di Rino Genovese
Gli ingenui che nel dicembre scorso hanno votato Renzi alle primarie per cambiare le cose, o per reagire alla delusione della mancata vittoria di Bersani un anno fa, sono serviti. La smisurata ambizione dell’ex rottamatore era dunque compresa nell’orizzonte ristrettissimo di una manovrina di palazzo architettata in compagnia degli storici maneggioni di quella che nel frattempo, di intrigo in intrigo, è riuscita a diventare la minoranza del Pd. Non si sa se più preoccupati, questi ultimi, dei posti che non avrebbero più ottenuto nel caso di elezioni anticipate, o d’incastrare come a sua volta rottamabile proprio colui che aveva deciso di rottamarli. Il tutto con il consenso attivo di Napolitano che, sotto l’incubo da cui non riesce a destarsi di una possibile fine della legislatura, con uno stile istituzionale da nonno di famiglia anziché da capo dello Stato, nel corso di una cenetta ha dato il beneplacito alla messa in congedo di Enrico Letta senza uno straccio di passaggio parlamentare. Una crisi maturata nelle stanze del Pd – quando ancora si dichiarava, pur punzecchiandolo, la fedeltà al presidente del Consiglio in carica, rovesciando così in poche ore alla maniera dei più consumati politicanti quanto si era detto fino al giorno prima – e terminata con un voto formale in direzione su un breve documento di ridicola vaghezza. Soltanto i sedici che hanno votato contro (tra questi c’è Andrea Ranieri, che mi è capitato di conoscere personalmente e a cui va il mio plauso) hanno salvato non l’insalvabile dignità del loro partito ma quella della politica in generale.
Il programma delle riforme costituzionali, che nelle intenzioni dovrebbe ora arrivare fino a un improbabile 2018, mette noia soltanto a elencarlo, come ha osservato Pippo Civati. Non soltanto perché (è questo soprattutto il caso dell’abolizione del Senato e della sua trasformazione in una imprecisata Camera delle autonomie) non se ne sente un particolare bisogno, ma perché si sa perfettamente che è la foglia di fico che copre la massima cui nella sostanza ci s’ispira: arraffa il potere quando puoi. Quella che ben riassume l’intera prospettiva politica del ragazzotto proiettato dai quiz di Mike Bongiorno a presidente della Provincia di Firenze e poi – saltando di primarie in primarie – a sindaco, alla segreteria del Pd e alla presidenza del Consiglio. Del resto non ci voleva la sfera di cristallo per sapere che un esito del genere era nelle cose per chi, pur presentandosi come innovatore, non aveva disdegnato di essere inserito nella rosa di nomi dell’incarico di governo delle larghe intese insieme con lo stesso Letta, preferito poi da Berlusconi, e (addirittura) con Giuliano Amato.
L’irrimediabile democristianizzazione del partito nato, come si disse, da una fusione a freddo tra ex dc ed ex comunisti, a questo punto è un processo compiuto. Il morto ha mangiato il vivo – ammesso che qualcosa di vivo ci sia mai stato. Ma le correnti della vecchia Balena bianca erano per lo più espressione di potentati locali radicati nel territorio, mentre questo partito che costituisce di fatto da solo la nebulosa neocentrista di cui alcuni (come Mario Monti) erano alla ricerca, è da sempre lacerato dai personalismi. E unisce in sé il peggio della repubblica parlamentare – la tendenza alla manovra – con il peggio di una repubblica presidenziale, peraltro in Italia mai formalmente dichiarata, basata sulla funzione più o meno plebiscitaria del leader. Assurdo pensare di combattere un simile cancro del sistema politico con il palliativo di una sorta di leaderismo sostenibile (auspicato ancora pochi giorni fa dal mio amico Mauro Piras). Perché la malattia è profonda e appunto sistemica.
Alla sua nascita Il Pd non è, come taluni credono, la riedizione in formato ridotto del “compromesso storico” (lontani i tempi di ferro e di fuoco che videro la proposta politicamente dignitosa, anche se puramente difensiva, di Enrico Berlinguer) ma un grave errore strategico nel fronteggiare, in assenza di un quadro normativo capace d’impedirlo o almeno di contenerlo, l’attacco da parte del neopopulismo mediatico berlusconiano. Mentre resta vero che soltanto alleanze ampie possono reggere l’impatto con il populismo grazie a una varietà di culture democratiche al loro interno, è falso che a questo ci si possa opporre con un partito unico dall’identità introvabile, che riproduce per giunta in maniera simmetrica, moltiplicandoli, quei personalismi che nel populismo si esprimono più facilmente in un personalismo solo. Di qui un’inclinazione a rincorrere l’avversario sul suo terreno, nella illusione che alla fine il leader “giusto” possa avere la meglio su quello opposto. Ma questo leader non c’è, mentre solo la paziente tessitura di un programma politico alternativo può contrastare la deformazione della democrazia di cui la sindrome populistica è il sintomo. La capacità di presa del populismo, del resto, non è data soltanto da una malìa nella comunicazione politica, condotta all’estremo nell’uso che Berlusconi ha fatto delle televisioni o in quello che della rete oggi fa Grillo; è resa possibile soprattutto dall’eclissi della sinistra che, perdendo la propria ragione sociale e gli interessi di riferimento (il che è anche il portato storico di un avvenuto mutamento, del fatto per esempio che oggi i variegatissimi ceti medi, anziché gli operai e i contadini, sono il terreno elettorale privilegiato della sinistra), li lascia alla mercé di qualsiasi vento antipolitico.
In questa situazione si può prevedere che il Pd renziano neppure sarà in grado di recuperare quel quattro o cinque per cento di voti che, nelle ultime settimane della campagna elettorale di un anno fa, si spostò secondo gli osservatori dal Pd di Bersani al movimento di Grillo. Il Renzi di governo è destinato a perdere l’allure antipolitica di cui, in concorrenza con il neoqualunquismo grillino, aveva fatto mostra nella sua scalata. La scissione quindi in questo caso non sarebbe, come nei vecchi partiti socialisti, qualcosa di mortifero ma un soprassalto di vitalità, quello che soltanto un organismo in parte ancora sano saprebbe mettere in atto. C’è infatti qualcosa di peggiore di una scissione – una vera e propria implosione – che l’apertura del cantiere di una sinistra né moderata né radicale, semplicemente di una sinistra, potrebbe scongiurare.