Il razzismo fascista, dopo essersi insinuato progressivamente nella società italiana, esplose in tutta la sua virulenza nel 1938. In quell’anno, nonostante l’ideologia del razzismo italiano fosse ancora in costruzione, il regime già la esibiva da una vetrina sfavillante: quella di un nuovo quindicinale, «La difesa della razza». Il periodico fu pubblicato per la prima volta il 5 agosto 1938, poche settimane dopo la diffusione a mezzo stampa del documento sottoscritto da 10 “scienziati” fascisti comunemente noto come il Manifesto della razza. La stretta continuità tra il Manifesto e «La difesa della razza» era rilevabile già dall’editoriale del primo numero, scritto dal direttore Telesio Interlandi, in cui si affermava: «Questa rivista nasce al momento giusto. La prima fase della polemica razzista è chiusa, la scienza si è pronunciata, il Regime ha proclamato l’urgenza del problema». L’antropologo fascista Lido Cipriani, firmatario del Manifesto e redattore della rivista, in quei giorni ne spiegava nei seguenti termini la funzione al ministro della Cultura popolare Dino Alfieri: «Per agire sulle masse italiane in senso razzista occorrerà ricorrere a mezzi molto elementari, che parlino anche agli intellettuali più semplici, colpendone la fantasia e possibilmente il cuore».
Colpire, però, non bastava, bisognava, al contempo, anestetizzare la sensibilità individuale eliminando ciò che, facendo sognare ed emozionare, poteva aprire spiragli su un mondo diverso, da costruire insieme. Non stupisce, quindi, la condanna di tutte le espressioni artistiche non riducibili all’interno del disegno totalitario razzista che il periodico, in un articolo a firma G. Pensabene, così inquadrava: «Uno degli aspetti più caratteristici del disordine artistico al quale assistiamo è senza dubbio questo: […] non solo l’arte staccata dalla nazione, non solo staccata dalla società: ma ormai apertamente contro di entrambe mirando a colpirle nella famiglia che ne è la base». Per mostrare, poi, ai lettori un esempio di quest’arte immorale che attaccava la società e la nazione, colpendone la base costitutiva, ossia la famiglia, fu scelto, tra gli altri, il quadro Il compleanno di Marc Chagall, accompagnato dalla seguente didascalia: «L’amore concepito da un ebreo educato in Francia alla pittura».
Per provare a comprendere a qual punto la distorsione della realtà e l’asservimento dello spirito di molte persone possa arrivare, può essere utile ripercorrere la poetica descrizione del dipinto che attraversa alcune pagine dell’autobiografia della moglie di Chagall, Bella, cui il quadro è dedicato: «Busso sulla tua imposta che spesso lasciavi appena socchiusa, anche di giorno. … Vieni tu ad aprire. … “Indovina, che giorno è oggi? … Oggi è il tuo compleanno!”. Sei rimasto a bocca aperta. … Ti giri, frughi fra le tue tele. Ne tiri fuori una, sistemi il cavalletto. “Non muoverti, resta dove sei” … Ho ancora i fiori in mano. Non riesco a stare ferma. Vorrei metterli nell’acqua. Appassiranno. Ma subito li dimentico. Ti sei gettato sulla tela che vibra sotto la tua mano. Intingi i pennelli. Il rosso, il blu, il bianco, il nero schizzano. Mi trascini nei fiotti di colore. Di colpo mi stacchi da terra, mentre tu prendi lo slancio con un piede, come se ti sentissi troppo stretto in questa piccola stanza. Ti innalzi, ti stiri, al soffitto svolazzi. La tua testa si rovescia all’indietro e fai girare la mia … Mi sfiori l’orecchio e mormori … Ascolto la melodia della tua voce dolce e grave. Persino nei tuoi occhi si sente questo canto, e tutti e due all’unisono, lentamente, ci libriamo al di sopra della stanza abbellita e voliamo via».
Una rappresentazione tra le più poetiche del sentimento che unisce due persone, un’opera che parla di amore, di vita, di futuro è trasformata nello spauracchio di un rapporto che mina, perverte e colpisce la società.
Allora come oggi, il razzismo, l’indifferenza e il cinismo verso la sorte dell’altro, chiunque egli sia, spesso sono alimentati da una narrazione miseramente e strumentalmente manipolatoria e, inevitabilmente, determinano un impoverimento della nostra dimensione umana e sociale. Occorre contrastare questa pericolosa deriva ripartendo dalla capacità di sperare, di immaginare e di riscoprire un sentire e un’umanità comuni, in cui ritrovarci e da cui cominciare a costruire insieme una società più libera, sicura e giusta per tutti.