Impresa democraticadi Bruno Jossa

Introduzione

Il fallimento di tutti i tentativi di riformare la pianificazione centralizzata per dare vita a un socialismo democratico e il crollo del muro di Berlino, con il ritorno della Russia al capitalismo, sta dando luogo a un grande cambiamento di opinioni su che cosa sia veramente il socialismo. E l’idea che a noi sembra corretta a riguardo è che il socialismo è la gestione democratica delle imprese, la gestione delle imprese da parte di tutti coloro che partecipano a ciò che essa produce[1]. Questa è l’idea anche di Richard Wolff, che è considerato oggi il maggior studioso marxista degli Stati Uniti.

Wolff ha individuato l’impresa socialista nella Wsde, che è una workers’ self-directed enterprise. In contrasto con l’impresa capitalistica, ove a comandare sono, di regola, pochi individui dotati di ricchezza, i capitalisti, in una Wsde – secondo quanto egli scrive – nessun gruppo separato di persone, nessun individuo che non partecipi al lavoro produttivo dell’impresa, può essere un membro del corpo dei dirigenti. Anche se vi fossero degli azionisti di una Wsde, essi non avrebbero il potere di eleggere i direttori. Invece, tutti i lavoratori che producono il surplus generato nell’impresa se ne appropriano collettivamente e lo distribuiscono. Essi soli compongono il corpo dei dirigenti.

Queste sono idee che in Italia Screpanti e io sosteniamo da tempo e che ci hanno indotto di recente a diffondere un Manifesto, sottoscritto da 55 economisti. Per parte mia – e non so se in ciò Screpanti sia d’accordo – il socialismo è, più precisamente, un sistema d’imprese LMF, cioè di cooperative di produzione che tengono separati i redditi di lavoro dai redditi di capitale, come chiarisco meglio nel paragrafo che segue.

Due tipi di cooperative

Uno dei grandi teorici dell’impresa democratica, Jaroslav Vanek, inizialmente distinse tra cooperative finanziate “dall’esterno” e cooperative finanziate “dall’interno”[2]; e la sua distinzione è stata spesso interpretata come una distinzione tra imprese che si finanziano con capitale di altri e imprese che si autofinanziano. Ma la distinzione rilevante a riguardo è quella tra imprese ove il capitale è retribuito separatamente dal lavoro, le LMF, e imprese ove tutto il reddito viene ripartito tra i lavoratori (tra coloro che hanno partecipato all’attività produttiva nel periodo in esame) e i redditi di capitale vengono pagati solo ai finanziatori esterni, le WMF.

Si consideri allora una LMF, un’impresa gestita dai lavoratori ove il capitale sia retribuito separatamente dal lavoro. Nell’autogestione, per opinione generale, a) tutte le decisioni relative all’attività produttiva, quelle relative al come e quanto produrre e le scelte d’investimento, sono prese dai lavoratori, in base al principio «una testa un voto» e b) i lavoratori si appropriano di ciò che l’impresa ricava dopo aver pagato i costi di produzione, di modo che il lavoro può essere considerato «l’input imprenditoriale»[3]; una LMF si può, perciò, configurare come un’impresa ove i lavoratori “assumono” capitale, pagano a esso un compenso prestabilito e si ripartiscono tra loro i guadagni.

Con più precisione, la contrapposizione tra i due tipi d’impresa può così esprimersi: mentre nell’impresa capitalistica i proprietari del capitale si appropriano del residuo (il profitto) e decidono su di esso in base al principio «un’azione un voto», perseguono i loro interessi e, per far ciò, assumono i lavoratori e pagano a essi un reddito fisso (il salario), nell’impresa democratica, cooperativa o autogestita, i lavoratori sono i titolari del residuo e decidono su di esso in base al principio «una testa, un voto», perseguono gli interessi di tutti i soci e, per far ciò, prendono a prestito il capitale, pagano a esso un reddito fisso (l’interesse) e si appropriano del residuo.

Le imprese democratiche, dunque, non solo non sono imprese capitalistiche, ma, rispetto alle loro rivali, realizzano un vero e proprio capovolgimento del rapporto capitale-lavoro. Come scriveva Beatrice Potter (più nota, poi, come B. Webb) nella sua bella storia del movimento cooperativo, «le persone, non la proprietà, formano la base costituzionale del sistema di Rochdal»[4]. Il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro sta sia nel fatto che nel capitalismo le decisioni sono prese dai capitalisti, mentre nell’autogestione le decisioni sono prese dai lavoratori, sia (e per conseguenza) nel fatto che nel capitalismo i lavoratori hanno un reddito fisso e i capitalisti hanno un reddito variabile, mentre in un sistema di imprese gestite dai lavoratori i capitalisti hanno un reddito fisso e i lavoratori si assumono la responsabilità delle decisioni che prendono e hanno, pertanto, un reddito variabile.

Secondo Marx ed Engels, «il compito di dare alla società un’organizzazione comunista [è quello di] sostituire alla dominazione dei rapporti e della casualità sugli individui la dominazione degli individui sui rapporti e sulla casualità»[5]. Questa sostituzione si realizza appunto con il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro. Tronti ha scritto: «Quanto più il rapporto determinato dalla produzione capitalistica si impadronisce del rapporto sociale in generale, tanto più sembra sparire dentro quest’ultimo come suo particolare marginale. Quanto più la produzione capitalistica penetra in profondità e invade per estensione la totalità dei rapporti sociali, tanto più la società appare come totalità rispetto alla produzione». Ma si tratta appunto di un’apparenza, perché «al livello più alto dello sviluppo capitalistico […] l’intera società diventa un’articolazione della produzione [e] tutta la società viene ridotta a fabbrica, [sicché] il rapporto sostanziale deve essere scoperto dalla scienza»[6]. Se questo è vero, com’è vero, il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro fa sì che il capitale non domini più il lavoro e, quindi, la produzione non s’impadronisca più del rapporto sociale, ma sparisca dentro quest’ultimo come suo particolare marginale.

Ma si può dire che il principio «una testa, un voto» e il capovolgimento del rapporto capitale-lavoro tolgano ogni potere al capitale e lascino liberi i lavoratori? Holloway apertamente lo nega. «Rompere col capitale – egli scrive – non è abbastanza per volare». Il capitalismo «è un processo attivo che ci separa dai mezzi per fare» e, fin quando c’è il capitale, questa separazione è inevitabile. Fin quando il capitale esiste, egli crede, il sistema ubbidisce alle sue leggi. «Il problema non è che i mezzi di produzione siano di proprietà del capitalista, [perché] dire che i mezzi di produzione sono di proprietà dei capitalisti è semplicemente un eufemismo che nasconde il fatto che il capitale rompe il nostro fare quotidiano, ci prende ciò che noi facciamo e rompe il flusso sociale della nostra produzione, che è la precondizione della nostra produzione». «La nostra battaglia, pertanto, a giudizio di Holloway, non è la battaglia per appropriarci dei mezzi di produzione, ma di dissolvere sia la proprietà che i mezzi di produzione»[7]. “Lo Stato è il capitale – scrive ancora Holloway –. Lo Stato è una forma specificamente capitalistica delle relazioni sociali. Lo Stato è così strettamente avvolto nella rete globale delle relazioni sociali capitalistiche che non vi è possibilità di costruire una socialità anticapitalistica attraverso lo Stato, non importa quale partito occupi il governo»[8]. Ma come ciò non sia vero dovrebbe risultare chiaro da quanto scriviamo. E – chiariamo – quella di Holloway non è, a ben vedere, una posizione estremistica, è semplicemente un’opinione sbagliata.

Tornando, dunque, al capovolgimento del rapporto capitale-lavoro, per realizzarlo sembra che occorra che: a) l’impresa democratica non assuma lavoro salariato; b) al capitale sia tolto ogni potere e sia pagato un reddito fisso, indipendentemente dai risultati dell’attività economica.

La condizione a) può sembrare di grande importanza dal punto di vista dei principi ideali, perché solo se abolisce il lavoro salariato la gestione democratica delle imprese può apparire come una vera e propria rivoluzione, con il ribaltamento del rapporto capitale-lavoro che elimini il dominio delle “cose” sull’uomo e rende di nuovo l’uomo padrone degli strumenti della produzione.

Da un punto di vista più concreto, invece, si può dire che, se si vuol configurare un “tipo ideale” di organizzazione sociale che realizzi in qualche modo un “capovolgimento” del capitalismo, la completa scomparsa del lavoro salariato non sia decisiva. Come l’impresa capitalistica, infatti, prende a prestito capitale altrui e va, quindi, configurata, per l’esattezza, come quella forma di organizzazione sociale ove i capitalisti assumono lavoro e capitale altrui, riservano per loro tutte le decisioni e si appropriano del “residuo”, così l’impresa gestita dai lavoratori può essere configurata come quella forma di organizzazione sociale ove alcuni lavoratori assumono capitale e lavoro altrui, riservano per loro tutte le decisioni e si ripartiscono il “residuo”. Il punto centrale a riguardo è che l’assunzione di lavoratori salariati in una LMF deve essere molto limitata e circoscritta solo ad alcune categorie di lavoratori (come i portieri, le cameriere, le commesse, i telefonisti, e altri).

La contraddizione tra capitale e lavoro è la contraddizione principale del capitalismo secondo Marx[9]. Di conseguenza, per chi è marxista, vi è ragione di credere che, se un sistema di cooperative di produzione nasce dal superamento della contraddizione tra capitale e lavoro, esso non si realizzerà, forse, come una necessità ineluttabile, ma vi sono certo forze che tendano a realizzarlo. Il nuovo modo di scrivere la storia di Marx, infatti, «sta nell’individuare tendenze che non hanno la forza di una legge»[10]. Un grande vantaggio della separazione tra redditi di lavoro e redditi di capitale è che, togliendo ai lavoratori delle imprese più efficienti il guadagno dei redditi di capitale, le disuguaglianze distributive, che nel capitalismo sono dovute soprattutto ai redditi di capitale, sarebbero per questo ridotte[11].

Si usa dire che un altro grande vantaggio delle imprese cooperative è che esse tendono ad abolire (quasi del tutto) la lotta di classe. Quanto detto sul capovolgimento del rapporto capitale-lavoro vale, tuttavia, a chiarire che il movimento cooperativo fa proprio leva sulla lotta di classe per realizzare il socialismo e, una volta realizzato un sistema d’imprese cooperative, abolisce quasi del tutto la lotta di classe, perché toglie il potere al capitale. Le considerazioni svolte ci portano a dire che la ferma volontà dei cooperatori, tante volte affermata[12], di tener lontana la politica dalla cooperazione, è un atteggiamento sbagliato.

Su un sistema di cooperative come nuovo modo di produzione

È noto che, prima che Marx scrivesse Il Capitale, Proudhon aveva tracciato il disegno di una società basata sulle cooperative di produzione; e le sue opinioni avevano avuto grande successo tra i leader politici della sinistra dell’epoca. In Germania, in particolare, il partito socialdemocratico aveva nel suo programma la creazione di un sistema di cooperative, che erano considerate imprese socialiste, alternative alle imprese capitalistiche; e in Francia il primo congresso operaio di Parigi del 1876 aveva indicato che la soluzione della questione sociale non si poteva trovare altrimenti che nella cooperazione. Ma poi, a partire dall’ultimo decennio del secolo XIX, il limitato successo delle esperienze di cooperazione che si erano fatte, la critica di Marx e dei marxisti a Proudhon e ai suoi progetti politici di tipo anarchico e, forse anche, la critica di economisti liberali come Pantaleoni (che negò ogni differenza sostanziale tra le imprese cooperative e quelle capitalistiche) misero molti freni alla crescita del movimento cooperativo; e da allora in poi è prevalsa l’opinione che gli interessi dei lavoratori siano difesi meglio dal sindacato che dalla gestione diretta delle imprese da parte dei lavoratori.

Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, le cooperative presero a svilupparsi, esse, ripetiamo, vennero considerate da molti economisti come imprese destinate ad affermarsi e alla lunga a prevalere sulle imprese capitalistiche. Per Mill le cooperative «forniscono un potente stimolo alle attività produttive», «l’elevazione della dignità del lavoro» e convertono le «occupazioni quotidiane di ogni essere umano in una scuola di simpatie sociali e di intelligenza pratica»[13]. Per Marx le fabbriche cooperative «dimostrano come, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme di produzione sociale a esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione»[14]. E Marshall (1889) osservò che le cooperative riescono a utilizzare la grande risorsa di cui il capitalismo fa enorme spreco, la capacità di lavoro degli uomini, e hanno «lo scopo precipuo di migliorare le qualità dell’uomo;» e che, per questo, bisogna sperare (con fondati motivi) che in futuro esse avranno grande fortuna[15].

Ma le cooperative, si diceva, non hanno avuto il successo che ci si aspettava; e ciò per un complesso di ragioni che solo la teoria recente ha chiarito.

La teoria recente è quella che è nata dal contributo di Ward[16], e ha registrato ormai una gran messe di contributi (tra cui quelli di Vanek[17], e del premio Nobel James Meade[18]), e che può dirsi ormai sufficientemente compiuta. Essa ha individuato come tipo puro di cooperativa quella che prende a prestito, dai soci o dall’esterno, il capitale che le occorre, la LMF, che, si diceva, può essere configurata come un tipo di impresa che capovolge letteralmente il rapporto capitale-lavoro e che, per questo, può essere definita «un’impresa dei lavoratori». Di conseguenza, come i fattori principali della produzione sono due, capitale e lavoro, così i due tipi “polari” d’impresa che possono operare in un’economia di mercato sono l’impresa gestita dai capitalisti, che dà vita al capitalismo, e l’impresa gestita dai lavoratori, che dà vita a quello che oggi appare un autentico socialismo. Come affermava il sesto congresso dei cooperatori italiani, «la cooperazione vera è quella che si propone come unico fine quello di proteggere gli interessi della classe lavoratrice, contrariamente a quella dei detentori di capitale»[19].

Questa visione che identifica un sistema di cooperative di produzione col socialismo fu anche quella di Lenin che, l’anno prima della morte, in uno scritto tutto dedicato alla cooperazione, osservò, senza mezzi termini, che, con l’esperienza fatta dopo la rivoluzione, «tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale», tanto che bisogna dire che «la cooperazione coincide di regola completamente con il socialismo»[20].

Allora, quel che questo scritto vuole argomentare, ripetiamo, è che la teoria economica ha configurato ormai un nuovo modo di produzione, alternativo al capitalismo, che ha molti pregi rispetto al sistema economico in cui viviamo e che, se bene organizzato, è perfettamente efficiente, più efficiente del capitalismo. Questa era l’idea di Karl Korsch[21], e Max Adler[22], anche se oggi molti marxisti non accettano questa opinione.

Quel che, però, bisogna chiarire a riguardo è che un sistema di cooperative di produzione non esclude che imprese di piccole dimensioni possano organizzarsi alla maniera capitalistica. Ciò che caratterizza un sistema e che determina chi abbia il potere nella società sono le imprese di medio e di grandi dimensioni; ed è su di esse che noi concentriamo la nostra attenzione.

Fineschi è tra quanti si sono posti la questione se Marx trattò il problema della società del futuro e della sua organizzazione in modo esauriente. Gli scritti sulla Comune di Parigi e la Critica al programma di Gotha trattano indubbiamente il problema, ma – egli scrive – «la questione è naturalmente se questi scritti possano essere considerati organici alla teoria del capitale»; e la sua opinione a riguardo è che il divario «tra l’elaborazione teorica generale e la applicabilità di essa non è stato colmato organicamente da Marx»[23]. Ma poi egli aggiunge: «Ciò non significa che non sia possibile colmarlo» e «Marx stesso ha proceduto saltando le mediazioni ovvero, pur di operare politicamente, non avendone ancora la strumentazione teorica, ha proceduto nel modo seguente: attraverso la dottrina del plusvalore ha dimostrato nel Capitale che c’è lo sfruttamento della classe dei lavoratori e che capitale e lavoro siano i due estremi opposti di un rapporto che definisce essenzialmente il modo di produzione capitalistico».

Quanto scrive Fineschi è una conferma, a nostro avviso, che il socialismo è la gestione delle imprese da parte dei lavoratori, la quale, per definizione, abolisce lo sfruttamento e, capovolgendo i due estremi del rapporto capitale-lavoro, crea un nuovo modo di produzione.

[1] Cfr. B. Jossa, A System of Cooperative firms as a New Production Mode, Londra, Routledge, 2014; Un socialismo possibile, Bologna, il Mulino, 2015; Un marxismo rinnovato, Roma, manifestolibri, 2016.

[2] J. Vanek, «Some Fundamental Considerations on Financing and the Form of Ownership under Labor Management» (1971), ristampato in The Labor Managed Economy: Essays by J. Vanek, Ithaca, Cornell University Press, 1977.

[3] D. Dubravcic, Labor as an Entrepreneurial Input; an Essay on the Theory of the Producer Cooperative Economy, in «Economica», 1970, vol. 37, n. 147.

[4] B. Potter-Webb, The Cooperative Movement in Great Britain, Londra, Swan Sonnershein, 1893, p. 72.

[5] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca (1845-46), Roma, Editori Riuniti, 19693, p. 430.

[6] M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 49-52.

[7] J. Holloway, Change the World Without Taking the Power: the Meaning of Revolution Today, Londra, Pluto Press, 20052, pp. 208-210.

[8] J. Holloway, Is the Zapatista Struggle an Anti-capitalist Struggle? (2003), www.the commoner.org.uk.

[9] Cfr. B. Jossa, A System of Cooperative firms as a New Production Mode cit.

[10] D. Bensaïd, Marx for Our Times, Londra, Verso, 2002, p. 14.

[11] Cfr. T. E. Weisskopf, Toward a Socialism for Future, in the Wake of the Demise of the Socialism of the Past, in «Review of Radical Political Economics», 1992, vol. 24, nn. 3-4, p. 9.

[12] Assemblea costituente, Atti, p. 40001, http://legislature.camera.it/index.asp.

[13] J. S Mill, Principi di economia politica (1871), Torino, Utet, 19533.

[14] K. Marx, «Indirizzo inaugurale e statuti provvisori dell’Associazione internazionale degli operai» (1864), in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1966.

[15] A. Marshall, «La cooperazione» (1889), discorso inaugurale del XXI Congresso cooperative di Ypswich, ristampato in A. Marshall, Scritti sull’economia cooperativa, a cura di A. Zanotti, Bologna, il Mulino, 2014.

[16] B. Ward, 
The Firm in Illyria: Market Syndacalism, in «American Economic Review», settembre 1958, vol. 48, n. 4.

[17] J. Vanek, The General Theory of Labour-Managed Market Economies, Ithaca, Cornell University Press, 1970.

[18] J. E. Meade, The Theory of Labour-Managed Firms and of Profit Sharing, in «Economic Journal», 1972, vol. 82, March, Supplement; The Adjustment Processes of Labor Cooperatives with Constant Returns to Scale and Perfect Competition, in «Economic Journal», 1979, vol. 89, December.

[19] R. Zangheri, «Nascita e primi sviluppi», in R. Zangheri, G. Galasso e V. Castronovo, Storia del movimento cooperativo in Italia, Torino, Einaudi, 1987, p. 157.

[20] V. I. Lenin, «Sulla cooperazione» (1923), in V. I. Lenin, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, p. 433.

[21] K. Korsch, Consigli di fabbrica e socializzazione (1922), Bari, Laterza, 1970.

[22] M. Adler, Democrazia e consigli operai (1919), Bari, De Donato, 1970.

[23] R. Fineschi, Un nuovo Marx: filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008, p. 132.