Walter Sitidi Antonio Tricomi

Che Bruciare tutto (Milano, Rizzoli, 2017, pp. 369), ossia un romanzo nel quale – spiega l’autore stesso in una nota posta in chiusura del volume – la pedofilia «ha il medesimo ruolo funzionale che ha la musica nel Doctor Faustus di Thomas Mann», sarebbe stato in larga misura percepito come un intollerabile oltraggio al senso comune, Walter Siti non lo ignorava minimamente. In quello che resta il suo libro più importante e il miglior esempio italiano di autofiction, Troppi paradisi, all’alter ego dello scrittore capitava infatti di pensare: «Lo so che non dovrei mai parlare di pedofilia, perché alla fine dò l’impressione di stare dalla parte dei pedofili». E per quale motivo? Per il semplice fatto – arguiva il personaggio Walter Siti – che, mentre «è questo l’atteggiamento più diffuso: i pedofili sono malati, i bambini non si toccano, stop», io continuo a ritenere – egli ripeteva a se stesso – che «non ci dovrebbe essere tema su cui non si possa ragionare» e allora – proseguiva – mi tocca in tutta onestà precisare che un pedofilo «lo conosco bene» e non si tratta di «un essere spregevole», ma di «un pover’uomo terrorizzato, che ha trentacinque anni e ne dimostra venti, pesa centotrenta chili, soffre di aerofagia e ha la faccia da pupone».

Non è forse un caso, dunque, che il protagonista di Bruciare tutto somigli vagamente al pederasta ritratto in Troppi paradisi, se Leo è un sacerdote «grassottello» di trentatré anni che in ogni caso, a differenza del suo possibile antecedente narrativo, «non pratica, non esercita, non disturba i bambini insomma, non glielo lascia nemmeno intuire», con titanico oltranzismo impegnandosi «nello sforzo di negare, e di negarsi», per sentirsi orgogliosamente «diverso dai preti che vengono indicati al pubblico ludibrio, i molestatori e i viscidi». In altre parole, per prendere risolutamente le distanze «da quel tipo di Chiesa, che si rassegna al peccato perché l’eroismo la spaventa».

Solo una volta – apprendiamo grosso modo a metà libro – egli, superati da poco i vent’anni, è andato sino in fondo con un minore. Così, dopo aver scoperto che, in seguito al suo rifiuto, un ragazzino, Andrea, spontaneamente offertosi a lui, si è ucciso, il giovane religioso finisce col precipitare, innanzi al cadavere del piccino, in una crisi che lo condurrà diritto al suicidio: «non ho avuto il coraggio di donare la mia vita eterna per impedirti di morire»; «ho considerato la salvezza della mia miserabile anima più importante del tuo ancora aperto futuro»; «dovevo accettare di fare l’amore con te, qualunque prezzo mi fosse costato»; «l’ossessione avvicina a Dio mentre la morale ce ne allontana»; «ho rifiutato la strada della mia dannazione, che era la più sincera». La probità cui don Leo, prima di darsi fuoco, dovrà in sostanza dedurre di aver incondizionatamente consacrato le sue azioni gli parrà dunque assurdamente incongrua e, soprattutto, sterile: «ecco il sacerdote perfetto, che ha condannato a morte un bambino per eccesso di morale».

Paradosso tragico, questo letteralmente incarnato dal protagonista di Bruciare tutto, che chiarisce quali siano le autentiche proibizioni sociali violate dal romanzo. Non tanto quella di dissertare di pedofilia, che comunque – osserva Siti in una delle note che accompagnano il testo – si rivela, «più ancora dell’incesto, l’assoluto tabù della nostra epoca»: un desiderio erotico «sacrilego per definizione» e cui basta accennare «per sentirsi sporchi», giacché chiunque «ne sia portatore» è giudicato «un rifiuto dell’umanità, un’abietta carogna da condannare senza appello, un capro espiatorio di tutte le nequizie». Piuttosto, i divieti culturali infranti dal libro sono quelli, per l’appunto, individuati da Troppi paradisi. In primo luogo, dirsi disposti a riconoscere «la legittimità» del desiderio pedofilo «in quanto desiderio», fedeli al convincimento che ogni inclinazione sia accettabile «se non danneggia altre persone» – nel caso specifico, se, come «per esempio guardare fotografie», non intacca «l’integrità» dei minori –, e che quindi urgerebbe distinguere tra «pedofili che fanno del male ai bambini», e vanno di conseguenza puniti, e «pedofili che nutrono in solitudine il loro desiderio», quindi «non meritano affatto di essere disprezzati (e forse avrebbero perfino diritto che gli si desse del lei)». In seconda battuta, spingersi talora a «parlare di bambini consenzienti», argomentando che, «se ammettiamo che il bambino abbia una volontà (e nel momento in cui accusiamo un pedofilo di averlo stuprato “contro la sua volontà” implicitamente lo ammettiamo), allora dovremmo anche ammettere che questa volontà, in certi casi, possa piegare verso il sì». D’altro canto, chiosava l’io narrante del romanzo di undici anni fa, «se sosteniamo che un adulto, col suo potere intimidatorio, può sempre condizionare il bambino a dire sì, allora è tutta la pedagogia che dovremmo condannare; anche la mamma che lo convince a mangiare gli spinaci».

Ecco allora la prima considerazione, quasi obbligata, che si può sommessamente arrischiare su Bruciare tutto: una considerazione forse paradossale perché di segno addirittura contrario rispetto a buona parte delle critiche, insopportabilmente apodittiche, rivolte a un libro sovente accusato, con patetico sfoggio di gesuitismo vendicativo, di cadere nell’inverosimiglianza, quando ci offre la caratterizzazione psicologica dei personaggi principali (in special modo, quella di Andrea), e di cercare, in tal maniera, uno scandalo fin troppo facile, totalmente gratuito. Se voleva sondare la sofferta dignità di un desiderio pedofilo mai (o meglio: non più) vissuto a danno di chicchessia e ribadire anche solo possibile che una pur minima quota di ragazzini ben sappia cosa fa quando consuma rapporti sessuali con un adulto e anzi per tale ragione li ricerchi, Siti avrebbe dovuto – questa è, per l’appunto, la prima osservazione che qui si vuol proporre in merito al romanzo – dimostrare non diversi scrupoli etici in più e una superiore accortezza narrativa – che poi significa: scolastica prudenza psicologica – nel configurare i due personaggi – don Leo e Andrea – incaricati di farci riflettere sull’una e l’altra cosa, ma, sia come intellettuale sia come autore letterario, una dose addirittura maggiore di spregiudicatezza, azzerando in sé ogni residuo moralistico e rigettando qualsivoglia schema diegetico avrebbe in seguito consentito al lettore di scorgere nel bimbo, in prima istanza, una vittima. Uno di quei ciarlieri psicanalisti garbatamente derisi da Bruciare tutto forse direbbe: non qualcuno che aspiri consapevolmente a vivere il proprio desiderio, ma un corpo agito da una cieca pulsione a lui stesso in larga parte oscura.

Figlio di un’impresentabile coppia di fin troppo scontati genitori inguardabili e di una società che lo costringe a pensare che, ormai, «i piccoli sono grandi e i grandi piccoli», Andrea vede infatti «soltanto dolore davanti a sé». Chi è allora il frugoletto che confessa a don Leo il proprio amore per lui e chiede al sacerdote il permesso di toccargli il sesso? È un confuso passerotto infelice, una neppure abbozzata individualità fiorente, che, dice a se stesso il prete dopo averne rifiutato l’approccio, «non mi desiderava, aveva solo bisogno di me», cioè di sentire l’affetto di qualcuno? O, al contrario, è il grumo di un individuo nascente che – relegando tra le «sciocchezze» che «meritano solo un’alzata di spalle» (spiega Siti in un’altra nota di corredo al testo) l’affermazione che si è soliti ripetere, cioè «che i bambini non si suicidano» – può poi uccidersi, in pur acerba consapevolezza piena, appunto perché si era già rivelato capace di soggettivare il proprio desiderio e pretendeva allora, benché con sofferta lucidità precoce, semplicemente di viverlo?

A ben vedere, Bruciare tutto non intende imporci questa seconda ipotesi esegetica, e quindi, in linea di principio, obbligarci a riconoscere che un esserino di dieci anni (tale è, nel romanzo, l’età di Andrea) sia sempre in grado di fissare la sua identità precipua di soggetto desiderante. In maniera meno estremistica – ossia nella misura in cui, tramite don Leo, attribuisce ad Andrea «una grazia sibillina, innaturale, dovuta alla necessità di adattarsi in un ambiente ostile» e scopre di conseguenza il bimbo, in ragione di un simile bisogno di fronteggiare le avversità, «troppo principino, nevrastenico e viziato» o, in altri termini, a suo modo funestamente eccezionale perché «già diviso», anzitempo segnato da un’«incrinatura», o meglio una «faglia, tra esistere e risultare» in lui anticipatamente «slabbrata e quasi decrepita» –, il romanzo sembra chiedere esclusivamente di non scartare a priori l’idea della presenza comunque solo di rado verificabile – quindi non serenamente normale, cioè pacifica, ma in ogni caso straordinaria, dunque inevitabilmente tragica – di ragazzini rapidamente pronti a capire e condividere tra loro o con gli adulti il proprio desiderio.

Siti insomma non pare volerci suggerire che ciò possa eventualmente accadere senza essere l’esito di traumi violentissimi e senza finire a sua volta col produrne di altrettanto feroci. E bene fa a mantenere una qualche cautela interpretativa su un tema rispetto al quale la sola verità su cui si dovrebbe onestamente convenire è che le incrollabili certezze esibite dal vecchio, caro buon senso diffuso si dimostrano comoda ipocrisia. Falsa coscienza che lo scrittore modenese – questo sì, non sembra essere in discussione – si è palesemente divertito a smascherare – insista pure a smentirlo: chi può davvero credergli? – con la sola provocazione “assoluta” implicata da Bruciare tutto: la sorprendente dedica «all’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani». Diporto, a pensarci bene, forse un tantino – e quindi deliberatamente – pretestuoso o – perché no? – almeno in parte furbescamente autopromozionale: il romanzo è uscito una decina di giorni prima del Meridiano che, in due tomi indivisibili e in un’edizione diretta da Alberto Melloni, raccoglie, a cura di Federico Ruozzi, Anna Canfora, Valentina Oldano e Sergio Tanzarella, Tutte le opere del priore di Barbiana (Milano, Mondadori, 2017, pp. 2976).

In una dichiarazione resa al «Corriere della sera» lo scorso 21 aprile, Siti si è espresso così: «Anche se la mia interpretazione fosse sbagliata, anche se non ci fosse per niente in lui quell’attrazione verso i ragazzi che mi sembra di aver intravisto nelle lettere, in certe risonanze linguistiche, e dò per scontato che non abbia mai messo in pratica nulla, credo che questo non screditi affatto la figura di don Milani, anzi ai miei occhi la eleva». Perché, ha precisato l’autore di Bruciare tutto, «un uomo capace di trasformare qualunque pensiero di tipo fisico in questo importante impulso pedagogico» si rivela «una figura ancora più grande».

Di certo, allo scrittore però non sfugge che, come anticipato, il nodo è proprio questo: non potendosi riconoscere la legittimità del desiderio pedofilo in sé, vale a dire non realizzato, neanche può ammettersi che si consideri degno di stima quell’individuo che appunto lo riconverta, senza mai consumarlo, in una qualche altra indubbiamente lecita o persino nobile passione, né può tantomeno accettarsi che una simile inclinazione, pur sublimata, venga attribuita, magari per innalzarne la statura sia morale sia intellettuale, a colui che da più parti, e già da tempo, si ritiene il massimo modello di pedagogo. Così, tutti coloro che, scandalizzati, hanno subito preso la parola per negare, in risposta al sospetto lasciato intendere da Siti, che don Milani abbia mai adescato un bambino (solo che l’autore di Troppi paradisi non l’ha in alcun luogo sostenuto), o per chiarire che il religioso non sentiva nessuna attrazione erotica per i ragazzini (ma a che titolo ciascuno di noi può dir di sapere cosa gli altri nel proprio intimo provano?), hanno solo finito col cadere nel tranello teso all’opinione pubblica dalla dedica posta in esergo a Bruciare tutto. Col ribadire, cioè, che non siamo disposti a distinguere tra una pederastia intesa come tentati o effettivi abusi sui minori, dunque alla stregua di atti ovviamente da punire con fermezza, e una pedofilia quale forma del desiderio di per sé ingiudicabile dal punto di vista etico, fin quando resta una specifica pulsione erotica sublimata o un peculiare fantasma soggettivo comunque non tradotto in comportamenti per chicchessia nocivi. E allora che, per salvare l’onorabilità di un individuo, e a maggior ragione di un maestro, se ieri ci curavamo anzitutto di respingere ogni dubbio sulla sua eterosessualità, oggi ancor prima ci affrettiamo a smentire che egli abbia, o abbia avuto, qualsivoglia tendenza pedofila.

Di riflesso, lo sdegno col quale diversi recensori hanno reagito a Bruciare tutto ha reso inservibili alcune loro obiezioni di carattere strettamente letterario al romanzo o li ha paradossalmente inibiti dal muovere a esso più congrui rilievi di ordine precipuamente narrativo o finanche culturale. Così come, del resto, fondamentalmente trascurabili – perché tanto epidermiche quanto prevedibili – sono risultate certe difese d’ufficio del volume di Siti proposte da alcuni estimatori legittimamente abituali dello scrittore. Il libro appare infatti nettamente superiore al precedente lavoro dell’autore, Exit strategy, o, almeno in parte, anche ad altre sue prove: alla Magnifica merce, ad Autopsia dell’ossessione e, forse, persino a Resistere non serve a niente. Non per questo lo si può tuttavia giudicare completamente riuscito. In definitiva, ciò che lo fa somigliare a una sorta di traslitterata postilla logica di Troppi paradisi lo rende, al contempo, per molti versi efficace, perché lo ricollega strettamente al cuore nevralgico dell’ispirazione del suo autore, e per vari altri aspetti squilibrato, giacché, di tale poetica, esso rischia di rivelarsi una fin troppo meccanica – e però irrisolta o addirittura contraddittoria – variazione.

Vengono alla mente I demoni di Dostoevskij, è ovvio. Eppure – impossibile per l’esegeta trattenersi dal notarlo, visto che è di un’opera narrativa del massimo studioso di Pasolini che si sta discorrendo – il vero avantesto di Bruciare tutto appare un altro: quel racconto lungo, o romanzo breve, intitolato Romans (ed edito postumo, a cura di Nico Naldini, nel 1994) cui il poeta delle Ceneri lavorò tra il 1948 e il 1949 e nel quale egli immaginava una vicenda riguardante un sacerdote, don Paolo, a sua volta intimamente connessa con la trama di un dramma, Il cappellano, steso nel 1947 ma poi lungamente ripensato dall’autore bolognese e affidato solo nel 1965 alla sua forma definitiva col titolo Nel ’46! Ad ogni modo, è però essenzialmente il proprio percorso romanzesco che, con Bruciare tutto, Siti vuole riattraversare e, in una qualche misura, riformulare, perché – come egli stesso osserva nella già citata nota posta in chiusura del libro – questo è il suo fin qui unico testo narrativo nel quale «non compare mai il personaggio Walter Siti», dunque il suo primo sforzo di affrancarsi dall’autofiction. Scelta motivata dallo scrittore in un altro intervento parimenti affidato, lo scorso 20 aprile, al «Corriere della sera».

Nella nostra società della spettacolarizzata informazione compulsiva – egli ci ricorda in quell’articolo – «la prima persona ha invaso il campo, presentandosi come segno per eccellenza di immediatezza e di sincerità», sicché «tutti vogliono dire “io”, e vogliono dirlo subito esondando sui social». Al tempo stesso, aggiunge però Siti, «la “narrazione” in terza persona ha colonizzato lo spazio dell’entertainment», per cui «al cinema, nelle serie televisive, in letteratura, l’eccezionale e l’avventuroso si squadernano con somma potenza visionaria per compensare la vita incolore degli spettatori». Se ne deriva che «si giudica in prima persona e si fantastica in terza», laddove «sarebbe più logico il contrario», anche ne discende – sostiene ancora lo scrittore – che «la moda dell’autofiction» avalla «questo paradossale testa-coda espressivo», perché, «standoci troppo tempo immersi a bagnomaria», si arriva a capire che «l’autobiografia, aumentata o meno, è un ostacolo all’espressione delle verità profonde di sé». Per un verso, infatti, «le verità profonde sono inconsce, e se l’Io è la guida, allora laggiù, nei territori dell’Es, fatica ad arrivarci». Dall’altro lato, assai «più dell’inconscio personale, conta l’inconscio sociale, ciò che la società non vuole sapere di se stessa, e non è detto che l’autore empirico (con la sua vita generalmente banale) sia la migliore antenna per percepire la sismicità diffusa». Bruciare tutto vuol dunque essere un tentativo di «uscire dalla trappola dell’autofiction» per trovare «controfigure» dell’autore «più adatte dell’io a captare i segnali» del presente: in particolare, di quel «cupio dissolvi più largamente sociale» che Siti ritiene abbia sempre trovato in lui una specie di peculiare soggettivazione nei moventi anche psicologici della propria vita, oltre che della propria poetica, e quindi nella sua «(controllata) infamia personale», nel suo «impulso segreto a distruggere».

Il problema nasce precisamente qui. Ciascun esempio di autofiction sinora propostoci dallo scrittore poteva risultare più o meno convincente, ma appariva comunque una magmatica e tuttavia intimamente congrua opera-mondo, in cui ogni stratificazione linguistica o di senso, dunque ogni realtà esplorata (da quelle politico-culturali alle varie forme soggettive di condensazione psichica dell’immaginario collettivo), si poneva, rispetto alle altre, come un cerchio che, con esse, aveva in comune il centro, ossia l’alter ego dell’autore, fulcro indiscusso e potente detonatore di tali universi romanzeschi. Bruciare tutto, che ha la medesima ambizione di totalità espressiva e che, in quest’ottica, vuole anch’esso restituirci un’organica mappatura socio-antropologica, non sa però essere una macchina narrativa coerentemente costruita per cerchi concentrici perché quello che dovrebbe risultare il suo motore, o – per meglio dire – il suo innesco logico, il personaggio di don Leo, non palesa la bulimica capacità propulsiva, espansiva e, per l’appunto, simbolicamente centripeta in genere propria del personaggio Walter Siti.

Non si sta affermando – come qualcuno ha troppo frettolosamente concluso – che il protagonista del romanzo si dimostri un personaggio scarsamente tridimensionale o che tali si rivelino altri personaggi del libro. Si vuole invece suggerire che, pur sufficientemente articolato, quello di don Leo è un personaggio incapace di sorreggere il dunque spropositato accumulo di materia previsto dalla narrazione. La quale, invece di trovare in lui il suo esatto punto di coagulo, lo sballotta qua e là tra le proprie pieghe, vietando a se stessa di raggiungere un pieno equilibrio interno. L’aver insomma conservato la confezione, diciamo così, dell’opera-mondo in passato elaborata in chiave di autofiction, ma senza aver reperito – per sottrarsi alle logiche espositive di quest’ultima e in luogo del proprio alter ego – un perno altrettanto totalitario di quello scelto nelle precedenti occasioni per la sua nuova narrazione, fa sì che Siti non sia riuscito a offrirci né il racconto realmente compatto di una tragica vicenda individuale, né un vero, del pari apocalittico, romanzo corale.

Del resto, a confermare gli scompensi diegetici riscontrabili nel testo provvedono anche le «peraltro bislacche e asistematiche» note – così egli stesso le definisce – con le quali l’autore si riserva di intervenire «direttamente» all’interno della narrazione. Giustappunto perché sporadiche, e quasi capricciose, esse non contrassegnano infatti il libro in maniera tale da regalargli un’esatta cifra metanarrativa, sicché diventano un ridondante avanzo manieristico della pregressa vena autofictionale di Siti. Un inutile residuo, insomma, di quell’inclinazione saggistica che, in passato, lo scrittore poteva interamente saziare attraverso la propria controfigura romanzesca e che, in Bruciare tutto, egli deve per forza di cose soddisfare – in via precipua, ma colpevolmente non esclusiva – scolpendo, con don Leo, un personaggio non troppo intellettualmente e – in parte – psicologicamente lontano da sé: ecco allora un prete, per esempio, appassionato di poesia e che si dimostra straordinariamente propenso allo scavo interiore, alla riflessione sociologica, all’indagine socioculturale.

Somiglianza, questa tra autore e personaggio, che appare, in ogni caso, inequivocabilmente artefatta, eccessivamente indotta, per cui le tormentate meditazioni filosofiche e teologiche del sacerdote risultano davvero troppo, e con troppo didascalico zelo, letterarie. Sembrano cioè provenire, in maniera finanche esageratamente scolastica, dalla memoria bibliofila di chi a don Leo ha dato vita, e dunque lasciano del tutto freddo quantomeno il lettore culturalmente accorto. Al quale viene allora da pensare che Bruciare tutto perciò sia, nell’ipotesi migliore, un apprezzabile ma imperfetto libro di transizione dall’autofiction a un modello narrativo non più giocato sulla dichiarata falsificazione della biografia autoriale. Oppure, per chi voglia accreditare l’interpretazione meno generosa, una troppo passiva, meccanica, quindi non riuscita riconversione, peraltro solo illusionistica, di un’identica concezione architettonica dell’ordito romanzesco dalla prima alla seconda forma.

Siti stesso potrebbe forse obiettare che ogni spinta centrifuga eventualmente riconoscibile nel testo e l’estrinseca complessità psicologica del protagonista, come pure taluni accenti troppo convenzionali rintracciabili nella caratterizzazione di altri personaggi, ubbidiscono, paradossalmente, a un suo sforzo di realismo. Al tentativo, cioè, di descrivere adeguatamente un’epoca – leggiamo appunto nel libro – poco propensa «alla razionalità» e a mettere «tutto a carico delle Leggi storiche o psichiche». Un tempo in cui «la rovina si vede ma non possiamo invertire il cammino», giacché «la vita turbina intorno, enorme insignificante rumorosa», e poi «precipita dove nemmeno Dio può più trovarla, né il suo Nemico», dato che «nemmeno lui è il principe del Disordine». Un’era, insomma, nella quale gli individui hanno la sensazione di essere semplici «personaggi di una commedia già scritta», di esistere «davvero solo impersonando ruoli più forti» di loro, e dunque di vivere esclusivamente «mascherate» che fanno sembrare «tutto il resto» nulla più che «una recita». Un’età, allora, in cui il mondo pare essersi ridotto a un mero «“esoscheletro di storie”», con gli uomini ormai simili a «invertebrati, colpiti da troppi messaggi», e i giornalisti a fornir loro «dall’esterno (a forza di storie, appunto) l’individualità perduta».

Tutto ciò – don Leo ne è convinto – mentre «la voga dei tweet e di altre diavolerie darà sempre di più la parola ai peggiori, e spingerà i migliori a parlare senza riflettere», favorendo «la riscossa dei ciarlatani», laddove i singoli, in quanto tali, vieppiù spariranno, coagulandosi in «masse “digitali”» che pretenderanno «una cronaca sempre più esorbitante, frenetica», in seno a «una post-democrazia irrimediabilmente chiusa a ogni istanza superiore» e che oggi si preoccupa di negare il sicuro «rapporto» esistente tra una «finanza speculativa che affossa le banche» e i «tagliagole islamici». Perché l’Isis – ripete a se stesso il prete – «è il perfetto complementare dell’Occidente: a chi ha cancellato la morte rispondono coi kamikaze, alla fine delle ideologie con una fede monolitica, a chi non osa più nominare la rivoluzione con una prospettiva radicalmente rivoluzionaria». Gli attentatori islamici – ritiene cioè il protagonista di Bruciare tutto – «a una civiltà con le chiese vuote oppongono la centralità della religione, all’estetizzazione del reale reagiscono con la più brutale iconoclastia; rovesciano il masochismo con cui ci offriamo alla tecnologia nell’uso sapientemente sadico della tecnologia stessa; sfidano il nostro pubblico chiacchiericcio (o “talk”) con sermoni di antica retorica, arringhe profetiche, proclami senza ironia».

Pensieri già formulati dal personaggio Walter Siti in Troppi paradisi, perché, in fondo, anche quello – al pari di Bruciare tutto, in cui troviamo tale intenzione esplicitamente formulata – voleva essere un libro su un’«età del desiderio (grande invenzione del secolo scorso)» ormai a un passo dal cedere «il posto a un’epoca del bisogno». In definitiva, entrambi i romanzi aspirano insomma a misurarsi criticamente con un processo che il loro autore considera irreversibile: una greve liofilizzazione delle individualità incline a produrre, in ognuno di noi, perversi arroccamenti parodisticamente identitari – quindi surrettizie pretese di un «assoluto» dal quale sentirsi «invasi» e posticce ossessioni di indisciplinata feticizzazione del godimento – a difesa di un nostro deficit di autoconsapevolezza e di formazione socioculturale, non già per colmarlo. E Bruciare tutto nel complesso regge proprio perché Siti vi riepiloga, quasi viaggiando col pilota automatico, gli snodi essenziali di questa sua disamina sul nostro tempo e su ciò che probabilmente ci aspetta. Ma l’impressione è che, nel testo, i diversi passaggi di tale diagnosi restino scollati – oltre che per quanto fin qui osservato circa la relativa incapacità del protagonista di armonizzarli simbolicamente in un organico microcosmo espressivo – anche in conseguenza di un’inattesa aporia logica che giunge a incrinare, dopo averlo però fatto preliminarmente proprio, il coerente estremismo della riflessione lucidamente articolata in Troppi paradisi.

In quel libro, il personaggio Walter Siti individuava «il grande progetto dell’Occidente, l’unicum che lo contraddistingue tra tutte le società umane», nell’«ambizione di costruire una convivenza senza Dio». Un disegno, aggiungeva l’alter ego dello scrittore, che, «consapevole o no», è però «di massa», per cui sarebbe «inutile controdedurre ricordando il successo del Papa, anche tra i giovani, e la devozione a Padre Pio, o Comunione e Liberazione e oltre», giacché, «per quanto paradossale sembri», essi sono esclusivamente «fenomeni residuali o di reazione», dato che «la gente stima gli uomini di chiesa, i santi, magari prega e va a messa, ma nessuno crede più davvero nell’esistenza di un altro mondo, col Paradiso e la resurrezione delle anime». Persino nei fondamentalisti islamici la voce narrante del romanzo giungeva a scorgere «figli nostri, o nostri innamorati»: per dirla altrimenti, «gente sessualmente tentata da noi, e che ne ha paura», con la quale allora, comunque la pensi, istituiamo «una relazione di cui siamo responsabili quanto loro».

In sostanza, Troppi paradisi descriveva – in maniera del tutto corretta – un Occidente psicologicamente scristianizzato nel quale, in luogo di autentiche forme di sentimento religioso, sussiste un impasto di neo-paganesimo, misticismo, superstizione di cui – si potrebbe aggiungere – il primo a non dimostrarsi affatto lieto è chi, da ateo, ben sappia come sia proprio una simile miscela a potersi più agevolmente rapprendere nelle peggiori retoriche identitarie: nel ritrovato spirito da crociati e da risoluti colonizzatori che la nostra società, persino in certi suoi settori perlomeno agnostici e culturalmente avanzati, inclina impudicamente a celebrare in risposta alla minaccia islamica. E le cose stanno effettivamente così: quella occidentale è oggi la civiltà di un irrazionalistico laicismo fisiologicamente anti-illuministico, cioè a dire postmoderno, che produce non un’autentica secolarizzazione, ma una feroce, disforicamente barbarica tribalizzazione della società tutta, di ogni suo ganglio produttivo, di ogni suo ambito culturale.

E allora, se questa era già e ancora resta la lettura del presente propria di Siti, e se, in Bruciare tutto, egli voleva – come afferma nella più volte citata nota di chiusura al testo – «riflettere sui rapporti tra religione e perversione, tra ragione, desiderio e tecnologia», e intendeva farlo affidandosi a una controfigura capace di guidarlo nell’analisi di quell’universo della devozione a lui ignoto e tuttavia supposto tale da confermare la sua diagnosi sul nostro tempo e sul sostanziale ripudio di Dio che lo caratterizza, perché offrirci un personaggio realmente disposto a credere ed effettivamente in grado di nutrire una profonda fiducia nella sensatezza di tale scelta? Perché, insomma, narrarci la vicenda di un uomo autenticamente pronto a patire il lacerante, l’irrisolvibile dissidio tra ambizione al totale sacrificio di sé innanzi a Dio e imperscrutabilità del volere e del giudizio di costui nei confronti dei propri servi persino migliori, tra aspirazione del devoto al bene assoluto e obbligo, per lui, di accettare, senza necessariamente comprenderne le ragioni, anche i più impietosi disegni divini, coi tradizionali tormenti con cui la fede sempre è stata vissuta dagli individui intelligenti in qualsivoglia passata era non ancora contraddistinta dall’incompatibilità strutturale tra psicologia profonda e aspirazioni di ogni tipo alla trascendenza?

Se la tesi di partenza, circa la fisiologica irreligiosità del nostro tempo, è corretta, don Leo forzatamente diventa un personaggio inattuale, che convalida una simile diagnosi originaria non per quel che è o per come declina il proprio sempre genuino, dunque mai stoltamente acritico, anelito a Dio, ma a posteriori, ossia perché, non essendo la fede capace – né moralmente né culturalmente né socialmente – di salvare dalla distruzione e, in pari misura, dall’autodistruzione chiunque voglia più o meno coerentemente ancora professarla, essa, a prescindere dalla purezza del suo desiderio, neppure può mettere in salvo costui o quanti lo avvicinano. È allora questo il limite principale di Bruciare tutto: più che illustrarci – pur dopo aver lasciato intendere che esso si rivela oggi ineludibile – il nuovo modo in cui gli individui si accostano alla religione, dimostra soltanto – attraverso le sofferenze e il suicidio di un uomo non totalmente in linea con lo spirito dei tempi – che essi non possono più minimamente immaginare di viverla alla vecchia maniera. Assunto il cui stravolgimento ha generato la più ignobile, e stupida, delle accuse mosse al libro.

Parlandoci di un prete dalle inclinazioni pedofile, Siti ha in effetti trattato un argomento – la pederastia che l’opinione pubblica ha scelto a un certo punto di scoprire tendenza diffusa tra gli uomini di Chiesa – per certi versi di sin troppo facile richiamo proprio perché ossessivamente discusso negli ultimi anni. Ma la morale di Bruciare tutto non è che, a volte, compiere un abuso su un minore è l’unico modo di salvarlo: che assurdo fraintendimento interpretativo, forse voluto perché funzionale al mero gusto della polemica spiccia! Il senso del romanzo è invece chiarito da una delle due citazioni con le quali il libro si apre, quella tratta da Jacques Lacan: «Chi trascura la legge limitata della parola interumana per una Legge e una Parola superiore, è un perverso». Prelievo testuale – sia detto per inciso – che si spera non tradisca l’ammirazione anche di Siti per l’ormai irrefrenabile, dunque perverso, magistero abilmente pop del renziano predicatore neo-cristiano Massimo Recalcati.

Ebbene, Bruciare tutto vuol suggerirci che la nostra è l’era della perversione generalizzata perché di fatto ammette esclusivamente l’idea di un’immanenza – quella di un pur fantasmatico godimento frenetico, da ottenersi qui e ora – che però si erge a trascendenza e come tale pretende di essere ritualmente ossequiata. Da questo punto di vista, logica capitalistica, strategie massmediatiche, zelo consumistico e fede religiosa lavorano, secondo Siti, alla stessa maniera e anzi si rivelano l’identica cosa: forme del tutto intercambiabili di rimozione violenta di un reale totalmente sacrificato all’immaginario. Beffardamente ambientato nello «scenario progressista» della Milano di due anni fa perché incline, con indubbia ma forse stucchevole maestria, a demistificarlo, riconducendolo a una sorta di patetica caricatura di un avvizzito, mortuario spirito borghese, Bruciare tutto può allora essere definito il «più disperato» dei suoi libri dall’autore stesso giacché presuppone irreperibile, sul piano strettamente logico, qualsivoglia ipotesi di superamento del presente. L’utopia implica infatti la trascendenza, ma ragionare di quest’ultima significa oggi sprofondare nell’immanenza, cioè far proprio il meccanismo psicologico e di pensiero dominante. L’orizzonte morale da condividere tutti altro non dovrebbe essere se non un partecipe relativismo, che è però reso traguardo sostanzialmente irraggiungibile dal fatto che, persi in un’immanenza che assurge al rango di trascendenza o annegati in una trascendenza che non sa riconoscersi immanenza, son pur sempre gli elementi di realtà in quanto tali che non riusciamo a concepire né vogliamo intendere, sicché risultano appunto impossibili pertinenti – invece che assolute, ossia ideologiche – valutazioni etiche.

Anche quando non ci offre un romanzo fino in fondo convincente, la cinica intelligenza candidamente spudorata di Siti – qualità che gli permette sempre di confermarsi il nostro miglior romanziere, come pure l’inconfondibile Houellebecq italiano – ci costringe in definitiva a fare i conti con la miseria culturale e il gretto fatalismo che ci sono ormai incontestabilmente familiari. I versi di William Butler Yeats che don Leo cita in un’omelia chiariscono allora perfettamente quale sia il tragico paradosso portato a conseguenze estreme dal nostro tempo: «i migliori sono privi di ogni convinzione, mentre i peggiori / sono pieni di appassionata intensità».