Matteo Renzidi Rino Genovese

“Matteo Renzi si sta preparando a perdere le prossime elezioni. Domani potrebbe apparirci addirittura brillante il deludente risultato ottenuto da Bersani l’anno scorso”. Così scrivevo il 3 febbraio 2014 nel sito “Le parole e le cose”. Ogni Cassandra guarda lontano: e se anche di mezzo ci fu il 40% e passa alle elezioni europee, la profezia infine si è avverata con lo scarso 19% raggiunto dal Pd nel 2018, a conferma che la linea politica di Renzi era tutta sbagliata. Mettere mano a complesse e fallimentari riforme istituzionali fu infatti un errore, mentre se il rottamatore oggi rottamato fosse andato a elezioni anticipate, magari già nel 2015 dopo una semplice modifica della legge elettorale, le avrebbe probabilmente stravinte. C’è stata inoltre una pervicace volontà di rottura a sinistra, il jobs act e il resto, cioè l’incapacità di avviare una qualsiasi politica di spesa pubblica a fini ridistributivi, pure in un momento in cui l’economia riprendeva quota, senza con questo peraltro riuscire a drenare voti da destra: tutto ciò ha determinato la sconfitta del Pd, specialmente in un Mezzogiorno abbandonato a se stesso.

Renzi è adesso arroccato in una posizione priva di senso comune – a parte quello di salvare se stesso e la sua combriccola che, grazie alla composizione delle liste elettorali, ha una sicura maggioranza nei gruppi parlamentari. Ma questa posizione è di danno per il paese. Fare il tifo per un governo che potrebbe nascere dall’accordo tra grillini e fascioleghisti, con la speranza di poter poi lucrare dall’opposizione, è da irresponsabili. Vuol dire, tra l’altro, non avere alcuna idea chiara intorno ai populismi odierni, non avere compreso come la concorrenza ma anche l’alleanza tra loro potrebbe coprire un’intera fase storica – soprattutto se l’Europa dovesse restare ancora a lungo quella ottusamente conservatrice che abbiamo sotto gli occhi. I sovranismi di estrema destra e di “estremo centro”, se così si può definire la specificità grillina, hanno il vento in poppa. Anche da una collocazione classicamente centrista, come quella di Renzi e dei suoi che sembrano mirare a un’intesa europea con Macron, ci si dovrebbe porre il problema di fermarli. E come farlo se non provandosi a dividerli?

Ricordo che Togliatti (altri tempi) tentò un’interlocuzione parlamentare con Guglielmo Giannini. Era il momento del degasperismo trionfante, e – anche grazie alla mediazione di Achille Lauro che era allora qualunquista – la Dc riuscì a tenere il controllo della situazione, assorbendo un po’ alla volta i voti qualunquisti, mentre Giannini finiva isolato (si presentò in seguito nelle file del Partito liberale). Questo per dire che un partito che abbia una bussola può lanciarsi nelle convergenze parlamentari le più spericolate.

Non si tratta di chiedere tanto al Pd odierno, che non ha né una precisa identità né una bussola. Gli si chiede però di non restare prigioniero di una preclusione assurda, con il solo scopo di prolungare l’agonia di un gruppo dirigente ormai sconfitto dai fatti. Gli si chiede di non chiudersi a riccio dinanzi all’ipotesi di un appoggio esterno – contrattato o persino non contrattato – a un governo che eviti l’abbraccio tra i due populismi oggi maggioritari. Questo nell’interesse del paese.