Hollandedi Rino Genovese

È piuttosto grave quello che sta accadendo in Francia dopo il 13 novembre. Un presidente debole, inconsistente, a questo punto forse il peggiore di una Quinta repubblica che pure ne ha visti di pessimi, ossessionato dalla probabile esclusione al secondo turno delle presidenziali nel 2017 – in cui l’unica speranza di rielezione starebbe nel ritrovarsi allo spareggio finale contro Marine Le Pen, riuscendo a convogliare su di sé i voti “repubblicani” –, il mediocre politicante che aveva promesso di lasciare il posto a un altro candidato se avesse fallito nella lotta alla disoccupazione (e la disoccupazione non è per nulla diminuita), sta cercando di cavalcare gli attentati e la paura dei francesi per rilanciarsi come competitore a destra. Non mi riferisco alla proposta di inserire nella costituzione la norma sullo stato di emergenza – una versione francese del Diktaturparagraph, l’articolo 48 della Costituzione di Weimar che permise a Hitler di instaurare il proprio potere per via legale –, o non soltanto a questa (deprecabile ma che sarebbe addirittura il meno, una volta che ci si senta sicuri del fatto che la solidità della democrazia ha espulso da sé il pericolo della dittatura), quanto piuttosto alla volontà d’introdurre nell’ordinamento la “decadenza dalla nazionalità” ai danni di quei francesi condannati per terrorismo che abbiano una doppia cittadinanza. Ora, chi sono questi cittadini che, pur nati in Francia, hanno una doppia nazionalità? Al novanta per cento sono i figli dell’immigrazione post-coloniale. In questo modo, nella République dotata della civiltà dello ius soli, per cui chi nasce sul territorio francese è per ciò stesso francese, si verrebbe a creare un cittadino di serie B, che può decadere, rispetto a uno di serie A che non lo può. Non c’è che dire, una bella declinazione del principio di eguaglianza davanti alla legge.

Molto giustamente Le Monde scrive che questo vuol dire rendere banale la xenofobia dell’estrema destra. La proposta della “decadenza dalla nazionalità” viene infatti da Marine Le Pen, poi ripresa da Sarkozy, mentre la sinistra vi si è sempre opposta. A pensarci bene, non è neppure una misura puramente simbolica – dopotutto, dice qualcuno, che cosa volete che gliene importi a un terrorista votato al martirio della nazionalità francese? –, è una scelta politica che suonerà alle orecchie di quella fetta di popolazione che vive nelle banlieues, e si sente esclusa, come una conferma dell’esclusione: vedete come vi trattano – potranno dire i predicatori del jihad –, che aspettate a convertirvi? La scelta è politica perché significa che, all’inconsistente presidente di cui sopra, sta bene perfino rischiare l’incremento del reclutamento jihadista pur d’inseguire la destra e tentare, così, di porsi come il competitore di Marine Le Pen nel 2017. Il calcolo è meschino, magari anche sbagliato, in quanto induce una parte dell’elettorato di sinistra e un’intera comunità – quella musulmana – all’astensione: sicché si può finire col perdere da una parte quello che si guadagna dall’altra, ma poco importa: fare la faccia feroce dopo un attentato è ciò che prescrive il manuale del buon politicante.

C’era invece, nel programma del candidato socialista alle elezioni presidenziali del 2012, la proposta del diritto di voto agli stranieri. Naturalmente è rimasta lettera morta – ma sarebbe stata questa una risposta d’inclusione, un segnale contro il malessere che regna nelle periferie della metropoli post-coloniale. Un presidente minimamente serio l’avrebbe ripresa proprio all’indomani degli attentati del 13 novembre, al fine di spingere quella parte della popolazione francese che si sente abbandonata dalla République a non sentirsi più tale. Includere per prevenire – ecco lo slogan che si sarebbe dovuto lanciare. Si è fatto tutto il contrario, rinunciando ai propri valori. Bisognerà vedere se ciò servirà al Partito socialista a comprendere che è venuto il momento di ribellarsi cambiando il candidato alle prossime elezioni presidenziali.