di Rino Genovese
[È da poco in libreria, per la collana “La critica sociale” dell’editore Rosenberg&Sellier, il volume La legittimità democratica di Pierre Rosanvallon. Riproduciamo la postfazione di Rino Genovese]
A leggere questo libro di Pierre Rosanvallon, come gli altri recenti e meno recenti della sua vasta e perfino un po’ ridondante produzione, si tocca con mano come il periodo che stiamo vivendo sia segnato da una metamorfosi della democrazia. Si tratta di un mutamento storico che non può non riflettersi nella teoria: qualcosa di paragonabile, con tutte le differenze del caso, a ciò che avvenne nel corso dell’Ottocento. A quel tempo, sotto la pressione di un liberalismo conservatore che mirava a limitare il diritto di voto da una parte, e del socialismo dall’altra, che al contrario spingeva verso una democrazia non soltanto politica ma sostanziale, il modello che finì con l’affermarsi fu quello della democrazia rappresentativa basata sul suffragio universale e su un grado crescente di inclusione sociale. Una forma ibrida, nota anche sotto il nome di «democrazia liberale», ossimoro in cui si trovano riuniti insieme i principi fondamentali del liberalismo politico (come la concezione dello Stato di diritto o la separazione dei poteri) e quelli della sovranità popolare e del suffragio universale in quanto aspetti propriamente democratici. In questo quadro erano destinati a rimanere irrisolti i rapporti tra la democrazia e il liberalismo economico, che da una trentina d’anni a questa parte, com’è noto, ha ripreso prepotentemente vigore arrivando a mettere in crisi la stessa concezione dello Stato sociale (o Stato-provvidenza nell’uso terminologico francese), in cui a lungo era sembrato esprimersi il contenuto economico più autentico della democrazia e attraverso cui, a partire dalla ridistribuzione del reddito, si era giunti a prospettare una vera e propria ridistribuzione del potere a favore dei più svantaggiati. Ciò del resto era considerato non il risultato di una pura e semplice azione di governo dall’alto, ma il frutto del coordinarsi di questa con la spinta proveniente dal conflitto sociale dispiegato dal basso. Una visione dinamica della democrazia, la cui legittimità si radicava nello stesso processo di transizione da essa implicato, che nei paesi europei occidentali la rendeva gradita a larghe masse di popolo organizzate dai partiti di sinistra – il che appare oggi un lontano ricordo. Procede da qui la necessità della ricerca di un aggiornamento non di semplice facciata: come riqualificare una democrazia che ha perso gran parte della sua carica di trasformazione sociale e ha generato sentimenti di sfiducia diffusa?
La ricetta elaborata da Rosanvallon, se così possiamo chiamarla, consiste in una moltiplicazione delle fonti e dei momenti di legittimazione. Se per Max Weber la legittimità di un sistema di potere quale che sia (compresa la dittatura) è data da una credenza che la giustifica mediante il consenso che produce – una forma politica è legittima, quindi, in virtù del sostegno di una maggioranza di cittadini –, per Rosanvallon, che sfugge al plebiscitarismo implicito nella concezione weberiana, la legittimità è data dall’esistenza di una pluralità di autorità e di procedure, di cui quella elettorale è solo un aspetto, che approfondiscono la prospettiva di quel «posto vuoto» del sovrano individuato da Claude Lefort come caratteristica essenziale della democrazia. Stando a Lefort, infatti, le democrazie si distinguono dai vecchi regimi assolutistici e dai moderni totalitarismi perché quello che era il sovrano, il re o il despota, è sostituito da un principio di autorità del tutto generico e astratto, non incarnato e non incarnabile compiutamente da nessuno. Né Rosanvallon né il suo maestro Lefort, tuttavia, si spingono fino a mettere in questione il principio stesso della sovranità popolare, usurato oggi al punto da essere invocato sia in chiave antioligarchica (in particolare quando si sostiene che nel clima postdemocratico le élites e i gruppi di pressione hanno confiscato il potere a loro vantaggio) sia da chi se ne fa beffe intendendo piuttosto saldare un ceto politico a un popolo in chiave neoplebiscitaria.
È indubbio che agli albori della modernità nozioni come quelle di sovranità popolare e di volontà generale abbiano giocato un ruolo di punta nell’affermazione delle istanze democratiche. Ma è altrettanto fuor di dubbio che una concezione come quella di Rousseau – che nel pieno dei rivolgimenti tra Settecento e Ottocento sembrò esprimere quelle istanze in modo esauriente – poteva essere efficace solo in repubbliche dalle dimensioni ridotte di una città-Stato, non in una democrazia di massa come quella che di lì a poco si sarebbe profilata. Il principio di maggioranza nelle decisioni collettivamente vincolanti era quindi già intervenuto a temperare gli spiriti dei più accesi sostenitori della democrazia diretta, che non riesce a funzionare se non in piccole assemblee e in fondo non sarebbe concepibile senza la possibilità di una reversibilità delle deliberazioni: cosicché ciò che la volontà generale esprime in un dato momento può essere rovesciato nel momento successivo, quasi che la democrazia consista in un atto decisionale di volta in volta effimero e puntuale. La tendenza unanimistica implicita in questa visione esponeva giocoforza al rischio plebiscitario. E infatti il bonapartismo la strumentalizzò facilmente, presentando se stesso come la quintessenza di una democrazia che non si accontentava di lasciare vuoto il posto del sovrano ma proponeva l’incontro di un uomo e un popolo (come in seguito avrebbe detto De Gaulle). Così, per converso, l’ibrido liberaldemocratico ebbe modo a poco a poco di farsi largo se non altro come male minore rispetto a una teoria democratica di derivazione rousseauiana che finiva con l’essere autocontraddittoria.
Il lessico politico novecentesco arrivò poi a complicarsi mediante l’introduzione di termini quali «democrazia totalitaria», «stato di eccezione», «decisione sovrana» e simili – tutti in vario modo con le radici nella Repubblica di Weimar che, tra le due guerre, ebbe a sostenere al massimo grado la tensione con il suo fatale sbocco autoritario. Si cercava, mediante queste nozioni, di mettere a fuoco i problemi della democrazia di massa nell’ottica di una teologia politica che aveva proprio nel concetto di sovranità il suo nucleo. Certo, la «sovranità popolare» è il portato storico della secolarizzazione di una precedente sovranità che, nell’assolutismo d’ancien régime, aveva il suo fondamento ultimo in Dio. Ma è appunto il suo svuotarsi che, sviluppato fino alle sue logiche conseguenze, spinge a sbarazzarsi di una siffatta attrezzatura teorica. Non si tratta più, e in sostanza non si è mai trattato, unicamente della secolarizzazione di un concetto teologico: anzi, è il concetto stesso di sovranità che richiede di essere messo da parte e superato.
Riguardo all’opera di Rosanvallon, ciò significa assumerla nella pars destruens (soprattutto storica) puntando ad andare più lontano di quanto lui stesso non faccia nella pars construens (soprattutto teorica). Come si ricava dal suo testo, finanche l’imprescidibile momento elettorale, con l’annesso principio di maggioranza secondo cui chi vince le elezioni governa, non è che convenzione e procedura: è il risultato di un aggiustamento, non poggia su alcun fondamento e non costituisce, perciò, alcuna unzione popolare del potere. La pluralizzazione delle fonti e dei momenti di legittimazione democratica è la necessaria premessa di uno smontaggio della sovranità popolare al fine di condurne a termine lo svuotamento in maniera positiva. Se il posto del sovrano è destinato a restare vuoto – e se si deve rifuggire da ogni tentativo di riempirlo in maniera plebiscitaria –, le nozioni introdotte da Rosanvallon (l’imparzialità, la riflessività, la prossimità) servono a mostrare come non sia valida alcuna teologia politica secolarizzata. È nello spirito di un radicale approfondimento del lato liberale della democrazia liberale che Rosanvallon compie la sua opera di pluralizzazione, mostrando come non vi sia un’autorità centrale cui riferirsi in ultima istanza per legittimare la democrazia, le fonti di legittimazione essendo per loro natura decentrate. Rispetto a quella classicamente liberale, però, ci troviamo sul piano di una separazione dei poteri ulteriore che vede il proliferare delle corti costituzionali, delle autorità di garanzia, dei giurì, dei comitati cittadini e simili, nell’esercizio delle loro funzioni di controllo differenziate.
Ciò si riflette, sul versante democratico della democrazia liberale, nella prospettiva di una diffusione del potere sempre maggiore. Sebbene Rosanvallon, che pure è stato in contatto con Michel Foucault, non sembri avere tratto particolare beneficio nel proprio lavoro dalla critica dell’idea di sovranità da questi sviluppata, è dalla rottura teorica con qualsiasi centralità del potere di tipo puramente statale (e sovrano) che sorge la possibilità di vederne l’articolazione in una quantità di poteri e contropoteri tra loro in competizione e in contesa. La democrazia diventa allora il campo di gioco tra principi di legittimazione diversi, talvolta complementari, talvolta tesi a escludersi reciprocamente, entro cui il superamento della «sovranità popolare» avviene ogni volta di nuovo nel senso di minoranze che, con il loro dissenso, prendono la parola e pongono se stesse come virtuali maggioranze nella ricerca di un consenso in grado di sostenerle. La stessa tematica della legittimità, pur senza scomparire del tutto, diventa allora secondaria rispetto alle attribuzioni di potere che mirano a rendere visibile, e al tempo stesso a delegittimare, questa o quella presunta autorità ritenuta oppressiva o non in linea con le nuove istanze che si vanno affermando (un esempio storico significativo, in Occidente, è dato dal movimento femminista nella sua contestazione del potere maschile).
Nel restare troppo chiuso nell’analisi delle forme istituzionali di pluralizzazione del potere si può forse scorgere il limite del discorso attuale di Rosanvallon, che pure in passato è stato sostenitore di un socialismo dell’autogestione. Egli appare più interessato alla descrizione della democrazia nella sua metamorfosi odierna che al problema del suo aprirsi a un futuro possibile, del suo essere in transizione a partire dalle forme non istituzionali generate dal riproporsi del conflitto sociale. C’è una differenza, com’è ovvio, tra un’anarchia non organizzata e la democrazia che richiede sempre di nuovo organizzazione, quindi anche istituzionalizzazione. Ma essa non potrebbe vivere senza avere in sé un anticorpo anarchico che, nell’impossibilità di una solida base d’appoggio e di linee guida definite una volta per tutte, la trattiene dallo sprofondare in una morta gora.