di Lanfranco Binni
L’ultima Marcia della pace Perugia-Assisi del 9 ottobre 2016 ha messo a nudo i limiti di un “pacifismo” compatibile con le politiche di guerra della Nato e con il servilismo attivo del governo italiano. Alla concreta e radicale politicità (più che politica) della Marcia Perugia-Assisi costruita da Capitini nel 1961 come esperienza di «rivoluzione nonviolenta» e di «democrazia diretta», si è definitivamente sostituita una ritualità priva di contenuti, ma non vuota di politica, sulla base di un generico appello a non essere «indifferenti» alle tragedie della Storia, senza nominarle, senza indicare obiettivi e strategie di lotta. Dalla marcia del 1961 nacque una seconda marcia Camucia-Cortona nel 1962, ma soprattutto il tentativo di organizzare una Consulta nazionale, popolare e istituzionale, per sviluppare pratiche ordinarie di democrazia dal basso che coinvolgessero i piccoli gruppi di nonviolenti attivi, le scuole, le fabbriche, gli enti locali, in un processo di organizzazione del «potere di tutti» sui terreni dell’educazione alla pace e della costruzione di un «potere di tutti» a superamento di una democrazia rappresentativa oligarchica.
La marcia Perugia-Assisi, con il suo grande successo popolare, dimostrò che il senso di una “pace” attiva poteva agire in profondità nelle coscienze, aprendo conflitti tra le soggettività consapevoli e l’ordine sociale, scardinandone dal basso le catene di comando e liberando potenzialità inespresse e represse, agendo contemporaneamente in verticale nei singoli (tutti centri potenziali di «rivoluzione aperta») e in orizzontale nello scenario nazionale e internazionale. Quell’esperimento, che Capitini non ripropose dopo il 1962, acquisendolo come una delle «tecniche» possibili della nonviolenza, accanto ad altre tecniche di lotta nonviolenta come lo sciopero, il digiuno, il boicottaggio, il sabotaggio (e nel 1967 pubblicò con Feltrinelli Le tecniche della nonviolenza), era uno dei tanti strumenti di lotta attraverso i quali sviluppare processi politici di liberazione della «realtà di tutti» dal capitalismo, dall’imperialismo, dal razzismo, dal confessionalismo religioso, dalla violenza di istituzioni profondamente antidemocratiche. Questa proiezione sempre in avanti del Capitini «omnicratico», di esperienza in esperienza (dalle reti della cospirazione antifascista e liberalsocialista, ai Centri di orientamento sociale nell’immediato dopoguerra, all’obiezione di coscienza, al movimento nonviolento negli anni sessanta), di esperimenti concretamente e lucidamente organizzati, si interruppe con la sua morte prematura nel 1968.
Fu Pietro Pinna, uno dei più intransigenti allievi di Capitini, a riproporre e organizzare la marcia Perugia-Assisi nel 1978, nel 1981, nel 1985, sulla base di obiettivi politici precisi: contro il militarismo, contro l’installazione dei missili nucleari, per il blocco delle spese militari. Poi dal 1986, con l’istituzione di un «Coordinamento nazionale di enti locali per la pace», e nel 1996 di una «Tavola della pace», la gestione della marcia è stata assunta dal Pci umbro e dalle sue successive trasformazioni fino all’attuale Partito democratico: la marcia si è istituzionalizzata e ritualizzata come appuntamento genericamente pacifista. Oggi, e questo era il contesto della marcia del 9 ottobre, la lotta per la pace, più che mai necessaria e urgente, ha bisogno di precisi obiettivi politici: contro le politiche di guerra della Nato e dell’Europa, contro la partecipazione italiana alle guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libia, contro la partecipazione italiana al mercato e allo spaccio delle armi, per il rispetto del mandato costituzionale «l’Italia ripudia la guerra» in ogni sua forma.
Non questo è stato il messaggio della marcia del 9 ottobre, che ha fatto scomparire il contesto drammatico della guerra globale nelle nebbie di una buona volontà di pace incapace di nominare la realtà e di diventare movimento di lotta. La grande copertura mediatica assicurata dal governo è stata una riprova dell’assenza di contenuti critici. Della sua gestione rimarrà l’appello finale della «Tavola della pace» per il premio Nobel al papa. Ma, nonostante i limiti evidenti della sua gestione, che tra l’altro ha provocato la non adesione del Movimento nonviolento per la pace, resta la forza dell’impronta capitiniana, molto più forte di ogni deformazione e privazione di senso. Da qui bisogna ripartire. Apriamo il dibattito, a cominciare dalle scuole, dalle associazioni, dai Comuni: quale pace vogliamo?