto legislativo 14 marzo 2013 n. 33. La legge descrive il nuovo accesso, quello generalizzato, come istituto diretto «allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico». Così il Dipartimento della funzione pubblica: «Con la normativa FOIA, l’ordinamento italiano riconosce la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni come diritto fondamentale. […] Giornalisti, organizzazioni non governative, imprese, i cittadini italiani e stranieri possono richiedere dati e documenti, così da svolgere un ruolo attivo di controllo sulle attività delle pubbliche amministrazioni. L’obiettivo della norma è anche quello di favorire una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile, e incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo»v.

Non essere assassinati né deportati è proprio il minimo che uno Stato deve garantire ai cittadini; se subiscono questi trattamenti, bisogna schierarsi per la giustizia e non contro. Perciò sono state proposte istanze di accesso all’Avvocatura dello Stato e alla presidenza del Consiglio, per sapere chi e come ha ordinato quegli interventi nei processi civili. Le domande sono state rigettate ed è stato proposto un ricorso al Tar del Lazio.

Con queste iniziative non si chiede di smettere di posizionarsi con la Germania, né di difendere i parenti delle vittime; la procedura non permette queste pretese esagerate. Si vuol sapere chi ha disposto gli interventi nei processi civili. Il governo che ha deciso avrà pure una compagine politica; il presidente del Consiglio, il ministro, avranno un nome e un volto. Invece segreto, mistero, silenzio.

Per ora, i rigetti motivano o sostenendo che la richiesta sarebbe generica (eppure si è capito bene che cosa si stia cercando), o che c’è il segreto professionale sui rapporti fra amministrazione e Avvocatura (come se fosse uno studio legale qualsiasi e non un importante organo pubblico). Si è detto anche, ed è vero, che l’Avvocatura non ha bisogno di mandato perché difende l’amministrazione per legge; però si è aggiunto che i documenti richiesti, «ove anche rinvenibili in atti», sono sottratti all’accesso. Insomma, la disposizione impartita è così segreta che non si può sapere neppure se ci sia. Anzi, se c’è è segreta, se non c’è non c’era bisogno di impartirla. Un segreto ipotetico, virtuale, un provvedimento talmente inafferrabile che non ha bisogno di esistere, un’entità che dall’alto degli arcana imperii sorride sul principio di non contraddizione.

Alcuni aspetti strettamente giuridici. Sono macchinosi, però non dimentichiamo che sullo sfondo ci sono lutti immensi, lo scontro fra democrazie e nazifascismo, le radici della Costituzione, il cuore del Novecento.

I rigetti citano il remoto decreto del presidente del Consiglio dei ministri 26 gennaio 1996 n. 200. Ma i decreti legislativi 2013 n. 33 e 2016 n. 97 sono successivi, hanno rango normativo superiore e rispondono a valori costituzionali e internazionali.

Poi, va detto che quel d.p.c.m. 1996 n. 200, basato sull’art. 24, comma 1, della legge 7 agosto 1990 n. 241, riguarda solo i casi di esclusione dall’accesso, regolato da quella legge, che oggi è chiamato accesso documentale. È diverso l’accesso generalizzato, che nel 1996 non esisteva; su questo è chiara la delibera 28 dicembre 2016 n. 1309 dell’Autorità nazionale anticorruzione: «La finalità dell’accesso documentale ex l. 241/90 è, in effetti, ben differente da quella sottesa all’accesso generalizzato»vi. La stessa delibera dell’ANAC segnala l’obbligo di «tenere in adeguata considerazione il grado di maggiore trasparenza al quale deve essere assoggettata l’attività istituzionale a seguito dell’intervento novellatore di cui al d.lgs. 97/16» e la necessità di un’interpretazione «sorretta dal principio della successione delle leggi nel tempo e della specialità della disciplina, […] coerente con lo scopo della norma, che è quello di garantire un’ampia libertà di accesso»vii.

L’Avvocatura, nel suo sito istituzionale, fa riferimento al d.p.c.m. del 1996 come richiamato nella delibera dell’ANACviii. Effettivamente la delibera ANAC contiene un elenco di disposizioni con casi di segretoix, ma l’inclusione del d.p.c.m. del 1996 fra le disposizioni contrasta con la norma alla base della stessa delibera ANAC, ossia con l’art. 5 bis, comma 6, del decreto legislativo 2013 n. 33, modificato nel 2016: all’ANAC spettano solo «linee guida recanti indicazioni operative». È ovvio: l’ANAC non ha potere legislativo. L’anomalia di aver incluso il d.p.c.m. del 1996 è vistosa: le disposizioni nell’elenco dell’ANAC hanno tutte forza di legge, con la sola eccezione di quel d.p.c.m.

A proposito. Nello stesso elenco c’è il r.d. «11 luglio 1941 n. 161 [rectius 1161]», norme relative al segreto militare, che è stato abrogato dall’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66, codice dell’ordinamento militare. La delibera ANAC crede vigente un testo abrogato da anni: c’è da chiedersi con che tecnica siano confezionati questi elenchi.

Comunque, l’inserimento del d.p.c.m. del 1996 nella delibera ANAC viola una riserva di legge che deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche una circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, del 2017x, riconosce i fondamenti dell’accesso nella libertà d’espressione garantita dalla Convenzione, all’art. 10, Freedom of expression, che comprende: «Freedom to hold opinions and to receive and impart information and ideas without interference by public authority». Il comma 2 dell’art. 10 precisa che questa libertà «may be subject to such formalities, conditions, restrictions or penalties as are prescribed by law». È una riserva di legge assoluta, secondo la stessa circolarexi.

L’Avvocatura – sempre sul suo sito – intende il riferimento contenuto nella delibera ANAC come esteso a tutti gli atti indicati nell’art. 2 del d.p.c.m. del 1996. Invece la delibera ANAC menziona solo i «pareri legali», e non certo tutti gli atti indicati in quell’art. 2xii. Includere in quel riferimento gli atti diversi dai pareri legali – in questo caso l’accesso riguarda una disposizione, non un parere – viola la riserva di legge e sottrae al dibattito documenti ben più importanti delle interlocuzioni tecnico-giuridiche tra uffici. Oscurato il provvedimento che attiva l’Avvocatura, il segreto cancella anche il colore del governo che l’ha deciso. La politica diventa irresponsabile. Una mano ha tirato un sasso, può essere la destra o la sinistra. La mano di chi? Quale sasso?

Ancora. Quello strano d.p.c.m. 1996 n. 200 risale al governo Dini ed è fra i suoi ultimi provvedimenti. Dini si era già dimesso il 30 dicembre 1995 e aveva confermato le dimissioni l’11 gennaio 1996, dicendo alla Camera: «Il governo tecnico da me presieduto ha esaurito i propri compiti, come da me dichiarato […]»xiii. Il decreto, squisitamente tecnico, fu deciso il 26 gennaio da un governo che le elezioni avrebbero presto spazzato via, ed è privo della firma del capo dello Stato. Così povero di credibilità, va interpretato in modo prudente e restrittivo.

Tutta questa vicenda stride coi diritti dell’uomo, le norme vigenti, i principi sulla gerarchia delle fonti, i pilastri della successione delle leggi nel tempo, l’ermeneutica giuridica. Più nel profondo, col ruolo del giurista nella società. Nel convegno a Palazzo Madama Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, lo scorso marzo, la senatrice Liliana Segre ha ricordato la strage morale, danno oscuro che va persino oltre l’immensità di uno sterminio, perché offende i vivi con una deprivazione etica e culturale. Nel messaggio per il «Giorno della memoria 2018», il presidente della Repubblica ha denunciato l’indifferenza ricordando «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati». Quell’intervento sullo sterminio degli ebrei offre insegnamenti anche su stragi e deportazioni.

Proprio sull’assassinio di ebrei va richiamata un’altra vicenda.

Dopo l’uccisione di Alisa Michelle Flatow nel 1995, a Kfar Darom in un attentato riconducibile ad Hamas, nel 1998 è stata emessa negli Usa una condanna civile a carico della Repubblica islamica dell’Iran e personalmente dell’ayatollah Kamenei, dell’ex presidente Rafsanjani e dell’ex ministro Khuzestani; poi è stato chiesto che la decisione avesse effetto in Italia. La Corte di appello di Roma nel 2004 l’ha dichiarata esecutiva, ma la Cassazione ha annullato per questioni di proceduraxiv. Dopo una nuova istanza, la Corte di appello nel 2013 ha rigettato l’esecutività basandosi sulla pronuncia della Corte internazionale di giustizia del 2012, rigida sull’immunità degli Stati; la Cassazione ha tenuto ferma la sostanza della decisione, ma per altri motivixv. Ebbene, l’Avvocatura è intervenuta per il ministero degli Esteri, contro i familiari, nel secondo processo, iniziato dopo l’annullamento del 2007. L’accesso richiesto, pur riguardando i crimini nazifascisti, potrebbe chiarire anche posizionamenti a proposito di terrorismo.

Qualche cenno di diritto comparato. La Cassazione, nella vicenda dell’esecuzione immobiliare su una proprietà della Germania, la Villa Vigoni, ha ricapitolato la posizione degli Usa sull’attribuzione al potere politico o giudiziario della facoltà di calibrare l’immunità degli Stati. Ha scritto:

Nel corso del ventesimo secolo, nonostante l’affidamento delle corti ai principi generali del diritto internazionale, si cominciò a dare spazio alle prassi e alle politiche del Dipartimento di Stato, articolate in vere e proprie richieste e suggerimenti alle corti. Come fu affermato in una lettera del 1952, inviata dal consigliere giuridico del Dipartimento di Stato, Jack Tate, all’Attorney General, la linea del Dipartimento di Stato era quella di proporre l’immunità solo in quelle limitate istanze nelle quali gli atti di uno stato straniero amico erano di natura pubblica o sovrana (acta jure imperii) piuttosto che semplicemente private o commerciali (jure gestionis). La distinzione fra attività pubbliche di uno Stato e quelle private o commerciali era però una di quelle distinzioni più facili da proclamare che da applicare. La determinazione dell’esecutivo su quello che costituiva un atto pubblico rispetto a un atto di natura privata o commerciale coinvolgeva spesso considerazioni di carattere diplomatico piuttosto che giuridiche che, conseguentemente, portavano, spesso, a proposte di immunità non conformi con la linea indicata dalla lettera di Tate. Inoltre anche quando le valutazioni dell’esecutivo non entravano in gioco restava il problema della mancanza di uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale. Per affrontare questi problemi il Congresso discusse e approvò il Foreign Sovereign Immunities Act del 1976. Uno degli intenti principali fu proprio quello di ridurre le implicazioni di politica estera nelle decisioni relative all’immunità degli stati e di assicurare alle parti in giudizio che queste decisioni cruciali sarebbero state prese, d’ora in poi, in base a considerazioni meramente giuridiche trasferendo completamente la responsabilità di esse dall’esecutivo al giudiziarioxvi.

La stessa sentenza, riprendendo la vicenda di Henry Liu, cittadino Usa ucciso per ordine di Taiwan, e citando la United States Ninth Circuit Court of Appeal, 29 dicembre 1989, ha osservato:

La Corte [Usa] descrive il contenuto della state act doctrine, affermando che con essa si pone una limitazione non di carattere giurisdizionale alle corti ma piuttosto di natura costituzionale, basata su una teoria prudenziale, diretta a evitare l’esercizio della giurisdizione in aree sensibili, che, nella logica della separazione dei poteri, consiste nel riconoscimento del ruolo preminente del Congresso e del Presidente nella risoluzione dei conflitti politici e nell’adozione della politica estera. La Corte, pur ponendosi nell’ottica di tale dottrina, giunge alla conclusione per cui sarebbe molto più imbarazzante, per il potere esecutivo degli Stati uniti, se la sua autorità giudiziaria ricorresse alla state act doctrine per paralizzare l’azione di una cittadina americana intesa a ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’assassinio del marito, anch’egli cittadino americano, ucciso sul territorio statunitense su mandato di un pubblico ufficiale di uno Stato esteroxvii.

La questione va letta insieme alla trasparenza. Negli Usa il Freedom of Information Act concede ampi spazi; così, nel caso di maggiore estensione delle decisioni politiche sull’immunità, la pubblica opinione ha più possibilità di verifica. In Italia l’attivazione dell’Avvocatura, sostenendo l’immunità magari per alcuni Stati o casi, e non per altri, è soggetta a minore trasparenza. Cioè, in Italia lo spostamento del baricentro dalla tecnica giuridica verso le scelte politiche produce segreto anziché dibattito. È un inconveniente che va superato.

«La cosa più importante è che non ci rassegniamo a non conoscere la verità. Può essere che adesso si rifiutino di darci queste informazioni. Ma alla fine lo faranno»; così, dopo anni di battaglie, in contrasto persino con la Cia, Elizabeth Holtzman, a lungo parlamentare Usa, già impegnata anche per il Nazi War Crimes Disclosure Act e componente dell’IWG (Nazi War Crimes & Japanese Imperial Government Records Interagency Working Group).

Comunque vada, la questione non finisce con una sentenza del Tar Lazio, come il Novecento non finisce coi rintocchi di un capodanno: la battaglia sulla verità e quella per la giustizia camminano insieme.

Infine. Il promotore degli accessi e il ricorrente al Tar sono io. Ho partecipato ai processi sulle stragi nazifasciste; ne ricordo qualcuno con la presenza dell’avvocato dello Stato, in favore delle vittime. Una volta parlò con tanta passione che fu interrotto dagli sbuffi del difensore di un tedesco, poi condannato all’ergastolo (una condanna non eseguita, la Germania non ha mai consegnato nessuno).

È strano, che un magistrato faccia causa allo Stato per sapere chi ha deciso un posizionamento contro le vittime di crimini. È una singolarità che mi imbarazza e che avrei evitato volentieri. Ma è più strano, che l’Italia attivi la sua Avvocatura, contro i cittadini, in favore di uno Stato estero debitore per massacri e deportazioni. È così strano, da far pensare che sulla storia di questi risarcimenti ci sia ancora molto da scoprire.

i Cass. Ss.Uu. 6 novembre 2003, dep. 11 marzo 2004, n. 5044.

ii Cass. Ss.Uu. 6 maggio 2008, dep. 29 maggio 2008 nn. 14199, 14201, 14202 e 14209; Cass., prima sezione penale, 21 ottobre 2008, dep. 13 gennaio 2009, n. 1072.

iii Carlo Bonini, Risarcite mio padre deportato dai nazisti, «la Repubblica», 30.11.2016; «Le iene», puntata Lo Stato calpesta la memoria di un partigiano, 26.04.2017; Maria Cristina Fraddosio, Crimini di guerra nazisti: «La Germania deve ancora all’Italia 100 miliardi di euro», «il Fatto Quotidiano», 26.04.2019; Valentina Gentile, Stragi naziste in Italia: «La Germania può e deve pagare», www.lastampa.it, 19.05.2019. Paolo Veronesi, Colpe di Stato. I crimini di guerra e contro l’umanità davanti alla Corte costituzionale, Milano, FrancoAngeli, 2017, pp. 125 e 240.

iv Poi citata in www.ilfattoquotidiano.it, 1° marzo, 30.09 e 31.10.2018.

v www.funzionepubblica.gov.it.

vi ANAC, delibera 28 dicembre 2016 n. 1309, Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 c. 2 del d.lgs. 33/2013, par. 2.3, p. 6.

vii ANAC, delibera 28 dicembre 2016 n. 1309, cit., par. 6.3, p. 14.

viii www.avvocaturastato.it.

ix ANAC, delibera 28 dicembre 2016 n. 1309, cit., par. 6.2, pp. 12-13.

x Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, circolare n. 2 del 30.05.2017, Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato, cd. FOIA, par. 2.2, p. 2.

xi Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, circolare n. 2 del 30.05.2017 cit., par. 7, p. 12.

xii ANAC, delibera 28.12.2016 n. 1309 cit., par. 6.2, p. 13: «i “pareri legali” che attengono al diritto di difesa in un procedimento contenzioso».

xiii Atti parlamentari, Camera dei deputati, XII Legislatura, discussioni, seduta dell’11.01.1996, p. 19446.

xiv Cass. Ss.Uu. 08.05.2007, dep. 22.06.2007, n. 14570.

xv Cass. Ss.Uu. 20.10.2015, dep. 28.10.2015, n. 21946.

xvi Cass. 12.01.2011, dep. 20.05.2011, n. 11163, par. 37, pp. 31-32.

xvii Cass. 12.01.2011, dep. 20.05.2011, n. 11163, par. 38, pp. 34-35.