di Angelo Tonnellato
Chi ha letto su «la Repubblica» di domenica 23 agosto lo splendido e sapiente articolo di Gustavo Zagrebelsky, Se la Costituzione resta nascosta dietro una diatriba tutta politica, sulla difficoltà (o piuttosto impossibilità) di prendere posizione rispetto al sì/no che saremo richiesti di esprimere, fra qualche settimana, sulla riforma che riduce il numero dei parlamentari – portando da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori – avrà certo apprezzato e gustato la bella e acuta funzionalizzazione che l’illustre costituzionalista ha compiuto del cosiddetto «paradosso dell’asino», attribuito a Jean Buridan, allievo di Occam – quello del rasoio, per intenderci – e rettore della Sorbona fra il 1327 e il 1348. Uno scholasticus divenuto celebre per un “paradosso” che, in realtà, non è suo. Introvabile infatti tra i sophismata Buridani, il paradosso, in forma diversa ma sostanza uguale, circolava quanto meno dai tempi di Aristotele; ed era familiare anche a Dante, che lo mette a verbale nel IV del Paradiso, il canto dei dubbi del poeta sui voti inadempiuti e dei correlativi responsa di Beatrice:
Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
che liber’omo l’un recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo
sì si starebbe un cane intra due dame
Incerto nella scelta fra due identiche provviste – due mucchi di fieno e un secchio d’acqua collocati da un lato e altrettanti messi a disposizione da un altro – «un asino affamato e assetato […] resta fermo e muore». La “storiella” è per la verità un po’ inverosimile, se riguardata dal lato, diciamo così, dell’asino che pur ne è il protagonista: come scrisse nel 1881 il dantista Antonio Gualberto De Marzo, rilanciando un’obiezione anch’essa assai più antica, «è da dubitarsi però se l’asino di Buridano avesse avuto la compiacenza di morir di fame per fare onore a questa legge dell’equilibrio».
Quell’incertezza appare meno inverosimile e anzi addirittura plausibile se la si metta in rapporto al punto di vista non dell’asino ma di un filosofo o anche d’un giurista.
Come osservato da molti nel corso dei secoli e, ultimamente, da Francesco Rende, può concedersi che un asino non morirebbe mai di fame e di sete per una difficoltà di scelta tra due identiche fonti di approvvigionamento; mentre ben potrebbero lasciarsi morire nell’incertezza altri soggetti – il filosofo, il giurista; ma non solo – capacissimi di scegliere di non scegliere e però compiendo comunque una scelta. L’asino, scrive Zagrebelsky, dopo aver soppesato le ragioni o i torti degli uni e degli altri, «preferirà voltarsi e andarsene altrove». Che è ovviamente conclusione difforme da quella dell’apologo, in cui invece l’asino muore – e purtroppo deve morire – per stare in equilibrio. Ma quella dell’andarsene senza morire ben può essere una “variante” provvidenziale e, perché no?, anche necessaria. Un po’ come quella immaginata da Francesco Gaeta, strambo poeta e strambissimo amico di Benedetto Croce, che si era fatto in testa una diversa conclusione del deamicisiano Cuore, immaginando, e vivamente credo auspicando, che Enrico, dopo una serie di traversie, finisse in galera.
Ritornando all’articolo di Zagrebelsky, l’asino che, senza morire, se ne va per i fatti suoi, sommando varie ragioni «per starsene costituzionalmente sulle sue», esercita la “sospensione del giudizio”, che il giurista gli suggerisce o impresta, per consentirgli di sottrarsi al «processo alle intenzioni» che il giurista (non sappiamo se anche l’asino) ritiene che sorregga e finalizzi le ragioni tutto sommato meramente politicistiche sia di chi approva che di chi disapprova la riforma. Tertium datur, insomma, nunc et semper.
Una buona via d’uscita dal dilemma è pur sempre, dacché mondo è mondo, la terza; quella che rispetto all’esortazione di Matteo – sit autem sermo vester est est, non non – introduce il sacrosanto diritto di non scegliere. Nel caso concreto il presidente emerito della Consulta allega, a sostegno della sua scelta di non scegliere, l’inattinta (dai fautori del “sì” e del “no”) complessità specificamente costituzionalistica della questione. La qual cosa può benissimo essere vera; e anzi non avrei difficoltà a crederla vera. Il corollario tanto inevitabile quanto non necessario è la riconduzione delle motivazioni di entrambe le posizioni a un «processo alle intenzioni» che i sostenitori del “no” volentieri incardinano a carico degli altri e che i secondi ricambiano non meno accanitamente. E infatti Zagrebelsky equanimamente smonta o relativizza sia gli argomenti a favore che quelli contrari, intravedendo, dietro i primi, quanto nella falda dei secondi, «una diatriba tutta politica». Non è il caso di sottolineare quanto dell’argomentazione di Zagrebelsky dipenda, non meno delle argomentazioni da lui impugnate, da un «processo alle intenzioni» di ciascuna delle parti in contrasto.
Ma è poi così grave prendere posizione processando le altrui intenzioni? E la sacrosanta opposizione di Zagrebelsky alla pseudo-riforma costituzionale Renzi-Boschi non incorporava una buona quantità di processo alle intenzioni del tandem? Legittimamente, peraltro; perché in quel caso non solo le intenzioni erano cattive, ma pessime sarebbero state anche le conseguenze non meditatamente volute dai male intenzionati.
E il corpo elettorale che pochi mesi prima aveva incoronato Renzi cosa crede Zagrebelsky che abbia fatto, un corso accelerato di diritto costituzionale?
Sembra che Demostene ritenesse non solo possibile ma addirittura doveroso fare il processo alle intenzioni. La psicoanalisi relazionale ci apprende che «la mente umana pare predisposta sin dalla più tenera età a interpretare i comportamenti degli altri in base alle intenzioni. Le teorie psicologiche sono attraversate da questo processo attributivo, per cui assai spesso i contenuti comportamentali vengono riferiti ai possibili significati intenzionali. […] L’attribuzione delle intenzioni è anch’essa un processo mentale che ci dice assai più di colui che lo elabora che non di colui che, in questo modo, si vorrebbe spiegare» (Michele Minolli, Psicoanalisi della relazione, Milano, Angeli, 2009, p. 72).
Non vorrei però dilungarmi oltre su questi profili (suggerirei, a chi avesse desiderio di leggere qualche dotta e simpatica pagina sul tema, di ricorrere a Bruno Nardi, Liberum de voluntate iudicium, «Studi danteschi», XXVI, 1942, pp. 119-135); e, meno che mai, sull’aspetto psicoanalitico, che per me costituisce un vero e proprio munus alienum su cui non saprei fare di meglio che tacere.
Approfitto di quel che resta dello spazio disponibile per dire che voterò “no”, senza pretendere di non incorrere (e anche invero senza molto angosciarmi, incorrendovi) in quella serie di sconvenienze politiche e ideologiche che danno corpo alla zagrebelskyana ripulsa del “processo alle intenzioni”.
La storia delle istituzioni parlamentari, della rappresentanza, e, se vogliamo, della stessa base elettorale – dalle minuscole dimensioni degli elettorati censitari o ottimatizi al suffragio universale – è anche una storia di intenzioni e processi alle intenzioni, di esigenze e interessi contrapposti o differenziati e conseguenti processi a essi. E, nondimeno, tale è anche la storia del costituzionalismo moderno, quanto meno dal lato delle aspirazioni, dei programmi e dei progetti che l’hanno animata e la animano.
Potrei facilmente convenire che il numero dei deputati e dei senatori non sia il punto decisivo della questione. Non è detto che 945 eletti rappresentino gli italiani più o meglio di 650; ma non è neanche detto che l’inefficienza dell’istituzione sia rimediabile tagliandone gli appartenenti. Con la stessa “logica” si potrebbero (e dovrebbero) dimezzare o trimezzare il Governo (ministri e sottosegretari), la Corte costituzionale e quella di Cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, i consigli e le giunte regionali e comunali, il numero delle Autorità cosiddette “indipendenti”, delle procure, dei tribunali, delle Asl e delle scuole. Ma si potrebbero anche dimezzare o “trimezzare” i collegi delle sezioni della Cassazione, delle corti d’assise e di quelle d’appello.
Del resto, come dice il teorema di Condorcet sulla giuria, il calcolo delle probabilità suggerisce che, atteso che è la volontà della maggioranza dei decisori a garantire la praticabilità della decisione, una giuria ideale dovrebbe essere composta da un solo giurato. Se la riduzione degli organici favorisce la praticabilità delle decisioni, la loro efficienza e un arginamento della corruzione, non si capisce perché il rimedio funzionerebbe con gli organi elettivi e non anche con gli altri.
Vero è – verissimo, anzi – che l’Assemblea costituente non voleva un alto numero di parlamentari. Dopo una dura battaglia si cercò di stabilire un criterio – allora quello demografico era il più naturale – che comportasse circa 500 deputati e 250 senatori. Per questo motivo la popolazione, che in origine si era pensato di dividere per 100.000 fu poi divisa per 80.000. Non c’erano numeri arcanamente più nobili dei loro multipli o sottomultipli; si cercò una fava che prendesse due piccioni: un certo numero di eletti senza inserire in Costituzione un numero fisso.
Il numero fisso fu stabilito con la legge costituzionale 9 febbraio 1963 n. 2, paradossalmente proprio per scongiurare incrementi dovuti alla crescita demografica. Per inciso: anche in periodo regio il numero dei deputati non era fisso: 443 nel 1861, 493 nel 1865, 508 dal 1870: quando la popolazione era la metà di quella di oggi e gli elettori solo pochissime centinaia di migliaia.
Certo, in Costituente i liberali, tramite Aldo Bozzi, presentarono una formulazione dell’art. 56 che istituiva un numero di deputati «non superiore a 450». Avendo deciso di disubbidire a Zagrebelsky riguardo al divieto di processi alle intenzioni, appongo una chiosa meramente constatativa: con l’elettorato censitario i liberali non disdegnavano un alto numero di deputati; con il suffragio universale cambiarono idea. Succede anche questo. Poi le ragioni eminentemente costituzionalistiche si trovano sempre. Coi sillogismi giuridici funziona sempre così.
L’ineffabile Federico D’Incà, ministro delle Riforme istituzionali, rivendicando continuità tra le cogitazioni sue e dei suoi (M5S) e l’elitista Luigi Einaudi (coerentemente contrario anche alla Corte costituzionale) senza dimenticare la comunista Nilde Iotti (teoria dei due forni) ha asserito che essendo stata la riduzione del numero dei parlamentari una costante di tutte le bozze di riforma costituzionale di destra, centro e sinistra si può tranquillamente dormire fra sei guanciali (Parola di ministro la riforma non si fermerà al numero degli eletti, «la Repubblica», 22 agosto 2020). Se tutti l’hanno chiesta – indipendentemente dai contesti riformatori profondamente differenti e spesso confliggenti, di cui ovviamente D’Incà poco si cura – vuol dire che la cosa è ipso facto buona in sé. Non è certo un arduo argumentum ontologicum – sarebbe piuttosto, per quanto innocuo e bonario, solo un argumentum ad baculum –, ma da D’Incà chi mai si aspetterebbe di più e di meglio?
Di suo il ministro ci mette l’aritmetica al servizio del legittimo suo desiderio di portarci in Inghilterra. E per conseguire il risultato fa, involontariamente, certo, la stessa operazione dei costituenti. Stabilito che il numero giusto è 450 + 200 = 650 cerca il divisore “giusto”; e, trovatolo, tira fuori dal cilindro anche il paese con il quale istituire la comparazione. Che sia venuto fuori il Regno Unito è del tutto casuale; ma – non c’è che dire – “ci è andata di culo”: il pallottoliere di D’Incà poteva anche portarci chissà dove. Il ministro si imbroglia un po’ con i numeri, ma non importa. Come ho appena detto il divisore come approssimazione possibile alla rappresentatività della rappresentanza è stato inventato in Costituente e quindi non si può negare ai riformatori d’oggi di beneficiare della stessa facoltà, pur essendo quella di cui si parla adesso solo una degradazione cosmicomica di quella.
La riforma su cui siamo chiamati a esprimerci, invero, il problema della rappresentatività della rappresentanza non se lo pone né dal lato dritto, né da quello rovescio. I costituenti se lo posero, e lo risolsero indirettamente, vincolando il “sistema” a una legge elettorale proporzionale senza soglie di sbarramento; e quindi a quello che Leopoldo Elia avrebbe poi definito «multipartitismo estremo». Un referendum nel 1993 cancellò il proporzionale, ma il bipolarismo forzato che ne è conseguito se ha cancellato il «multipartitismo estremo» lo ha surrogato con gli estremismi e i gruppettarismi personalistici insediati nel cuore dei sedicenti “poli”. Le leggi elettorali susseguitesi dopo il Mattarellum, tutte giustiziate dalla Consulta, hanno mostrato che la rappresentatività della rappresentanza era solo l’ultimo dei problemi dei legislatori elettorali, spintisi negli anni a deprivare l’elettore anche del modesto potere di preferire un candidato. Fino al pazzoide Rosatellum che la riforma non sfiora nemmeno.
Grosso modo il Regno Unito, a parte le altre numerose e non lievi differenze sistemiche, elegge i membri della Camera dei comuni sulla base di un rapporto secco tra parlamentari da eleggere e collegi in cui eleggerli: 650 deputati vengono eletti in 650 collegi (533 in Inghilterra, 40 nel Galles, 59 in Scozia e 18 in Irlanda del Nord).
L’Italia invece elegge i suoi deputati con un mix di collegi uninominali (l’ultima volta credo che fossero 232) e plurinominali (anche qui credo che siano stati ultimamente 398) che mandano a Roma non meno di 3 e non più di 8 eletti. Con gravi problemi sia riguardo alla tutela delle minoranze che al buon esito dell’effettiva attribuzione dei seggi in palio per motivi su cui, qui e ora, non ci si può dilungare. Vero che la riforma entrerà in vigore dalle prossime elezioni; ma non è detto che per quella data (che poi potrebbe essere anche la prossima primavera) sarà stata approvata una nuova legge elettorale idonea a rimediare ai pericolosi vulnera che il mero taglio apportato produce.
Eleggeremo cioè un deputato ogni 151.250 abitanti; e un senatore ogni 302.500 abitanti. Per aversi un rapporto meno squilibrato dobbiamo sommarli all’uso di D’Incà (600 parlmentari, uno ogni 108.000 abitanti, lasciando da parte i 4,3 milioni di elettori esteri che non sappiamo quale sorte abbiano nella contabilità del ministro).
A me francamente piace l’anglomania di D’Incà: non sarà quella di Cavour e Minghetti, e nemmeno di Mario Praz, ma è pur sempre qualcosa. E, come si sa, e come diceva Matteo Maria Boiardo, «principio sì giolivo ben conduce». Ora, poiché in Italia abbiamo 453 addetti (sommando, D’Incà docet, polizia, carabinieri, inclusi, almeno fino a questo momento, i forestali, guardia di finanza) ogni 100.000 abitanti, mentre nel Regno Unito ne hanno 211 per lo stesso numero di abitanti, possiamo sperare o disperare che D’Incà ci porti con sé e i suoi cari a Londra anche sotto questo riguardo?
Non vorrei sembrare irriguardoso, ma leggendo l’articolessa di D’Incà mi è venuto in mente un personaggio al quale il nostro ministro credo che molto somigli con la sua determinazione a perseguire il bene: donna Prassede. «Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene, mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono».
E del resto diceva Sciascia che I promessi sposi sono da sempre «il più esatto e disperato ritratto dell’Italia come era, come è e come speriamo non sarà in avvenire»; «un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano».
Banalmente parafrasando ciò che, acutamente, il «conservatore rurale» Stefano Jacini osservò a proposito del diffuso antiparlamentarismo postunitario, potremmo dire che, ancora oggi, in materia di funzionamento e rappresentatività del parlamento, possono darsi «rimedi da medico» oppure da «maniscalco di campagna» (Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866. Lettera agli elettori di Terni, Firenze, Civelli, 1870, p. 80).
La revisione costituzionale che applica tagli lineari al numero dei deputati e senatori eleggibili è, con tutto il rispetto per la benemerita categoria che, in senso proprio, si prende cura dei cavalli, un «rimedio da maniscalco». Interviene sul numero, e solo sul numero, per stimolare e imbizzarrire, da un lato, e appagare e soddisfare, dall’altro, una pulsione che è senz’altro popolare, né più e né meno di quanto lo siano quelle contro i migranti o a favore della pena di morte.
È certo difficile difendere non l’istituto parlamentare ma la sua concreta incarnazione nell’Italia degli ultimi decenni; e però, a fronte di rumoreggianti sottoculture politiche estranee sia alla tradizione del Risorgimento che a quella della Resistenza, occorre quanto meno convenire con Cavour: la peggiore delle camere è preferibile alla migliore delle anticamere. Non mi commuovo le poche volte che vedo un “pienone” alla Camera; non mi dispero quando la tv rimanda le immagini di una Camera squallidamente popolata da uno sparutissimo pugno di inquilini. Disse una volta Francesco Saverio Nitti che «si può parlare ad Aula piena di grandi questioni; ma appena si entra nelle questioni particolari […], per lo stesso regime parlamentare, è utile qualche volta che non assistano troppi deputati alle discussioni».
Troppi deputati? Può darsi. Un tempo erano i deputati a dire lo stesso della cosiddetta società civile: Camera dei deputati, tornata del 30 giugno 1902 (Atti, p. 3849): «Dice un onorevole collega che se ne intende: troppi filosofi!». Una voce: Troppi avvocati!». Un’altra voce: Troppi medici! (Si ride).
La concretezza – e non poteva essere altrimenti – del nodo della rappresentatività della rappresentanza la pose con la prensile intelligenza del combattente di tante e difficili battaglie elettorali. Gaetano Salvemini in un articolo pubblicato su «Il Ponte», fin dai tempi dell’elezione della Costituente:
Ma non c’è nessuna proporzione fra il numero dei deputati che la maggioranza e le minoranze conquistano e il numero dei voti riportati da ciascuna di esse. Un candidato può essere eletto con mille voti in un collegio in cui non c’è vivacità di lotta; mentre un altro può avere avuto bisogno di 20.000 voti nel collegio vicino, in cui la lotta fu vivacissima (G. Salvemini, Come eleggere la Costituente?, «Il Ponte», n. 8, novembre 1945, p. 672).
Aveva certo in mente e forse nel cuore le sue battaglie a cavallo tra Otto e Novecento nel Mezzogiorno contadino a analfabeta; e la durezza dello scontro nei collegi uninominali per l’istruzione, la salute dei lavoratori, l’orario di lavoro, la protezione del lavoro femminile e minorile, il buongoverno locale, la cura della comunità. Ma il problema che aveva additato, mutatis mutandis, era, ed è, il problema capitale. Da questo punto di vista la riduzione del numero dei parlamentari per risparmiare qualche soldo – senza ricostruire la rappresentatività diretta e territoriale alla rappresentanza ma confidando nella capacità di sfondamento dei populismi e nelle loro periodiche “ola” che permettono l’elezione di parlamentari che hanno collezionato dodici nomination sulla piattaforma Rousseau e sei preferenze in cabina elettorale – è il Nerone di turno che aizza la plebe al Circo massimo; è l’ennesima, epifenomenica, degradata manifestazione di un anti parlamentarismo che in Italia ha una lunga e nefasta tradizione; tanto nefasta da essere nato addirittura prima dei parlamenti.