Fidel Castrodi Rino Genovese

Anche gli immortali muoiono. Fidel Castro, l’uomo che nel Novecento meglio ha riassunto la voglia di liberazione di quello che era detto il Terzo mondo, se n’è andato tranquillamente a novant’anni dopo una vita vissuta pericolosamente. Rivoluzionario o dittatore? Senza dubbio tutt’e due le cose. Del resto il destino delle rivoluzioni, in tutte le loro varianti, è stato fin qui proprio questo: condurre a forme di governo più o meno dispotiche. Ciò non toglie che a Cuba, in particolar modo fino a tutti gli anni sessanta, un periodo davvero rivoluzionario ci sia stato. A poco a poco, tuttavia, un gruppo dirigente s’incancrenisce e, per sua logica interna prima ancora che in virtù di una minaccia esterna, dà vita a un regime. A Cuba questo regime dura tuttora. Vediamo brevemente com’è andata.

Alle origini c’è un mito nazionalistico (diciamo pure nazional-populistico) che è quello di Martí, l’apostolo ottocentesco dell’indipendenza cubana, ma, nel caso di Fidel – giovane studente ribelle –, è soprattutto quello di Eduardo Chibás che, nel 1951, si suicida in diretta radiofonica per protestare contro la corruzione a Cuba. (Chi era Chibás? Un antesignano radicale di Di Pietro, per intenderci, ma anche una figura tipica dell’America latina, dove da sempre la volontà carismatico-plebiscitaria si mescola a un’autentica ansia di liberazione). Tutta la prima attività rivoluzionaria di Fidel è all’insegna di questo caudillismo latino-americano, in cui perfino il gesto suicida assurge a proposta politica.

Conquistato il potere in un modo fino a quel momento impensabile – attraverso una guerriglia iniziata dalle campagne e dalle montagne, con un pugno di uomini decisi a tutto –, Castro diventa un paladino del socialismo secondo una postura antimperialista che, rapidamente, con le nazionalizzazioni, lo rende un nemico giurato degli Stati Uniti abituati a fare il bello e il cattivo tempo sull’isola. Siamo nel pieno non tanto della guerra fredda ma della “coesistenza pacifica”, come la si definiva a quel tempo, di cui Cuba rompe lo schema installando un socialismo rivoluzionario a due passi dalla costa nordamericana. Ma – e qua c’è il primo errore – Cuba tradisce la sua specificità consegnandosi, nel volgere di pochi anni, a un modello di sviluppo identico a quello del “socialismo reale”, rinunciando così a qualsiasi forma di indipendenza economica e diventando un semplice ingranaggio nel sistema di potere sovietico. Una scelta contestata da Guevara che – anche a seguito di questo dissenso – se ne andrà a combattere e a morire in Bolivia.

Secondo errore: terminato il triste periodo sovietico, il regime cubano, all’inizio degli anni novanta, si fa estremo difensore (paradossalmente, quasi alla maniera di un Ceausescu) di un’ortodossia ormai senza speranza. A Cuba, nel 1991, si punta addirittura sul tentativo di restaurazione prospettato dal fallito colpo di Stato in Russia. Stringere la cinghia e resistere diventa la parola d’ordine del “periodo speciale”: un periodo in cui si sarebbe dovuto, piuttosto, avviare un programma di riforme economiche non disgiunto da una democratizzazione capace di affrontare la sfida di un superamento del regime del partito unico.

A quel punto, non c’era altro alibi se non il ricorso al vecchio nazionalismo (la polemica contro l’embargo) per giustificare una dittatura che mostrava sempre più di essere tale. Nel frattempo però, nella mutata situazione del mondo, Cuba diventava per gli Stati Uniti uno spauracchio del passato. Il regime era messo ormai di fronte alle proprie responsabilità. Soltanto il “nuovo corso” venezuelano gli dava, con il petrolio a prezzo di favore, quell’ossigeno che gli consentiva un po’ di risollevarsi. Nell’insieme, la linea politica che prevaleva era quella, fin troppo realistica, che si può definire cinese: cioè liberalizzazione economica senza democratizzazione.

Fidel lascia quindi dietro di sé questa eredità contraddittoria: le rivoluzioni, ammesso che possano essere una soluzione, o sanno rinnovarsi, con il rivoluzionamento delle proprie idee e degli stessi gruppi dirigenti, oppure tirano avanti malamente diventando soltanto un bel ricordo del passato.