La nomina di una corrispondente di guerra di provata fede atlantica alla presidenza della Rai e il diktat emerito del «presidente ombra» Napolitano ad accelerare la concentrazione dei poteri nell’esecutivo hanno forse qualche relazione con la nuova fase della guerra nell’area siriano-irachena e in Libia? In Siria, la campagna terroristica-mediatica dell’Isis ha svolto efficacemente il suo ruolo di provocazione e disgregazione, preparando il terreno a un intervento degli Stati Uniti e della Nato, ed è tempo di raccogliere i frutti della semina. Resta da risolvere la questione dell’indipendentismo kurdo, ma a questo ci pensa la Turchia: la no-fly zone nel nord della Siria, stabilita di fatto dalla Turchia e dagli Stati Uniti senza perdere tempo con mediazioni Onu, dal 24 luglio serve a bombardare gli avamposti kurdi, in prima linea contro l’Isis, e a sviluppare l’attacco alle posizioni dell’esercito governativo siriano. Sul piano della diplomazia, l’abile proposta iraniano-siriana (6 agosto) di una soluzione politica del conflitto (cessate il fuoco e nuovo governo di unità nazionale in Siria), non dovrà essere raccolta, provenendo dal vero obiettivo della strategia statunitense e israeliana nell’intera area: l’Iran, fortemente impegnato sul campo nella lotta ai terroristi dell’Isis.
La dittatura militare in Egitto e la preparazione di un intervento diretto della Nato in Libia, usando la testa di ponte del governo filoccidentale di Tobruk, completano il quadro. Guardandosi indietro, nell’intera area del vicino oriente e del Maghreb gli interventi occidentali hanno prodotto nell’ultimo ventennio la distruzione di tre Stati sovrani, laici – l’Iraq, la Libia, la Siria – che comunque garantivano la pacifica coesistenza delle popolazioni di diversa cultura e appartenenza religiosa, ma costituivano un vero ostacolo per le politiche predatorie dell’Occidente, investendo l’intero mondo islamico con un’aggressiva «guerra di civiltà» del Nord contro il Sud che produce, tra l’altro, i flussi migratori dalle zone di guerra che i paesi europei sono incapaci di gestire (è il caso dell’Italia) o non vogliono gestire affatto (dall’Ungheria alla Francia, all’Inghilterra).
A Est, mentre prosegue la guerra «a bassa intensità» in un’Ucraina sempre più divorata dalla crisi economica e avamposto militare atlantico (finanziato e addestrato per questo) contro la Russia, il dato nuovo è la svolta militarista del governo giapponese in funzione anticinese, modificando con «leggi di guerra» una costituzione che ripudia la guerra, per assicurarsi possibilità di attiva partecipazione alle strategie statunitensi in nome di presunti interessi nazionali.
La Cina, certamente dotata di un apparato militare potente, segue una strategia diversa. Padrona di gran parte del debito statunitense, prosegue sulla sua linea di competizione economica con il capitale finanziario occidentale sul suo stesso terreno (borsistico), ma attenta a mantenere una propria autonomia di gioco e strumenti propri (economia reale, sviluppo sostenibile); dal luglio di quest’anno la nuova «Banca di aiuti allo sviluppo» istituita dai Brics (Brasile, India, Russia, Cina, Sudafrica) in alternativa al Fmi, può aprire nuovi scenari economici e politici in tutto il mondo, a partire dall’Africa e, in Europa, dalla Grecia, e innescare nuove tensioni e nuovi conflitti. Nel caso della Cina, l’economia è un proseguimento della politica con altri mezzi.
Il pericolo della guerra nucleare è di nuovo attuale. Non è più la vecchia politica della deterrenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica: le testate nucleari sono disseminate in ogni area e non servono a minacciare, sono semplicemente armi da usare, 16.300 testate di cui 4.350 pronte a essere lanciate, come ci ricorda il più attento osservatore italiano delle strategie militari, Manlio Dinucci («il manifesto», 6 agosto): «E la corsa agli armamenti nucleari prosegue con la continua modernizzazione degli arsenali e la possibilità che altri paesi, anche firmatari del Trattato di non proliferazione, li costruiscano. Per questo la lancetta dell’“Orologio dell’apocalisse”, il segnatempo simbolico che sul Bulletin of the Atomic Scientists indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata da 5 a mezzanotte nel 2012 a 3 a mezzanotte nel 2015, lo stesso livello del 1984 in piena guerra fredda. Quello che scientificamente si sa è che, se la lancetta arrivasse a mezzanotte, suonerebbe l’ora della fine dell’umanità».
In questo quadro complesso e drammatico, il piccolo banco di prova della crisi greca ha messo allo scoperto tutta la fragilità della «spinta propulsiva» dell’Europa a trazione tedesca: non solo l’Europa politica non esiste, ma le élites finanziarie e tecnocratiche europee mostrano tutta la loro incapacità di sostituirsi a una politica che non c’è. Ai governi nazionali resta un ruolo di gestione amministrativa di un potere legittimato dal solo esercizio della forza; agli Stati più deboli del sud Europa non resta neppure questo, condannati a una condizione di crisi strutturale cronica (austerità) e di “crescita” di povertà.
Le «riforme» dell’imbarazzante governo italiano sono un inutile sacrificio all’agonia del capitalismo senile, per di più in un paese in cui il capitalismo è sempre vissuto di assistenza pubblica, di evasione fiscale, di collusione con la criminalità, di frodi di ogni genere (l’eccezione dell’imprenditore liberale Adriano Olivetti negli anni cinquanta-sessanta del Novecento conferma, appunto, la regola). Il quadro è ormai evidente: alle difficoltà insuperabili nell’economia, all’implosione di un sistema politico delegittimato, si tenta di resistere rafforzando l’esecutivo, stracciando la cultura democratica-potenziale della Costituzione del 1948 e i suoi strumenti di contrappeso al potere dell’esecutivo, verticalizzando la catena di comando: ecco allora il Senato non elettivo ma di nominati, un Parlamento svuotato delle sue funzioni, l’abolizione delle Province (comunque un corpo intermedio, certamente più utile delle Regioni), lo sfinimento finanziario dei Comuni che produce la riduzione dei servizi sociali, l’attacco ai diritti del lavoro, ai sindacati, la denigrazione delle opposizioni (ma la piena collaborazione con la destra berlusconiana), il preside-gerarca nelle scuole, il partito unico «della Nazione» (dal Pnf al Pdn, quanto fascismo nell’incultura politica dei nipotini del Pci e della Dc: bella fine!, ma le premesse c’erano tutte).
E naturalmente, siccome anche alle pulci viene la tosse, il governicchio che gonfia il petto le spara grosse ed «epocali»: un inesistente ruolo di primo piano nella politica internazionale, la soluzione della questione meridionale (100 miliardi che non ci sono, per fare cosa non si sa), la liberazione del lavoro (che non c’è) dai vincoli e lacciuoli dei diritti, la meritocrazia nella scuola (scuola pubblica a pezzi e soldi alle private), l’innovazione tecnologica (banda larga per tutti!, semplicemente il dovuto adeguamento agli standard europei, pena multe). In politica internazionale, dopo la fanfaronata del bombardamento dei barconi in Libia, si resta in attesa di ordini Nato per combinare comunque qualcosa di grandioso da qualche parte (ci sta pensando un improbabile ministro degli Esteri).
Mentre il sistema politico italiano implode, e le prossime elezioni politiche muteranno profondamente il quadro, due questioni ci riguardano da subito, e sono vere priorità di pensiero e azione politica: la questione del «potere» e la questione della «guerra», in una fase di progressivo e salutare isolamento del potere oligarchico, politico ed economico.
La «democrazia» è il potere di tutti, l’«oligarchia» è il potere di pochi. Il fallimento del liberismo porta via con sé il liberalismo, l’ideologia liberal-proprietaria che nell’Ottocento e nel Novecento, in Occidente, ha espresso gli interessi delle classi dominanti, a protezione dei rapporti di produzione e di proprietà, e che oggi resta l’ultima copertura di un capitalismo in coma. La democrazia come «potere di tutti» è un processo rivoluzionario di costruzione di esperienze di contropotere, dal basso, preparando le soggettività del cambiamento all’esercizio di un nuovo potere fondato su esperienze di democrazia diretta e delegata con controlli dal basso. Non si tratta di sostituire una classe dirigente «democratica» a una classe dirigente oligarchica, lasciando intatta l’organizzazione della società, i suoi attuali rapporti di produzione e di proprietà. Si tratta di rovesciare la piramide sociale, forti delle esperienze storiche dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo, costruendo reti sociali di progettazione e di azione politica in una prospettiva di «massimo socialismo, massima libertà», costruendo potere di resistenza e opposizione, per poi esercitare la liberazione del «potere di tutti». In molti casi si tratta di riprendere cammini interrotti e rimossi dalla sinistra di sistema, quella «sinistra» di cui Luigi Pintor aveva decretato la morte già negli anni novanta e che oggi fa da ruota di scorta a un sistema (politico ed economico) irriformabile. Ma è questo il terreno fecondo di tante esperienze in corso: dalle reti sociali sulle tematiche dei «beni comuni», ai comitati di cittadinanza attiva sulle tematiche ambientali, alle esperienze di cooperazione tra associazionismo ed enti locali, alle reti di insegnanti e studenti impegnati nella difesa della scuola pubblica, al sindacalismo attivo nei luoghi di lavoro, alle pratiche interculturali e di accoglienza dei migranti, e il quadro, nelle sue positive diversità, è aperto e in divenire. La creazione di relazioni sociali di tipo nuovo, orizzontali e partendo dal basso, dalle periferie, fondate sulle persone attive come «centri» di un potere di tutti costruito nelle situazioni concrete, sulla conoscenza, la critica e l’informazione, sul controllo e la disarticolazione delle catene di comando oligarchiche, libera potenzialità umane e prepara la libera autonomia di tutti, per una realtà che è comunque e sempre di tutti.
La «guerra», che oggi è riservata dall’imperialismo occidentale ai popoli del Sud del mondo, come strumento di predazione di risorse energetiche e di ampliamento dei «mercati», sta coinvolgendo da anni anche l’oligarchia italiana in ruoli di servizio alle operazioni Nato, ed è una voce attiva della produzione e spaccio di armi. Il mandato costituzionale «L’Italia ripudia la guerra» è un lontano ricordo. Dalla dissoluzione della federazione jugoslava alle guerre in Iraq e in Afghanistan, al sostegno delle politiche di guerra di Israele, alle attuali fantasie di occupazione della Libia, le responsabilità dei vari governi che si sono succeduti, di «sinistra» e di «destra» nell’ultimo ventennio, sono enormi. La «comunicazione» asservita al potere ha diffuso e diffonde i veleni del militarismo, di un patriottismo cialtrone da partite di calcio, ed è stata la comunicazione a costruire ignobili fenomeni antisociali come la xenofobia leghista, a costruire l’immagine del «nemico» da distruggere (gli zingari, gli extracomunitari, l’intero mondo islamico…). La guerra non viene combattuta solo sui campi di battaglia; la guerra si fa anche contro il vicino di casa, il povero come te. La guerra, ogni genere di guerra, è la negazione della società di tutti, del confronto, del colloquio, della liberazione dai confini e dagli steccati, dai muri e dalla violenza del potere. «Se vuoi la pace, prepara la pace», insegnava Capitini, rivoluzionario nonviolento, negli anni sessanta. E aggiungeva, con Spinoza: «La pace non è l’assenza di guerra», ma una condizione di consapevole e attiva presenza nella «realtà di tutti». Un obiettivo politico più «concreto»? Fuori l’Italia dalla Nato.