di Livio Pepino

1. Lo scandalo conseguente all’emergere delle poco commendevoli frequentazioni di Luca Palamara, pubblico ministero romano ed esponente di primo piano dell’associativismo giudiziario, ha aperto una crisi gravissima nel Consiglio superiore della magistratura, messo in condizioni prossime alla paralisi dalle dimissioni – mentre scrivo – di quattro componenti e dall’autosospensione di un quinto e con un drammatico dibattito in corso sul suo possibile scioglimento (che il capo dello Stato ha, allo stato, scongiurato indicendo elezioni suppletive per i componenti decaduti non sostituibili). Il tutto in attesa di ulteriori probabili “sorprese”, mentre l’ombra lunga dello scandalo travolge la residua credibilità del Partito democratico e non mancano i tentativi trasversali di chiamare in causa anche il Quirinale.

Tutto nasce dalla contestazione a Palamara, da parte della Procura della Repubblica di Perugia, del reato di corruzione per avere ricevuto denaro e favori da un amico imprenditore impegnato, insieme a un paio di faccendieri, in affari di assai dubbia liceità. Il fatto è in corso di accertamento ma alcuni dati sono pacifici: la frequentazione “pericolosa”, da parte di Palamara, di personaggi spregiudicati, alcuni dei quali già inquisiti e finanche arrestati e, soprattutto, le grandi manovre per le nomine dei nuovi procuratori della Repubblica di Roma e di Perugia, ordite in incontri notturni tra lo stesso Palamara (leader della corrente di «Unità per la Costituzione»), cinque magistrati componenti del Csm (Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli), il parlamentare Pd Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa, già segretario di «Magistratura indipendente» e tuttora influente “manovratore” del gruppo) e l’ex ministro renziano Luca Lotti (tuttora imputato davanti a quella Procura di Roma della quale si deve nominare il nuovo capo). A completare il quadro c’è, poi, l’attivazione di uno dei consiglieri coinvolti negli incontri (Luigi Spina) per informare Palamara, in tempo reale e in violazione dei doveri di ufficio, della sua avvenuta iscrizione nel registro degli indagati.

Non è questo il primo passaggio delicato della storia dell’autogoverno giudiziario per fatti connessi con la “questione morale” da quando, nel 1981, la polizia giudiziaria varcò i cancelli di palazzo dei Marescialli per perquisire lo studio del vicepresidente Zilletti (poi costretto a dimettersi perché lambito dalle indagini relative al banchiere Roberto Calvi) e sino a che, nel 2011, il consigliere laico di fede leghista Matteo Brigandì venne sorpreso con le mani nel sacco in un’operazione di delegittimazione del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini attraverso documenti consiliari secretati indebitamente sottratti.

E non è la prima volta in cui sono emersi collegamenti di personaggi autorevoli dell’associazionismo giudiziario o della magistratura tout court con lobbies o ambienti affaristici e finanche criminali. Aggiungo che non sono mancati neppure interventi diretti della politica (e anche di politici inquisiti) sulle nomine dei dirigenti dei più importanti uffici giudiziari. Cito, tra i molti, le imbarazzanti leggi (anzi i decreti legge) ad personam che, nel corso dei decenni, dall’inizio degli anni novanta, alzando o abbassando l’età pensionabile dei magistrati alla vigilia della scadenza e/o di importanti processi, hanno mantenuto in carica procuratori della Repubblica della capitale (e non solo) e presidenti o procuratori generali della Cassazione o alterato i meccanismi concorsuali per accedere alla direzione della Procura nazionale antimafia.

Ma c’è, questa volta, qualcosa di più. Ci sono, insieme, il numero e l’eterogeneità dei magistrati coinvolti (parte consistente delle componenti consiliari di «Unità per la Costituzione» e di «Magistratura indipendente»); l’emergere di un sistema lobbistico a cui partecipano senza remore magistrati autorevoli – per storia o per ruolo – e settori bipartisan della politica (ché Ferri e Lotti non sono semplici parlamentari del Partito democratico ma, in modi diversi, “cerniere” tra questi mondi); il condizionamento delle procedure per la nomina dei dirigenti di uffici giudiziari nevralgici e insieme – fatto ancor più grave – la pretesa di scegliere i magistrati preposti ai propri processi (essendo Palamara e Lotti imputati davanti alle Procure di Perugia e Roma); una spregiudicatezza di progetti e di obiettivi (oltre che di linguaggio) lontana le mille miglia dal costume e dall’habitus della giurisdizione; la disinvolta strumentalizzazione delle funzioni proprie e di colleghi (evidenziata dal progettato utilizzo in favore di Palamara e contro i suoi “avversari” interni alla Procura romana di un esposto di un sostituto nato in tutt’altro contesto); l’accettazione, nel Consiglio, di metodi siffatti o, comunque, una mancanza di attenzione ai loro sintomi e molto altro ancora.

Né vale dire che pratiche analoghe sono tristemente praticate anche nelle nomine dei prefetti o dei questori, dei presidenti delle aziende sanitarie o dei direttori dei telegiornali, dei rettori delle Università o dei vertici di polizia e carabinieri. È vero, come la cronaca quotidiana dimostra. Ma non è buona cosa usare come giustificazione del proprio operato le malefatte altrui e, soprattutto, il malcostume è doppiamente grave quando riguarda organi o istituzioni (come la magistratura) preposti al controllo sull’altrui correttezza.

2. La gravità della vicenda ha provocato reazioni a tutti i livelli.

Nel Csm è stato un rincorrersi di (inevitabili) autosospensioni e dimissioni, all’evidenza suggerite dal colle più alto, in attesa di un drammatico plenum in cui le critiche al “correntismo” si sono intrecciate con i buoni propositi (secondo un copione nuovo, in verità, solo nei toni).

Tra i magistrati ci sono state “sdegnate” assemblee territoriali e interventi di fuoco anche da parte di chi ‒ tuttora in servizio o ormai fuori dall’ordine giudiziario ‒ del sistema di potere clientelare e dei suoi collegamenti con il sottobosco politico è stato protagonista o si è ampiamente avvalso nel suo cursus honorum1; ciò in un continuo crescendo sino alla richiesta di dimissioni di tutti i consiglieri coinvolti nella vicenda avanzata dal presidente dell’Associazione magistrati all’esito di un riunione ad hoc della giunta esecutiva centrale.

Sui versanti politico, mediatico e dell’avvocatura, poi, è stato un susseguirsi di j’accuse contro le “correnti” (individuate come vero “cancro della giustizia”) e di invocazioni di riforme del Csm (anche con la scelta per sorteggio dei suoi componenti), di separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri e finanche di revisione del principio di obbligatorietà dell’azione penale (sic!).

Nonostante le molte reazioni l’impressione è che, ancora una volta, sfugga, per superficialità o per scelta, la reale entità dei problemi e dei rimedi necessari e si oscilli tra il gattopardismo (in cui si prospettano riforme di facciata perché tutto resti com’è) e la volontà di regolare i conti su questioni che nulla c’entrano con la vicenda in corso (come, appunto, la separazione delle carriere o l’obbligatorietà dell’azione penale).

Concentrando l’attenzione e le critiche esclusivamente sul Csm, infatti, non si considera che, come dimostrano i precedenti sin qui ricordati, il cuore del problema sta, prima che nell’organo di autogoverno, nel corpo stesso della magistratura. E questo vizio di analisi si riverbera, inevitabilmente, sulle soluzioni proposte.

Lo scandalo odierno era, per molti versi, uno scandalo annunciato. Il ruolo di Cosimo Ferri come cerniera tra la magistratura e il sottobosco (bipartisan) della politica è noto da lustri e «Magistratura indipendente», che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi. E da sempre l’adesione a «Unità per la costituzione» è una sorta di polizza assicurativa per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo. Di più, il Consiglio superiore – questo come quelli che lo hanno preceduto – non è un corpo a sé ma la realizzazione di ciò che vuole una parte consistente della magistratura (anche se – spero – non la sua maggioranza). Alla situazione attuale le correnti della magistratura (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui.

Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già più di un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera e che il divieto, pur ribadito durante il fascismo da una circolare del guardasigilli Rocco del febbraio del 1930, era sistematicamente violato, al punto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, si sentì in dovere di richiamarlo con il telegramma-circolare n. 2473 del 7 maggio 1940 in cui si sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla “meritata promozione”. Se poi posso citare l’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati.

È dunque alla situazione della magistratura che occorre fare riferimento se si vuole davvero incidere sulla sua “escrescenza” nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni.

3. Per questo non convincono le proposte sul tappeto, centrate sulla modifica del rapporto numerico tra laici e togati in Consiglio e sul sorteggio dei componenti dell’organo di autogoverno.

Non serve – ed è anzi controproducente – la proposta, contenuta nel progetto di revisione costituzionale sulla giustizia in discussione alla Camera («Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura»), di istituire due Consigli superiori – uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri – e di modificare, in essi, il rapporto tra membri togati e membri di estrazione politica rendendolo paritario (anziché di due terzi e un terzo) allo scopo di eliminarne la denunciata “politicizzazione”. Strana idea quella di contrastare i vizi e le degenerazioni di una istituzione attribuiti alla negativa influenza della politica aumentandone il collegamento con questa! È un’operazione assai simile a quella di affidare al lupo la tutela dell’incolumità di Cappuccetto rosso. Soluzione, dunque, peggiore del male denunciato e impraticabile per la “contraddizion che nol consente” (a meno che tutt’altro sia l’obiettivo perseguito).

Neppure serve la “bizzarra” proposta di scegliere mediante sorteggio i componenti del Consiglio. Idea curiosa, ma non archiviabile con un’alzata di spalle ché essa è oggi molto “gettonata” dentro e fuori la magistratura (con sostenitori bipartisan tra i quali si sono arruolati, da ultimo, Luciano Violante e Carlo Nordio), trova “sponde” in settori tradizionalmente schierati a sostegno di pubblici ministeri e giudici (come «il Fatto Quotidiano»), è fatta propria dal guardasigilli e da almeno una della forze di governo (dopo che, giusto un anno fa, Beppe Grillo la avanzò finanche per la scelta dei senatori) ed è entrata, come asserito strumento di democrazia, persino negli scritti di autorevoli studiosi2. Non interessa qui esaminare le controindicazioni politiche generali di tale strumento né segnalarne gli ostacoli di ordine costituzionale (almeno sino a che resterà in vigore l’art. 104, comma 4, della Carta fondamentale secondo cui i componenti magistrati del Consiglio sono eletti «da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie» e quelli laici «dal Parlamento in seduta comune») quanto, piuttosto, indicare le ragioni che lo rendono incongruo e inidoneo al fine dichiarato. In sintesi, il sorteggio non è un antidoto a clientelismo e malcostume. Potrebbe, forse, porre un freno alle cosiddette lottizzazioni nel conferimento di uffici direttivi, ma non è questo il sistema messo a nudo dallo scandalo Palamara-Lotti-Ferri, nel quale i “manovratori” appartenevano a due soli gruppi associativi e i due principali candidati alla Procura di Roma aderivano alla stessa corrente, sì che la scelta dell’uno o dell’altro non era legata all’appartenenza correntizia ma, in modo ancor “meno nobile”, all’asserita maggiore o minor “duttilità” nella gestione di indagini eccellenti. E, poi, affidare al caso la scelta dei componenti di un organo di rilevanza costituzionale (cosa che tutti riterrebbero assurda finanche per il consiglio di amministrazione di una qualsivoglia azienda) significa negare la complessità del sistema giudiziario e la necessità che il suo “governo” sia frutto del confronto dei diversi orientamenti e impostazioni ideali presenti, al riguardo, nel corpo giudiziario e nel paese.

Qualche “aggiustamento” al sistema elettorale del Consiglio potrebbe essere utile e opportuno (anche perché l’attuale legge elettorale, approvata nel 2002 e anche allora diretta, secondo i proponenti, a diminuire il peso delle correnti e la “politicizzazione” dell’organo di governo autonomo, è semplicemente pessima) ma non sta qui il cuore del problema ché, nella magistratura come in qualunque altro settore, la questione morale (o, come sarebbe meglio dire, la questione immorale) è legata non già agli assetti organizzativi e istituzionali ma a fenomeni che hanno a che fare con la cultura, le prassi, la tensione etica, i comportamenti dei soggetti coinvolti.

4. Se, dunque, si vuole avviare un percorso coerente per restituire alla magistratura e al suo organo di governo autonomo credibilità e autorevolezza la strada è tracciata e non ci sono scorciatoie né bacchette magiche. Occorrono, da parte dei magistrati e della politica (nei suoi rapporti con l’istituzione giudiziaria a cominciare dalla scelta dei componenti laici del Csm), segnali forti e visibili di discontinuità dal passato e un impegno pratico e progettuale moltiplicato. Ma nella direzione giusta: quella della ridefinizione dell’assetto, della cultura e delle prassi della magistratura, la cui involuzione burocratica e funzionariale degli ultimi anni (effetto anche dell’arroccamento corporativo conseguente alla lunga stagione del berlusconismo) ha favorito l’estendersi di malcostume e clientelismo, che – com’è noto – trovano terreno fertile nel corporativismo, nel pensiero unico e nel consociativismo.

L’antidoto ai fenomeni degenerativi in atto sta nel recupero del senso profondo della giurisdizione, della parità delle funzioni giudiziarie e dell’indipendenza (esterna e interna) di pubblici ministeri e giudici. Un recupero non facile ché il modello di magistratura a esso sotteso è stato sconfitto all’inizio del millennio, prima sul piano culturale e poi con le riforme ordinamentali dei ministri Castelli e Mastella (leggi 25 luglio 2005, n. 150 e 30 luglio 2007, n. 111). Si fondava – quel modello ‒ su “suggestioni” e istituti volti a disegnare una magistratura “diversa”, organizzata su basi egualitarie e democratiche e aperta a forme impegnative di partecipazione popolare, estranea ai circuiti del potere e capace di inverare il modello costituzionale (che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge e diversificati tra loro non per gerarchie ma esclusivamente per funzioni). La cultura che lo supportava è rimasta forte, pur tra alti e bassi, sino alla metà degli anni novanta. Poi, appunto, è stata sconfitta: per molte ragioni tra le quali spicca la seduzione, anche a sinistra, del nuovo verbo della “governabilità”.

C’è, anzitutto, da ridisegnare un modello di magistratura su cui chiamare a confronto la cultura politica e giuridica. È un’operazione di medio e lungo periodo ma non esorcizzabile. Solo così, infatti, è possibile uscire, subito, dalle secche del pensiero dominante dando agli stessi magistrati idee, prospettive e orizzonti diversi dalla pura gestione dell’esistente e dalle polemiche contingenti nelle quali sembrano contare solo i decibel dei “dibattiti” televisivi e le logiche di schieramento. In questo percorso vanno ripensati alcuni snodi fondamentali: il reclutamento dei magistrati, oggi effettuato con un concorso “di secondo grado” che ha prodotto una rinnovata selezione per censo, l’innalzamento del livello dell’età dei vincitori del concorso e l’incremento della connotazione burocratica dei nuovi giudici e pubblici ministeri (con conseguente profonda trasformazione sociologica del corpo giudiziario); il ruolo dei capi degli uffici, tuttora disegnati come veri e propri centri di potere, oggetto di appetiti e pressioni indebite all’atto della nomina, che dovrebbero invece essere ricondotti a una temporaneità vera e alla funzione di garanzia dell’indipendenza e della correttezza dell’attività dei colleghi (spostando nel contempo le responsabilità dell’organizzazione a persole amministrativo dotato di specifica competenza), come si conviene a una magistratura che si differenzia al suo interno solo per diversità di funzioni; l’impropria attribuzione ai magistrati di incarichi amministrativi, nel ministero della Giustizia e non solo, che crea un continuum tra politica e magistratura, spesso fonte di commistioni lesive dell’immagine (e talora anche della sostanza) di indipendenza di giudici e pubblici ministeri.

Tutto questo va fatto ma, prima ancora, occorre, almeno da parte delle componenti progressiste della magistratura, un’analisi attenta e una denuncia ferma delle cadute, delle compromissioni, delle deviazioni che investono la giurisdizione, la sua organizzazione, l’associativismo giudiziario. Da sempre – in ogni ambito – il malcostume si contrasta evitando le coperture corporative e contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. Questa cultura – forte negli ultimi decenni del secolo scorso (grazie soprattutto all’elaborazione e agli interventi di «Magistratura democratica») – si è progressivamente attenuata sino a scomparire, lasciando il posto a un marcato consociativismo (dimostrato, per esempio, dalla prassi costante, o quasi, dei governi unitari, con rotazione nelle cariche, dell’Anm) e alla difesa dell’autogoverno comunque e a prescindere (mettendo la sordina alle polemiche sugli atteggiamenti clientelari e “deviati” di alcuni, forse nella convinzione di evitare così l’indebolimento dell’istituzione ma dimenticando che il Consiglio e le sue contingenti maggioranze non sono la stessa cosa ed è proprio la critica forte a queste ultime che salva la sostanza e l’immagine del primo). Lo dico in maniera un po’ brutale: il problema non sono le correnti ma, piuttosto, il loro venir meno, la loro trasformazione in un unico indistinto “correntone” in cui le differenze ideai e pratiche si attenuano sino a sparire. Ma ‒ le vicende di questi giorni sono lì a confermarlo ‒ senza un recupero della cultura critica e di prassi conseguenti non si uscirà dal pantano e non si faranno passi avanti significativi, qualunque siano i cambiamenti sul piano dell’ingegneria istituzionale3.

Non ci sono – come ho detto – bacchette magiche e ci vorrà tempo. Ma occorre almeno incominciare. E dalla parte giusta (e non dal suo contrario).

1 La denuncia di lottizzazioni e malcostume è vecchia come il Consiglio: personalmente ho cominciato a sentirne parlare quando sono entrato in magistratura, nel lontano 1970. Il fatto è che spesso gli autori delle denunce sono proprio coloro che maggiormente praticano i metodi denunciati o fanno parte dei gruppi più clientelari. Semplice esemplificare: nel Consiglio superiore 2006-2010, del quale entrambi facevamo parte, Cosimo Ferri era solito presentarsi come moralizzatore e difensore dei magistrati “senza protezioni”. Ma è stato così anche in epoca risalente come risulta, per esempio, da uno scritto del 1983 di Salvatore Senese, allora componente del Csm: «Il fenomeno così viene descritto nella prosa del consigliere Carmelo Conti del gruppo di Magistratura indipendente: “Non si guarda più tanto al vero merito, all’anzianità, al diritto, ma si fanno comparazioni e giochi delle candidature coi gruppi contrastanti, si sceglie a prescindere da quelli che dovrebbero essere elementi di valutazione coerenti e legali. La lottizzazione costringe il singolo magistrato interessato che conosce questo meccanismo perverso a girare per le segreterie dei partiti, a prostituire la propria personalità, a pericolosi compromessi”. Anche sulla rivista dell’Associazione magistrati le denunce non mancano: il n. 3/1982 pubblica, a firma rispettivamente di A. Bonajuto e U. Marconi, entrambi dirigenti nazionali della corrente di Unità per la Costituzione, articoli in cui si parla di “prassi degenerative”, di “distorsioni ed abusi” e di “logica di lottizzazione”» (S. Senese, Il Consiglio superiore della magistratura: difficoltà dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, «Questione giustizia», 1983, p. 477 ss.). Si noti che nel Consiglio a cui si riferiscono quei comportamenti i gruppi di «Magistratura indipendente» e di «Unità per la Costituzione», lungi dall’essere marginali (e dunque destinati a subire le prassi altrui), erano maggioranza schiacciante (e dunque in grado di dettare prassi e regole senza neppure doversi confrontare con gli altri).

2 È il caso, tra gli altri, del politologo francese Yves Sintomer, autore di Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa, Bari, Dedalo, 2008 (ed. originale francese 2007).

3 Una delle poche ragioni di speranza sta, per me, nel risveglio di «Magistratura democratica» che, dopo un decennio di appannamento culturale e di appiattimento corporativo, mostra incoraggianti segnali di ripresa occupandosi, finalmente, dell’analisi critica della magistratura e della giurisdizione più che di nomine e di incarichi.