Nel maggio del 1950, in un articolo dal titolo emblematico, Difendiamoci dal comunismo, don Luigi Sturzo aveva indicato alla Dc la linea da seguire per stabilire le modalità di nomina dei giudici della Corte costituzionale, la cui legge istitutiva era allora in discussione. Il messaggio era chiaro: «I comunisti, finché stanno all’opposizione non hanno diritto di partecipare all’amministrazione dello Stato e degli organi e degli enti» e, di conseguenza, non si potevano eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare col sistema del Regolamento della Camera, che prevedeva l’assegnazione di due posti alla minoranza.

L’iter della legge era stato sofferto, perché, come ricordava Calamandrei su questa rivista[1], vi erano stati quattro «viaggi di andata e ritorno» tra Camera e Senato per via degli emendamenti introdotti in relazione alla nomina dei giudici che dovevano essere scelti dal Parlamento e dal capo dello Stato.

Sulla base dell’indicazione di Sturzo, l’on. Riccio (Dc) aveva proposto che per l’elezione dei giudici eletti dal Parlamento fosse sufficiente la maggioranza semplice, per cui, scavalcando il Regolamento, tutti i giudici sarebbero stati nominati dalla coalizione di governo; poi per la massiccia opposizione dei partiti di sinistra e l’insostenibilità manifesta di questa posizione radicale, era stato deciso che la maggioranza necessaria doveva essere “qualificata”, almeno nella misura dei 3/5. Con i numeri allora esistenti in Parlamento, il governo non aveva la possibilità di eleggere tutti i giudici, ma con la prevista vittoria alle elezioni questo non sarebbe stato più un problema, vista l’entità numerica del premio.

Com’è noto, infatti, la legge elettorale varata in vista delle elezioni del giugno del 1953 prevedeva una distorsione dei principi della rappresentanza, in quanto stabiliva che la coalizione che avesse ottenuto il 50% più 1 dei voti avrebbe ottenuto il 65% dei seggi e cioè 380, mentre alle altre liste ne sarebbero spettati solo 209: per una simile maggioranza e con il contributo di alcuni volonterosi “soccorritori”, sarebbe stato perciò agevole raggiungere i 3/5 necessari dei parlamentari per nominare tutti i giudici di suo gradimento.

La coalizione guidata da De Gasperi confidava quindi nella vittoria e perciò aveva approvato la legge istitutiva della Corte proprio alla vigilia delle elezioni; l’ambito quorum non era stato però raggiunto, il premio non era scattato e la sconfitta elettorale aveva determinato quella personale di De Gasperi, che di lì a poco usciva definitivamente di scena.

Ma perché era così importante in quel momento la Corte costituzionale? Perché, a distanza di anni dal varo della Carta, erano rimaste in vigore le leggi con cui la dittatura aveva represso a suo tempo le opposizioni, il codice penale e il Testo di Pubblica Sicurezza in particolare, leggi che né i giudici avevano abrogato, né il governo centrista aveva eliminato.

La Cassazione, composta da magistrati che avevano fatto carriera sotto il fascismo, anziché dichiarare abrogate quelle norme perché «incompatibili» con i principi costituzionali (art. 15 delle Disposizioni sulla Legge in generale), si era inventata la distinzione tra norme programmatiche e norme precettive, per poter dichiarare programmatiche, e quindi, nell’immediato, ineffettive, tutte quelle che riguardavano i diritti di libertà e i diritti sociali previsti dalla Costituzione; il governo centrista di De Gasperi e Scelba, dal canto suo, anziché cancellare dall’ordinamento quelle norme che erano l’espressione più diretta della dittatura, ne aveva fatto grande uso, contrastando e reprimendo con esse le lotte operaie e contadine, talvolta anche in modo sanguinoso, puntando a una “democrazia protetta” (dal comunismo) e preparando nel frattempo il terreno per un “miracolo economico”, basato sui bassi salari, sull’“esercito industriale di riserva” e sull’emigrazione dei contadini “superflui”.

Di fronte a questi comportamenti distinti, ma convergenti di magistratura e di governo, coloro che avevano a cuore le sorti della Costituzione avevano perciò guardato con speranza alla nascita della Corte, che allora era l’unica istituzione in grado di poter “scongelare” la Carta del ’48 rimasta inattuata.

Dal varo della legge all’entrata in funzione della Corte passarono, però, altri due anni, poiché la Dc e i suoi alleati, condividendo il divieto posto da Sturzo, si opposero a lungo alla nomina di Vezio Crisafulli, candidato dei comunisti, tanto da costringerli a ripiegare su Nicola Jaeger, che comunista non era; la composizione della Corte registrò così la massiccia presenza di giuristi cattolici, tra cui Gaetano Azzariti e Antonio Manca, già componenti del Tribunale della Razza, un consesso che, dopo l’iniziale e vivace presidenza di De Nicola, dette il via a una giurisprudenza sostanzialmente conservatrice; ma la Corte, ecco il punto, aveva finalmente cominciato a funzionare, le prime norme fasciste erano state cancellate dall’ordinamento e già nel secondo settennato si instaurò quel circuito virtuoso tra i nuovi costituzionalisti, i pretori e la Corte che avrebbe consentito di smontare pezzo a pezzo quella normativa che i governi non avevano avuto la forza o la volontà di eliminare.

Poi, per decenni, Parlamento, Governo e Corte avevano continuato a funzionare mantenendo equilibrata l’articolazione dello Stato.

Son dovuti tornare al potere gli ex e i post-fascisti perché la Corte sia finita nell’occhio del ciclone. L’ansia di rivincita di coloro che avevano da sempre criticato la Costituzione perché frutto di un compromesso coi comunisti (ma soprattutto perché nata dalla Resistenza e sorta in aperta polemica col passato regime), ha fatto sì che il nuovo governo, sedicente conservatore, si sia lanciato nell’impresa di riscrivere il “patto con gli italiani”, di dare veste formale alla costituzione materiale in costruzione e di legiferare freneticamente su ogni cosa, per dare un segno tangibile della sua nuova collocazione al posto di comando.

La Corte viene così a trovarsi a svolgere il controllo della costituzionalità non delle vecchie leggi fasciste (come era accaduto settant’anni fa), ma di quelle nuove che gli eredi di quei fascisti (nostalgici dichiarati o variamente riciclati) intendono introdurre nell’ordinamento, per mutarne la forma insieme alla sostanza. E poiché l’obiettivo finale è quello di riscrivere in gran parte la stessa Costituzione è logico che le tappe intermedie – le singole leggi via via emanate – siano, in genere, poco in linea coi principi della Carta del ’48.

Di qui la necessità di occupare la Corte col maggior numero di giuristi fidati, prima che la stessa sia chiamata a valutare la costituzionalità delle leggi nel frattempo varate. L’occasione che si presenta al governo è particolarmente favorevole, poiché, fin dal novembre 2023, vi è un seggio vacante e altri tre si “libereranno” in dicembre, per la fisiologica scadenza del settennato, e tutti i nuovi giudici sono di nomina parlamentare.

Da tempo il presidente della Repubblica, per garantire il corretto svolgimento dell’attività della Corte, aveva sollecitato le Camere a coprire il posto vuoto, ma la maggioranza parlamentare, cioè la Meloni, aveva lasciato passare sette sedute senza un nulla di fatto, col proposito di riunire tutte le vacanze a dicembre e lì, come lei stessa aveva dichiarato esplicitamente, «dare le carte».

Poi, improvvisamente, in ottobre ha tentato un colpo di mano, ordinando tramite chat ai suoi parlamentari di presentarsi compatti per votare, insieme a qualche volonteroso “centrista”, non tanto un giurista di “area”, quanto piuttosto colui che aveva elaborato la legge sul premierato, Francesco Saverio Marini, un giurista che può vantare anche il titolo di magistrato vaticano (cosa che, per un governo del merito, ha il suo peso).

Il blitz falliva perché qualcuno – un “traditore” subito tacciato di infamia (!) dalla premier – aveva fatto trapelare l’esistenza della manovra e le opposizioni, evitando di ritirare la scheda, avevano impedito ai “volonterosi” di partecipare alla votazione in incognito, costringendo così la maggioranza a praticare una precipitosa retromarcia e a votare scheda bianca per non “bruciare” il proprio candidato.

La vicenda, per la manovra predisposta e per l’inquietante terminologia usata, appare veramente esemplare: dato che la legge sul premierato, se approvata, è destinata a essere impugnata davanti alla Corte, la presidente del Consiglio decide, di soppiatto, di far nominare giudice costituzionale il proprio consigliere giuridico, cioè colui che quella legge ha scritto.

Con una simile mossa la Meloni fa capire quale sia la concezione della Corte che hanno questi moderni riformatori: non quella di un organo cui la Costituzione ha affidato la tutela del pluralismo e delle minoranze, ma quella di una casamatta che la maggioranza può occupare coi suoi fedeli soldatini; orbene, se è logico che le nomine dei singoli giudici fatte dal Parlamento siano “politiche”, non per questo devono essere “partitiche”, soprattutto in un’epoca in cui l’adesione al partito si sostanzia nella fedeltà al leader: evidentemente la vicenda della Corte Suprema americana ha fatto scuola presso i trumpisti di casa nostra.

Il blitz della Meloni è però fallito e la premier non ha potuto inserire nella Corte il suo consigliere personale prima che, alla metà di novembre, fossero discussi i ricorsi delle Regioni Toscana, Campania, Puglia e Sardegna avverso la legge dell’Autonomia differenziata. E qui il governo, ma soprattutto la Lega, ha riportato una solenne bocciatura.

La Consulta, infatti, ha semplicemente fatto a pezzi il provvedimento, individuando non uno, ma sette profili di incostituzionalità (un record assoluto), iniziando col censurare i due pilastri su cui poggia l’intera normativa: il trasferimento dallo Stato alla regione delle intere materie e non di sole funzioni mirate, tutte da motivare specificamente, viola l’art. 116 c. 3 Cost.; l’esclusione del Parlamento dalla possibilità di emendare i testi e le modalità di costruzione dei livelli essenziali di prestazione (Lep) gestiti dal solo Esecutivo, viola il principio della divisione dei poteri; sugli altri punti, la Corte ha poi indicato le linee-guida (i principi di sussidiarietà, uguaglianza e unità della Repubblica) cui dovrà attenersi il Parlamento nel riscrivere il testo, se non vorrà incorrere in una seconda, più sonora dichiarazione di incostituzionalità.

Il governo, questa volta, non se l’è presa con i giudici della Corte, che hanno abrogato in gran parte la legge Calderoli, poiché l’Esecutivo punta a modificare, come visto, gli equilibri interni di quell’organo, per cui oggi eventuali attacchi sarebbero stati intempestivi e controproducenti; ha invece rivolto la sua ira nei confronti dei giudici ordinari, che hanno disapplicato la normativa sull’immigrazione clandestina e che in estate erano stati accusati di ordire complotti contro il governo.

Già vi era stata un’analoga reazione quando Iolanda Apostolico, giudice a Catania, non aveva convalidato l’arresto di alcuni migranti, perché la legge varata dalla maggioranza di governo era risultata in contrasto con le direttive europee. Ne era allora seguito un linciaggio mediatico della magistrata, si era scavato inutilmente sul suo passato e si era dato grande risalto al ricorso presentato dal governo contro “l’abnorme” decisione. Senonché, dopo alcune settimane, spentosi il clamore, lo stesso governo si era accorto di non avere argomenti giuridici per confutare quel provvedimento e aveva perciò rinunciato all’impugnazione, nel silenzio complice dei media. Del resto il linciaggio era ormai avvenuto e il messaggio era stato già inviato agli altri giudici.

Questa volta, invece, un magistrato di Bologna, Marco Gattuso, anziché disapplicare direttamente la normativa che consentiva la deportazione in Albania di alcuni richiedenti asilo in attesa del loro rimpatrio in “paesi sicuri”, aveva scarcerato i migranti, in base a una sentenza recentissima della Corte europea che aveva fornito, come da direttiva della Ue, una nozione di “paese sicuro” diversa da quella stilata nel decreto varato dal governo; e poiché le norme europee prevalgono sul diritto dei singoli paesi membri – i sovranisti del governo fingono di non saperlo, ma è così da decenni – il giudice si era rivolto a quella Corte, affinché chiarisse, con interpretazione autentica, i punti di quella sentenza suscettibili di diversa interpretazione.

Come si vede, una scelta di grande cautela, presa da un magistrato che ben si è reso conto della delicatezza della questione e che, prima di decidere nel merito, si è rivolto, in ossequio alla gerarchia delle fonti, all’autorità europea da cui tutto è partito.

La reazione della maggioranza, rabbiosa e scomposta, ha evidenziato solo l’analfabetismo costituzionale che caratterizza tutta la sua politica.

L’iniziativa di deportare i migranti in Albania ha fatto seguito a quella del governo Suniak di trasferire i migranti in Ruanda, progetto spazzato via dall’elettore inglese insieme al politico che l’aveva ideato; malgrado questo precedente significativo, il progetto della Meloni, lungi dall’essere considerato una iniziativa razzista (caratteristica che, secondo il Consiglio d’Europa, contraddistingue spesso l’odierna attività dei politici italiani) o una “nostalgia” di sapore coloniale (come quando sull’Albania esercitavamo, di fatto, un “protettorato”), è, invece, valutato positivamente dalla maggioranza dei media, perché ritenuto una bandierina che l’Italia può sventolare in una Europa in cui progressivamente nessuna forza di destra, neppure quella di impronta nazista, viene tenuta ai margini (come si è visto nel voto che ha visto popolari, conservatori e l’Afd opporsi compatti alla c.d. «legge sulla deforestazione»); sulla riuscita di questa iniziativa, quindi, la Meloni si gioca quella credibilità che in Europa le è costata tanta fatica e tante piroette e ciò spiega l’irritazione e il crescente nervosismo che l’ha colta quando un magistrato ha ricordato che oggi, ancora, vige in Italia uno Stato di diritto.

Contro Gattuso, in mancanza di argomenti giuridici, si è scatenato l’ormai abituale linciaggio mediatico, che, dopo l’immancabile accusa di essere un giudice comunista, ha coinvolto l’intera sua storia personale e famigliare.

Ma questa volta il governo non si è limitato a impugnare l’ordinanza (la sua e quelle degli altri giudici, che, da Roma in giù, hanno riproposto le stesse domande alla Corte europea), ma ha cominciato a manipolare la normativa esistente: dapprima ha tradotto il decreto sui “paesi sicuri”, un atto amministrativo, in un decreto legge; quindi ha trasformato questo in un emendamento (sic!) da inserire in un altro decreto legge, quello c.d. dei «flussi migratori», già in fase avanzata di approvazione, al fine di evitare discussioni e audizioni sul tema specifico.

Poi ha puntato al bersaglio grosso: con un’altra serie di emendamenti presentata dalla deputata di Fd’I Sara Kelany ha inteso sottrarre alle sezioni specializzate dei tribunali in materia di immigrazione le convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo, sia con riguardo ai centri in Albania, sia a quelli di Porto Empedocle e Modica, stabilendo la competenza del giudice monocratico non specializzato delle Corti d’appello (sperando di trovare, almeno lì, dei magistrati patrioti), riconoscendo all’interessato la possibilità di ricorrere in Cassazione entro soli 5 giorni, senza che nel frattempo il provvedimento rimanga sospeso.

Stabilire la competenza di un organo di secondo grado, già oberato di lavoro, per effettuare le convalide degli arresti sempre valutati dai giudici di primo grado è, dal punto di vista ordinamentale, una soluzione completamente irrazionale (e quindi incostituzionale), viziata, per di più, dalla scoperta finalità politica; inoltre, il diritto d’asilo che per l’art. 10 Cost. spetta a ogni straniero cui «sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» viene compresso da questa improvvisata normativa a tal punto da essere non solo svuotato, ma addirittura irriso.

Ma tant’è: questa è la cultura dei governanti, che, essendo stati eletti dal “popolo sovrano”, travisano la Costituzione sin dal suo primo articolo, fingendo di ignorare che il loro potere deve essere esercitato non in modo arbitrario, ma solo nelle «forme e nei limiti» dalla stessa previsti.

Le cose, del resto, non possono andare diversamente, visto che il “polo escluso”, foraggiato al tempo delle elezioni da gran parte del centrodestra, ha deciso di “fare la storia”, animato da uno spirito di rivalsa che non può che collidere di continuo con i principi della Costituzione antifascista del 1948.

Per questo appare oggi centrale il ruolo svolto dalla Corte e per questo la Meloni ne studia l’occupazione: la costruzione dello Stato autoritario prevede infatti, di necessità, il varo di leggi illiberali, alcune di mera propaganda (come quella sui “rave party”, in due anni nessun processo), altre di compiaciuta crudeltà (la criminalizzazione delle Ong che salvano i migranti, anziché lasciarli annegare); tra queste spicca, in modo emblematico, l‘ultimo “decreto sicurezza” ancora in discussione, che non solo introduce 13 nuovi reati (tra cui il blocco stradale praticato non con mezzi o strumenti ostativi, ma solo col “proprio corpo”) e prevede il carcere per le donne incinte e per le madri coi figli sino a un anno, ma che conferisce a questori e ad agenti della polizia penitenziaria poteri incontrollati: i primi potranno allontanare dalle città persone semplicemente denunciate per reati contro la persona o il patrimonio, senza bisogno di valutarne in concreto la pericolosità, con evidente violazione dell’art. 16 Cost., i secondi potranno far condannare ad anni di carcere il detenuto che contravvenga a un loro ordine, legittimo o illegittimo che sia, opponendo anche solo una “resistenza passiva”, comportamento questo equiparato a una “rivolta”: trattasi di una norma tipica di uno Stato di polizia che tuttavia neppure Alfredo Rocco aveva ritenuto di introdurre a suo tempo nell’ordinamento.

Ma oggi un governo di ex e post-fascisti ritiene che sia giunto il momento di poterlo fare: e uno stretto collaboratore del ministro Nordio, il sottosegretario Delmastro, già noto per altro, anziché preoccuparsi degli 80 suicidi in carcere registrati quest’anno o dei processi per tortura pendenti a carico di agenti in vari tribunali, ci fa sapere che lui è tutt’uno con la polizia penitenziaria (con la quale festeggia anche uno “scoppiettante” Natale), che non si «inchina alla Mecca dei detenuti» e che, anzi, prova «un’intima gioia» nell’incalzarli, trattandosi di soggetti «che noi non lasciamo respirare».

Il ministro, che i media definiscono un “garantista”, debitamente interpellato, non ha avuto nulla da dire.

 

 

[1]     «Il Ponte», 1953, n. 4, p. 445.

L’immagine è tratta dal sito della Corte costituzionale.