di Angelo Tonnellato
Sul “Ponte online” leggo una breve nota, intitolata E la Costituzione? La riporto per comodità di discussione e per immediata evidenza di qualcuno cui fosse eventualmente sfuggita:
In seguito alla fornitura di armi all’Ucraina da parte del governo italiano, riportiamo il dettato dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica italiana: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Ogni commento è superfluo.
Se «Il Ponte» si fosse limitato a trascrivere, a monito o memento, l’art. 11 Cost., non avrei avuto alcuna chiosa da apporre. Per la semplice ragione che la norma in questione non si limita a ripudiare la guerra dal punto di vista italiano, ma di qualunque popolo aggredito, invaso, inseguito, braccato, bombardato e cannoneggiato nelle sue città, campagne, piazze, ospedali, scuole, fabbriche, porti, aeroporti, strade e stazioni. Quindi – e desidero dirlo con la massima chiarezza possibile – oggi l’art. 11 Cost. parla ucraino e protegge chiunque resista all’invasione terroristica dell’esercito russo.
Me ne sarei stato zitto perché la semplice e bastante citazione dell’art. 11 Cost. fornisce solidarietà giuridica, morale, politica e sociale agli ucraini.
E ciò rimane fermo e indiscutibili quali che siano o si suppone che siano i grovigli retrostanti o immanenti al contenzioso che, a detta dell’inverecondo e sudicio starnazzare dei putinisti nostrani, avrebbe reso inevitabile la guerra che proprio quella norma ripudia negando categoricamente all’aggressione di poter mai essere «strumento di risoluzione» di qualunque crisi.
Io non sono ovviamente «Il Ponte»; spero che non lo sia, autore singolo o collettivo, neanche chi ha scritto i due righi che accompagnano il testo dell’art. 11 Cost.
Della rivista fondata da Calamandrei sono solo uno sperduto «lettore di provincia» (spero almeno senza “effetto Serra”), che ha però bene in mente – e nel cuore – ciò che una volta Salvemini scrisse a un suo corrispondente: «Solo al “Ponte” mi sento a casa mia». Nel mio piccolissimo, anch’io la penso come Salvemini riguardo al dove stare e sentirmi di casa. Ed è come infinitesimale e marginale abitatore del tempo lungo di questo “luogo”, calamandreiano e salveminiano, che non appartiene solo alla memoria, ma alla concreta azione nel presente, che ritengo di dover esprimere un nettissimo dissenso da chi, con un accostamento inaccettabile, ha voluto indicare nella fornitura di armi all’Ucraina l’elemento di violazione dell’art. 11 Cost.
Spero di sbagliarmi, ma temo che il collegamento, nella nota pontiera, della evocazione dell’art. 11 Cost. alla fornitura di armi all’Ucraina tenda a dare per scontata e indiscutibile – «ogni commento è superfluo» – una rilettura “neutralista” dell’art. 11 Cost. Il che – quanto volontariamente o involontariamente non saprei dire, ma è proprio ciò che vorrei come lettore conoscere – rischia di fare consuonare quella de «Il Ponte» con le posizioni del pacifismo stalinista di molti sinistrati di sinistra, di ampie frange della Cgil, di cui ho deciso dopo 35 anni di non rinnovare più la tessera, e dell’Anpi, di cui per fortuna non l’ho mai avuta.
Peggio ancora qualcuno potrebbe pensare a una vicinanza de «Il Ponte» ai sudici “carristi” italiani e non agli ucraini che resistono e ai russi che si fanno arrestare per protestare contro la guerra scatenata dal loro dittatore.
La sorte non ci risparmia niente: da una parte, un comico che si è trasformato in eroe; dall’altra, nostri professori, chi emerito e chi assai meno, degradatisi al livello di buffoni e giullari di Putin. Ma si sa che, quale che sia il regime in cui vivono, non mancano mai tra i professori italiani quelli che riescono sempre a dare il peggio di sé.
Detto questo, ritorniamo alla nota da cui ho preso le mosse, limitatamente alle poche parole che precedono e alle ancora meno che seguono la trascrizione dell’art. 11 Cost.
Piaccia o dispiaccia – non nascondo che potrei anche compenetrarmi delle nobili ragioni degli eventuali dispiacentisi – l’art. 11 Cost. non è una norma neutralista1. Se fosse una norma egoisticamente neutralista essa non porrebbe e non proclamerebbe un principio giuridico e morale ma fonderebbe il costituzionalismo dei renitenti.
È vero che durante i lavori della Costituente alcuni generosi esponenti della cultura socialista e cristiano-socialista si batterono per stabilire in Costituzione il principio “forte” del «pacifismo assoluto» (proposta di Umberto Calosso, Psli); la dichiarazione dell’Italia quale paese «neutrale in perpetuo» (proposta di Arrigo Cairo, Psli); il contenimento delle spese militari entro un tetto mai superiore a quello delle spese per la pubblica istruzione (ancora Calosso); la non obbligatorietà del servizio militare (ancora Cairo). Chi tuttavia conosce, anche solo attraverso scampoli di cruciverba, la storia dell’elaborazione della Costituzione dovrebbe sapere che l’emendamento neutralista di Cairo fu travolto da una valanga di no (332): solo 32 costituenti lo sostennero; e solo tre, ancorché di grande peso, preferirono astenersi anziché votare contro: Aldo Moro, Benigno Zaccagnini e Giulio Pastore. Non migliore sorte ebbero le altre proposte.
La proposta di Cairo, tra l’altro, recuperava un tentativo di Calamandrei, Lussu e Valiani di incardinare alla Carta un principio neutralista, che però non mirava a fare dell’Italia una pilatesco-affaristica Svizzera, ma il motore di un progetto che attraverso la «rinunzia alla guerra» alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa come terzo protagonista fra i due blocchi. Un disegno forse non privo di velleitarismo e anche di un qualche tasso di “impoliticità”; ma, perciò stesso, ripugnante a qualsiasi riduzione all’orizzonte dei nostri miserabili “carristi”.
L’idea degli azionisti non solo perseguiva la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, ma ne presupponeva e implicava il “non allineamento”; e il “non allineamento”, in quegli anni aspri, avrebbe potuto presentarsi in mille modi, ma non certo disarmato.
Come che sia di ciò, l’art. 11 Cost. vigente non è costituito dalla sola dichiarazione di ripudio della guerra, ma da concatenazione stringente e intrinsecamente riluttante a anatomie dissezionanti fosse pure sul solo piano ermeneutico2 che, riferendosi «all’atteggiamento da assumersi dall’ordinamento italiano in tema di sicurezza nei rapporti internazionali era destinata a bilanciare il principio del ripudio della guerra inserito nella prima parte dell’articolo 11». Formulando questa considerazione, Giuseppe de Vergottini ha altresì osservato:
Contrariamente alla superficiale lettura impressa dal movimento pacifista, da una analisi obiettiva e sistematica dell’intero articolo emerge che in tema di sicurezza nei rapporti internazionali i costituenti avevano assunto una duplice determinazione di indirizzo, a valere per i futuri orientamenti degli organi costituzionali: divieto della guerra, salva quella di legittima difesa, ma ad un tempo inserimento dell’Italia nel quadro di organizzazioni internazionali di sicurezza collettiva finalizzate alla promozione della pace e della giustizia. Che quest’ultimo indirizzo, una volta attuato, potesse comportare il vincolo del rispetto di clausole degli accordi di sicurezza collettiva implicanti il ricorso alla forza armata, ovviamente nel rispetto dei principi fissati in sede ONU, ed eventualmente all’impiego della violenza bellica, sfuggiva inizialmente all’attenzione generale ma sarebbe diventato in seguito di tutta evidenza. L’avere trascurato la importanza della seconda parte dell’articolo 11 nel considerare il rapporto pace/guerra si è rivelato un grave errore di prospettiva storica. In effetti è vero che i costituenti dettero una sicura preminenza al valore della pace ripudiando la guerra ma è anche vero che vollero fermamente l’inserimento dell’Italia nell’ordinamento delle Nazioni Unite e, comunque, in quei gangli organizzativi responsabili della sicurezza collettiva che si sarebbero variamente articolati nel corso del tempo nel quadro delle stesse Nazioni Unite (Alleanza atlantica e sua organizzazione, UEO, OSCE e più recentemente la PESD e la PESC in seno alla Unione Europea). Abbiamo individuato e qualificato tale volontà come un vero e proprio principio costituzionale di non isolamento dal circuito politico internazionale. Il non isolamento, che implica una coincidenza col principio solidarista nei rapporti internazionali di cui è un aspetto, ha effettivamente guidato la politica estera e della sicurezza di tutti i governi e le maggioranze della Repubblica. La volontà di non isolamento spiega in modo chiaro perché i costituenti rifiutarono in modo esplicito di affermare in costituzione il principio di neutralità. […] È appena il caso di sottolineare che, se la volontà di ripudio della guerra avesse avuto veramente una portata assoluta, logica avrebbe voluto che non ci si fermasse a statuire un semplice ripudio, concetto ideologicamente forte ma giuridicamente vago e indeterminato, bensì si inserisse in costituzione il concetto di neutralità, concetto tradizionalmente impiegato per descrivere la sottrazione di uno stato alla guerra, concetto ben più rigoroso e garantista, definibile giuridicamente e pacificamente rilevante per il diritto costituzionale ed internazionale. Ciò non è avvenuto e non per caso in quanto, come detto, i costituenti erano determinati a collocare l’Italia nell’ambito degli stati protagonisti della politica internazionale e anche se in modo condizionato accettavano il rischio della partecipazione alla guerra. […] Che la guerra fosse considerata, pur se con le dovute cautele, come evento non impossibile per l’Italia emerge poi dai numerosi riferimenti dedicatile nel testo costituzionale altrimenti non giustificabili (cfr., oltre all’articolo 11, gli articoli 52, 78, 87, comma 9, ma anche i riferimenti al tempo di guerra in altre disposizioni: 27, comma 4; 60, comma 2; 103, comma 3; 111, comma 8)3.
Forse de Vergottini è addirittura troppo ottimista o illuminatamente speranzoso nel tenere fermo alla guerra difensiva come unica possibile eccezione al ripudio costituzionale che, a parte alcune sistemazioni assai risalenti e perciò legate a una concettualizzazione dell’art. 11 Cost. come dettato quasi del tutto privo di effettività giuridica, solo dalla guerra del Golfo in poi è venuto radicandosi con una progressiva pregnanza nella elaborazione dei costituzionalisti.
Alla vigilia dell’attacco, rilevato, senza incertezze, che la guerra all’Iraq non poteva in alcun modo essere ritenuta difensiva, e che essa e la partecipazione italiana dovessero essere senz’altro considerate contrarie alla Costituzione, Massimo Luciani osservava che nella nostra Carta «il ripudio non è un semplice rifiuto, ma un rifiuto accompagnato da una condanna (morale e giuridica)» 4. Anche questa ultima era una posizione non certo maggioritaria in una dottrina che a prezzo di grande fatica e di molti anni stava superando le elaborazioni che avevano preferito privilegiare l’enfatizzazione del profilo morale dell’art. 11 come via o mezzo attraverso cui negare o attutire la cogenza giuridica5.
Ritorniamo a Luciani, secondo cui l’art. 11 «[n]on è anche, tuttavia, una totale rinuncia alla guerra».
Anche al prisma euristico del costituzionalista non manca qualche opacità, indipendente dalla volontà o dalle capacità ermeneutiche dello studioso: «Se la guerra difensiva (anche a sostegno di alleati aggrediti) è consentita e anzi, in caso di attacco diretto al nostro paese, doverosa, le altre ipotesi di guerra sono illegittime. […] Per sapere se il nostro paese possa legittimamente partecipare ad operazioni di guerra, allora, bisogna chiedersi se quella guerra sia o non sia difensiva. Se non lo è, la si deve ripudiare. Questo è forse il punto più delicato, ed è probabile che la nostra Costituzione debba essere interpretata in modo adeguato alla nuova realtà dei fatti, che ci fa capire come […] la fattispecie della guerra difensiva non possa più essere limitata all’ipotesi di reazione a un’aggressione» (tutti i corsivi della citazione sono miei).
Ed è in questa necessità di interpretare «in modo adeguato alla nuova realtà dei fatti» che si specchiano oscurandosi i profili più spinosi e diffrattivi di una questione che, a tacere d’altro, nel ventennio intercorso dall’articolo di Luciani è diventata ancora più difficile da districare con nettezza. La guerra a fianco di alleati aggrediti, in realtà, non è espressamente prevista dalla Costituzione, che però la fa entrare nel suo perimetro proprio in virtù di quella seconda parte dell’art. 11 Cost. apertamente ricettiva e addirittura sollecitatrice dei patti e degli accordi internazionali per promuovere e tutelare la pace e la giustizia. Non beninteso, per promuovere o tutelare la pace oppure la giustizia, ma entrambe. Ciò per cui si potrebbe paradossalmente ma non irragionevolmente chiedersi quale sia la sorte dell’art. 11 Cost. quando nessuna delle organizzazioni internazionali cui l’Italia attualmente aderisce persegue entrambi e contestualmente – cioè in riferimento alla stessa crisi o intreccio condizionato e condizionantesi di crisi – quegli obiettivi. E non solo perché, eventualmente avendoli, non riescano quelle organizzazioni a perseguirli effettualmente, ma in quanto non si propongano neanche più di perseguirli per fallimento dell’oggetto sociale.
Anche la severa disamina di de Vergottini lascia sedimentare, tra le interlinee di un’argomentazione a prima vista persuasivamente compatta, qualche grumo d’incertezza:
Dunque la lettura odierna dell’articolo 11 ne comporta una interpretazione organica che tenga conto non solo del principio-valore della pace, che traspare con evidenza dal ripudio della guerra, ma anche del chiaro inserimento dell’Italia nel tessuto dei rapporti internazionali che comporta la promozione e partecipazione a organismi di sicurezza e a coalizioni occasionali implicanti limitazioni di sovranità. Ad un tempo comporta l’esigenza di tenere conto di quella che è l’odierna realtà del fenomeno guerra che si presenta del tutto lontana da quella che era attuale al termine della seconda guerra mondiale. A tale lettura aggiornata del testo costituzionale fanno implicito riferimento gli sviluppi legislativi che si sono resi necessari per fare ordine nel campo delle missioni militari all’estero ribadendo, tra l’altro, per alcune missioni (Iraq e Afghanistan) l’operatività della legge penale di guerra, come pure la vincolatività degli impegni internazionali prevista dal nuovo testo dell’articolo 117 della costituzione e dalle sue norme attuative. Per quanto riguarda la compatibilità degli interventi svolti fino ad oggi rispetto al vincolo posto dalla prima parte dell’articolo 11, resta fermo che non basta far riferimento a quanto consentibile dalla previsione della seconda parte per giustificarne la ammissibilità. Per far questo occorrerebbe accertare in concreto se la determinazione assunta sulla base del vincolo internazionale diretta a far ricorso all’impegno militare di natura bellica consenta di verificare il rispetto della finalizzazione alla pace e alla giustizia come voluto dalla costituzione. Il che risulta problematico anche quando l’intervento è nominalmente giustificato da esigenze di difesa o da ragioni umanitarie (come ad esempio nel caso recente dell’attacco alla Libia)6.
Tutto chiaro? Certamente no. Tutt’altro. Intendo dire che il quesito al quale occorre che sia data risposta – e non certo dai soli costituzionalisti – è se una Costituzione che proclami con la nettezza della nostra il ripudio di qualunque guerra d’aggressione, senza tentennamenti dichiarando parallelamente aggressiva qualunque guerra attuata con pretese di risoluzione di un contenzioso internazionale, indipendentemente dalla risolvibilità del contenzioso stesso, possa rimanere inerte in cospetto di una guerra terroristica che il belligerante qualifichi, bontà sua, come “operazione speciale” o complesso di “operazioni speciali” tendenti alla distruzione del paese aggredito e alla riduzione dello stesso alla resa a discrezione. Perché questo è l’intento del terrorismo del Cremlino.
E non sarebbe una tale inerzia o fin de non recevoir il modo per far rientrare in Costituzione l’indifferentismo neutralista che la dottrina concordemente esclude che sia nella scaturigine dell’art. 11 Cost.?
Perché di fronte all’impossibilità dell’Onu ad agire concretamente, e non solo esortativamente, per la giustizia e per la pace, è certamente da escludersi che non si possano o non si debbano fornire armi agli aggrediti.
Ma ho il sospetto che quanti esortano a non prendere iniziative al di fuori del perimetro dell’Onu vogliano dire, in modo soltanto più vile, che Putin ha ragione e che se non ha ragione che si prenda pure l’Ucraina tanto mica siamo noi gli ucraini.
Dell’impotenza dell’Onu, vero filo rosso dei settantasette anni ormai trascorsi dalla Carta di San Francisco (26 giugno 1945) a oggi, non è necessario purtroppo dir molto, se non che essa sia pervenuta a uno stadio di incurabilità e irreversibilità senza rimedio.
Forse è un’implosione che non poteva essere umanamente evitata. Per sottrarre le Nazioni Unite al destino di fallimento epocale che aveva segnato tutte le precedenti esperienze di organizzazione internazionale, e massimamente la Società delle Nazioni, l’Onu fu costruita attorno a un pilastro portante – i vincitori della seconda guerra mondiale – sul presupposto che i cinque grandi, costituiti in posizione egemonica, avrebbero trasferito la loro autorevolezza e garantito la loro forza alla nuova organizzazione. In realtà quel pilastro si rivelò fin da subito una gabbia; e, a parte alcune decisioni, che in tre quarti di secolo si possono contare sulle dita di mezza mano, da quella strategia è venuta fuori una società di diseguali, in cui i vincitori della seconda guerra mondiale, dominando secondo diritto ma non secondo giustizia l’unico organismo veramente esecutivo, il Consiglio di sicurezza, hanno finito con il paralizzarlo. L’Onu, si sa, non possiede una sovranità concorrente con quella degli Stati membri; ma proprio la gabbia costruita dai cinque grandi ha reso impossibile qualunque limitazione di sovranità degli Stati membri a un soggetto che incarnava e incarna la diseguaglianza degli associati. L’Italia, proprio in virtù del dispositivo di cui all’art. 11 Cost., non avrebbe mai potuto limitare la sua sovranità perché il Consiglio di sicurezza è la prova ictu oculi della mancanza delle richieste «condizioni di parità con gli altri Stati».
Quindi è proprio il congegno che avrebbe dovuto reggere e regolare il funzionamento del Consiglio di sicurezza – unico organo Onu legittimato a disporre un intervento armato per mare, cielo e terra – ad averlo in realtà paralizzato e consegnato a un destino di impotenza e superfluità.
In queste condizioni chiedere all’Ucraina di affidare a una trattativa con Putin il regolamento del conflitto è solo un’istigazione al suicidio. O meglio, è il modo vile per chiudere la partita facendo finta di volerla sottomettere a una garanzia internazionale.
Per non arrendersi a Putin senza alcuna garanzia l’Ucraina può solo continuare a combattere.
Lo stesso art. 51 dello Statuto dell’Onu – «nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, qualora abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni unite, fintanto che il Consiglio di sicurezza abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale» – è una norma sostanzialmente eunuca. Perché «il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva» di cui lo STatuto blatera non perdura finché perduri l’accertata e indiscutibile impotenza del Consiglio di sicurezza, ma, al massimo, solo finché l’aggressione militare non sia dall’aggressore stesso fermata per raggiungimento dell’obiettivo proposto o per altra sua opportunità o impossibilità:
L’attacco, è evidente, è presente solo in quanto in atto (o in corso), mentre dopo che si è compiuto non potrà più parlarsi di attacco, con tutta la pregnanza che l’espressione ha come indicazione di un’azione forte ed attiva, bensì si sarà in presenza di una violazione ormai conclusa o consumata7.
La legittima difesa che l’Onu riconosce è solo quella esercitata dall’aggredito, e da chi voglia soccorrerlo, mentre l’aggressione è in corso; e quindi per «uno scopo meramente difensivo, ossia lo scopo di reagire all’illecito (…) senza ulteriori scopi che abbiano un carattere punitivo, o anche riparatorio nei confronti dell’autore»8. Dichiarare in contrasto con la nostra Costituzione la fornitura di armi è un atto di ingenuità oppure di irresponsabilità oppure è un modo subdolamente vile per spingerli a una resa incondizionata irrimediabile dall’Onu e dal diritto internazionale. Un diritto internazionale disarmato è una modalità di passare il tempo componendo ottonari e anacreontiche, come faceva a Napoli il giudice della reazione borbonica Incarriga.
Invitare gli ucraini a dare a Putin quello che vuole significa invitarli a rinunziare ad esistere come popolo libero e indipendente. Mai come in questo caso il punto di vista morale e il punto di vista del diritto internazionale coincidono, sia pure per stridente opposizione. Il diritto internazionale, nell’impotenza ormai irreversibile dei suoi fori, non è in grado di fermare l’aggressione e, fermata che questa fosse dall’aggressore, la volontà del vincitore sarebbe, a norma dello Statuto, la pace al cui mantenimento l’Onu si fermerebbe. Come ha scritto un eminente giurista, Umberto Allegretti, «si può aprire una falla – nell’eventualità che il Consiglio [di sicurezza dell’Onu] non sappia o non riesca a realizzare misure efficaci – nel ripristino della legalità internazionale violata, ma ciò accade perché il fine del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è ritenuto prevalente rispetto a quello della prevenzione e della repressione delle violazioni del diritto internazionale, o meglio che questo secondo fine si realizza solo nella misura in cui si può realizzare il primo»9. Senza nessuna irriverenza verso l’illustre autore, il contorto periodo si potrebbe tradurre in italiano così: «se un aggressore riesce a portare a compimento l’aggressione e ad imporre ai vinti la sua pace, turiamoci il naso e accontentiamoci». Se poi lo stesso principio volessimo tradurlo in napoletano, le parole necessarie sarebbero assai di meno: «Chi ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato».
Caro Angelo,
grazie per questa dotta ricostruzione della storia dell’art. 11 della Costituzione. Ho messo sul Ponte online la notazione «ogni commento è superfluo» per affermare che le controversie internazionali non si risolvono con le armi, cioè con la guerra. Questo non vuol dire che Il Ponte è dalla parte di Putin. Anzi, tutt’altro. Ogni aiuto all’Ucraina – cibo, vestiario, medicinali, denaro – ma le armi no. Le armi servono alla guerra dall’una e dall’altra parte, una guerra che per gli ucraini comporterà la morte di una parte notevole della popolazione. Proprio pensando agli ucraini e a ciò che stanno subendo occorre ricorrere senza alcuna esitazione agli accordi diplomatici e non all’invio di armi. Questa la posizione del Ponte: del Ponte di Piero Calamandrei, di Enzo Enriques Agnoletti, di Aldo Capitini e del Ponte di oggi.
Marcello Rossi
1 La bibliografia sulla guerra nella nostra Costituzione e la riflessione costituzionalistica sull’art. 11 sono assai ampie e difficilmente compendiabili, ancorché per indices, in una nota. Per evitare il sospetto di pretermissione delle opinioni da cui dissento rinvio, perciò, innanzitutto, alla rispettabile e pensosa interpretazione assolutizzante del principio di cui all’art. 11 Cost. fornita da Marco Benvenuti, Il principio del ripudio della guerra nell’ordinamento costituzionale italiano, Napoli, Jovene, 2010, pp. 67-113. Questo A., a partire dal riconoscimento del principio in parola come «interrelato» alla Costituzione (pp. 115 ss.), coerentemente con la sua ricostruzione e con una linea argomentativa molto stringente, lo ritiene finora «inapplicato» (pp. 141 ss.). Si vedano anche, e pluribus, Daniele Cabras, Il «ripudio della guerra» e l’evoluzione del diritto internazionale, «Quaderni costituzionali», 2006, n. 2, pp. 297-322; Gianni Ferrara, Ripudio della guerra, rapporti internazionali dell’Italia e responsabilità del Presidente della Repubblica. Appunti, «Costituzionalismo.it», 2003, n. 1, monografico dedicato a Guerra. Costituzionalismo alla prova.
2 Sul punto, peraltro di capitale importanza, si veda Lorenza Carlassare, L’art. 11 sulla pace e sulla guerra: quali garanzie?, «Annali dell’Università di Ferrara», N.S., Sez. V, Scienze giuridiche, II (1988), pp. 20-23 e, più recentemente e specificamente, della stessa studiosa, L’art. 11 Cost. nella visione dei Costituenti, «Costituzionalismo.it», 2013, n. 1, pp. 11-12 sulle «interpretazioni riduttive dell’art.11» attraverso «l’invenzione dei tre commi».
3 Giuseppe de Vergottini, Il crescente uso della forza: riflessi costituzionali, «Rivista telematica giuridica dell’Associazione italiana dei costituzionalisti», 2012, n. 2, spec. pp. 5-6. Cfr. anche, dello stesso A., Guerra e costituzione. Nuovi conflitti e sfide alla democrazia, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 42 ss., 64 ss.
4 Si veda Massimo Luciani, Costituzione, alleanze e conflitti, «La Stampa», n. 77, 19 marzo 2003, p. 1 (articolo di fondo).
5 Sull’art. 11 Cost., e la non beneaugurante risalenza del principio di rifiuto della guerra, come aspirazione costante e puntuale fallimento nel diritto internazionale, almeno al Patto Briand-Kellog del 1928, si vedano le importanti pagine di Giulio Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 181 ss. Con l’aiuto di questo libro (spec. pp. 185 ss.) si possono facilmente attraversare decenni di storia delle interpretazioni dell’art. 11 Cost. come «mero orientamento politico, solennemente dichiarato, e non di una vera e propria norma giuridica vincolante».
6 Giuseppe de Vergottini, Il crescente uso della forza: riflessi costituzionali, cit., p. 7.
7 Laura Forlati, «Legittima difesa secondo la Carta delle Nazioni unite e sanzioni delle Comunità europee», in Crisi Falkland-Malvinas e organizzazione internazionale, a cura di Laura Forlati e Francisco Leita, Padova, Cedam, 1985, 137 ss.
8 Pierluigi Lamberti Zanardi, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, Giuffè 1972, pp. 133-134, dove, peraltro, è importante notare che secondo questo autore l’autodifesa collettiva di cui all’art. 51 dello Statuto dell’Onu copre, in costanza di aggressione, anche il paese terzo, non necessariamente legato all’aggredito da un patto, che decida di soccorrerlo; pp. 276-284. E poiché uno non vale uno se non nei vaneggiamenti dei cervelli malati, i complici e soccorritori dell’aggressore sono aggressori anch’essi: «l’invio di bande armate, siano esse costituite da guerriglieri o da terroristi, non costituirà un’aggressione indiretta, bensì un vero e proprio attacco armato ai sensi dell’art. 51 quando tale invio sia direttamente imputabile a uno stato straniero, a nulla rilevando il loro carattere di truppe irregolari o mercenarie»: ivi, p. 260. Ciò per cui l’arrivo di tagliagole ceceni e soprattutto siriani, visto che i primi appartengono alla Federazione russa, ha già ampliato il numero degli aggressori.
9 Umberto Allegretti, Guerra del Golfo e Costituzione, «Il Foro Italiano», CXIV (1991), pt. V, Monografie e varietà, coll. 381-414, qui coll. 406-407.